"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
“Ma non ho capito, la colpa è dei militari americani o dei cinesi che mangiano i pipistrelli?” “ma no, il virus è scappato da un laboratorio!” “Ma la parabola deve per forza venire curva?” “Y è la freccia su, giusto?” “Ma alla fine a scuola ci torniamo o no?” “Ma no, la min…ra ha d…o ch… si...o t…ti prom…si” “Eh? Non ti sentiamo!” “Prof, mi sente?”
La virtualità della scuola ai tempi del coronavirus non sta solo nelle piattaforme, nei compiti da scaricare, nelle videolezioni, in quei discorsi troncati da una caduta di linea… sta anche, o forse soprattutto, nella virtualità intesa come simulacro del reale, nella surrealtà dei suoi tentativi, nel cubismo di quei volti pixellati. “Didattica virtuale” ha un bel suono, innovativo e dal sapore futuristico. Eppure, in questi pomeriggi di videochiamate, non ho avuto l’impressione di fare vera didattica, né di insegnare alcunché .
Sarà che nella classe sono l'insegnante di sostegno, ma il mio lavoro, in queste settimane, è stato molto simile a quello del cane da pastore, che cammina affianco al gregge con particolare attenzione su chi non segue il passo, andando a cercare chi si è perso, che sia per una china troppo ripida, per noia o per un problema di wi-fi.
E dopo ci si prova a far capire il fuoco e la direttrice, a confutare le fake news, a spiegare che molti dei loro interrogativi sono anche i tuoi, sperando che tutti rimangano in linea almeno fino alla fine della frase. Perché se la connessione viene a mancarti da sotto i piedi nel momento in cui sei più dentro alla complessità del reale, l’onda virtuale dei luoghi comuni, dei complottismi, della faciloneria può far crollare ogni tentativo di guardare con distacco questo mare nero in cui tutti stiamo a fatica galleggiando, ricacciandoci ancora più giù. E così si surfa in superficie, non ci si addentra davvero in niente, si passa in un attimo dai dati dei tiggì alla Guerra dei Cent’anni, si fingono di non vedere gli sguardi al di sopra dello schermo nelle interrogazioni, non esiste più nessun contesto, nessuna divisione, nessun vero contenuto.
E si continua così, un giorno dopo l’altro, come su una parabola che sembra non curvare mai.