"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Solo il cinema

Alberto Momo

Alcuni anni fa, e ora che ci penso è passato un quarto di secolo, c’era un piccolo festival di cinema in Francia a Dunkerque, sull’oceano Atlantico, quasi al confine col Belgio. Lì potevi vedere Perdizione di Béla Tarr, La commedia di Dio di Monteiro o Dok’s Kingdom di Robert Kramer. Potevi mangiare la sera le ostriche con Jean-Claude Biette e soprattutto parlare con Steve Dwoskin, il grande sperimentatore americano che viveva a Londra.

Quell’anno Dwoskin era nella giuria del concorso, e sfruttando la sua posizione gli avevo chiesto quali film non dovessi perdere. La sua risposta, nel suo stile conciso e prezioso, è stata: ci sono pochi film che vedono.

Per molti anni questa fu la mia principale lente critica per guardare al cinema. Ci sono film che vedono e ci sono film che non vedono. Magari mostrano molto, fin troppo, ma alla fine sono ciechi.

Con il tempo le mie aspettative rispetto al cinema si sono abbassate. Soprattutto verso il cinema che ahimè si professa d’arte, quello che vince i festival più di tendenza, quello che fa più eccitare la critica. E spesso mi è sembrato che il problema risiedesse nell’eccessivo formalismo che, secondo le mode del momento, rischiava di soffocare la vita.

L’esempio più lampante è un certo ricorso alla durata, in una prospettiva che forse ha frainteso le lezioni di maestri come Tarr, Straub, o Diaz e Wang Bing. Una durata che non prevede rivelazioni epifaniche, che non ci immerge nel tempo delle cose, ma che si accontenta di una contemplazione consolatoria e estetizzante - come spesso accade nella videoarte, dove l’innamoramento per il dispositivo non prevede mai uno scarto, uno scatto, e una volta riconosciuto, il meccanismo si richiude su se stesso.

Per questo motivo, sempre di più, ora mi accontento che un film conservi anche solo una traccia di vita. Una sensazione che oggi - chiusi in casa davanti a un monitor o a un videoproiettore, con la vita sempre più alienata e l’impossibilità di celebrare almeno il rito sociale e collettivo della sala - si fa sempre più forte.

Ho amato molto l’incipit di Undine, l’ultimo film del regista tedesco Christian Petzold. Si alternano i primi piani di una coppia che sta per lasciarsi. Sguardi, occhi che si abbassano, o che cercano un approdo nel fuoricampo. Piccoli gesti, una mano che sposta i capelli. E lì ho ritrovato la vita. Quella che si trova solo nel cinema. Nel cinema irriducibile agli algoritmi di Netflix e delle grandi e piccole produzioni, e così distante dal dicibile, che a differenza del visibile, struttura ad esempio la maggior parte della forma seriale. Solo il cinema.

Non è un caso che mi venga da citare una definizione di cinema che era il titolo di un capitolo delle Histoire(s) du cinéma di Godard. Anni fa, e qui invece non ricordo il titolo, Godard aveva realizzato un piccolo film per la sua esposizione al Centre Pompidou, sulle ragioni per continuare a fare (e vedere) il cinema. E oltre a dei piani di una partita di tennis, c’era una sequenza di un film di Vincent Gallo, The Brown Bunny dove una coppia si incontrava, e si lasciava, intorno al tavolino di un bar all’aperto. Anche qui poche parole, quasi un film muto. Corpi, sguardi, piani. Cinema.

Quello che trovi nell’ultimo, meraviglioso, film di Philippe Garrel Le sel des larmes. Incontri, quasi scene primitive dove l’incontro intimo, mai realmente raggiunto, svela il sovrapporsi della forma finita e di quella infinita, del visibile e dell’invisibile. In un’antidrammatizzazione che mi fa spostare le parole di Steve Dwoskin dalle parti di Bresson.

La stessa pigrizia che mi fa chiudere questi brevi appunti sempre con parole di altri. In questo caso di Manoel De Oliveira che alla mia domanda, ottusa, su quale età avesse il cinema, per lui che aveva iniziato con il muto per finire un secolo dopo, mi rispose semplicemente: ha la stessa età di quando è nato. L’uomo, e la vita, resta un mistero, e il cinema cerca di proiettarci sopra le sue luci (e di ingannarlo con le sue ombre).

 

 

Hideo Kojima

Monday, 21 November 2016 09:21

Solo un gioco

Alberto Momo

La serata era così calda che mai avrei creduto di incontrare il cinema. E tanto meno vederlo liberarsi da delle lenti che imprigionano dei cristalli liquidi. Ma si sa, il cinema lo trovi dove meno te lo aspetti. Almeno così mi succede negli ultimi tempi. È l'ospite inatteso, delle volte mascherato, altre nascosto, che ti sembra di riconoscere in un volto illuminato su un tram che ti scorre davanti o nelle luci di una città che di notte si dissolve sulla superficie di un fiume. Così vado a cercarlo inforcando la bicicletta, invece di entrare in una sala (soprattutto ora che le arene estive sono più rare delle lucciole).

 

Attraversata la città, mi trovo sprofondato in un divano incassato nella piega di un sottotetto. Nel Paradiso di Feif, come lo chiamano i miei figli. Pochi metri quadri cucinati dal sole qualche piano sopra l’abitazione di un caro amico che qui organizza la sua dolce reclusione. Ogni oggetto è una traccia. Di un mondo di affetti, di un paesaggio che accoglie quel che sopravvive della sua infanzia. Pile di videogiochi, qualche volta raccolti in scrigni pop e fantasmagorici. Modellini in scala di personaggi tra i quali non ne riconosco che qualcuno di Guerre stellari. Poster di eroi digitali nobilitati da scritte autografe in giapponese. Un grande schermo al muro con tentacoli di cavi che animano scatole tecnologiche dai display illuminati. E altri oggetti dei quali non arrivo a immaginare una funzione.

 

Dopo deliziosi gomitoli di lana, e i miei goffi tentativi di evitare il suicidio di un gattino con colpi disordinati su un joypad, decido di abbandonare quell’oggetto vibrante, che continua ad agitarsi in modo inquietante sul cuscino di fianco, e di diventare solo uno spettatore, avvolto nelle volute del caldo, del fumo, del divano e di quelle convulsioni elettroniche che si agitano sullo schermo. Sono consapevole della mia codardia, o anche solo della pigrizia che mi porta a tradire le regole del gioco. Non sono un videogiocatore, non posso permettermi nuove dipendenze; e quelle che seguono sono solo piccole note di un occhio in astinenza che tradisce l’esperienza completa del gioco, e quindi in fin dei conti la natura di quest’opera ibrida, per ricavarne una dose di cinema.

 

Un’assolvenza dal nero. Poi una luce gialla, e due tendine che come otturatori oscurano ogni tanto l’immagine: un battito di palpebre, siamo dentro un occhio. Una soggettiva digitale che mima il dato biologico. E il mondo ci appare. Prima il braccio poi il corpo di una meravigliosa ragazza elettronica prende il campo. Si gira e guarda in macchina, in primo e primissimo piano si prende cura di noi, chiunque noi siamo. Il suo volto conserva tratti dell’umano, codificato da decine di macchine fotografiche che hanno avvolto il corpo di una giovane attrice e che hanno digitalizzato i suoi gesti catturando i suoi movimenti (ma tutto questo lo scoprirò solo più tardi).

 

Ci guarda e anche il nostro occhio si cristallizza. Polvere e granelli di sabbia incrostano la superficie dello schermo che si dichiara così l’occhio di una macchina da presa. Senza soluzione di continuità. Non ci sono stacchi. Solo precisi e continui scivolamenti fuori e dentro il nostro corpo. Siamo in una tempesta di sabbia, in una situazione di pericolo. I movimenti della ragazza si fanno più concitati, comunica con qualcuno, chiede aiuto con una ricetrasmittente, una musica sinfonica plasma l’erotismo e la malinconia della scena, di cui anche questa volta scoprirò solo più tardi il significato.

 

È una scena di raccordo dell’ultimo gioco di Hideo Kojima, Metal Gear Solid 5. Ora le chiamano cutscenes e la definizione che ne dà Wikipedia è troppo filosofica per non essere trascritta. È un tempo nel videogame dove il gioco si interrompe e il giocatore vede qualcosa accadere.

 

Ma in questo caso non è una sospensione. Perché il piano continua nel gioco come in un unico lungo pianosequenza, senza fratture di ordine estetico o di definizione grafica. Quello che sorprende sono piuttosto i ritmi, i tempi appunto di questi accadimenti, le linee dei movimenti di macchina e una drammaturgia che prende forma direttamente dal piano. O più semplicemente la libertà della visione che qui si confronta con un mondo aperto, una scena virtualmente infinita dove queste scene sono spesso nascoste, occultate come in una ghost track. Piani che potrebbero essere stati rubati a film di autori radicali che qui diventano i tasselli di una narrazione che può appassionare anche dei ragazzini.

 

 

Quando sudato come il mio personaggio mi sollevo a fatica dal divano, quel che resta è una nostalgia di cinema, e la nostalgia di un corpo che per un attimo è stato mio. Nulla come il titolo di questo gioco può descrivere questa esperienza di mancanza: Il dolore fantasma. Tecnica? Arte? Cinema? In fondo, è solo un gioco.

 

 

Donatello Fumarola, Alberto Momo

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