Solo il cinema
Alberto Momo
Alcuni anni fa, e ora che ci penso è passato un quarto di secolo, c’era un piccolo festival di cinema in Francia a Dunkerque, sull’oceano Atlantico, quasi al confine col Belgio. Lì potevi vedere Perdizione di Béla Tarr, La commedia di Dio di Monteiro o Dok’s Kingdom di Robert Kramer. Potevi mangiare la sera le ostriche con Jean-Claude Biette e soprattutto parlare con Steve Dwoskin, il grande sperimentatore americano che viveva a Londra.
Quell’anno Dwoskin era nella giuria del concorso, e sfruttando la sua posizione gli avevo chiesto quali film non dovessi perdere. La sua risposta, nel suo stile conciso e prezioso, è stata: ci sono pochi film che vedono.
Per molti anni questa fu la mia principale lente critica per guardare al cinema. Ci sono film che vedono e ci sono film che non vedono. Magari mostrano molto, fin troppo, ma alla fine sono ciechi.
Con il tempo le mie aspettative rispetto al cinema si sono abbassate. Soprattutto verso il cinema che ahimè si professa d’arte, quello che vince i festival più di tendenza, quello che fa più eccitare la critica. E spesso mi è sembrato che il problema risiedesse nell’eccessivo formalismo che, secondo le mode del momento, rischiava di soffocare la vita.
L’esempio più lampante è un certo ricorso alla durata, in una prospettiva che forse ha frainteso le lezioni di maestri come Tarr, Straub, o Diaz e Wang Bing. Una durata che non prevede rivelazioni epifaniche, che non ci immerge nel tempo delle cose, ma che si accontenta di una contemplazione consolatoria e estetizzante - come spesso accade nella videoarte, dove l’innamoramento per il dispositivo non prevede mai uno scarto, uno scatto, e una volta riconosciuto, il meccanismo si richiude su se stesso.
Per questo motivo, sempre di più, ora mi accontento che un film conservi anche solo una traccia di vita. Una sensazione che oggi - chiusi in casa davanti a un monitor o a un videoproiettore, con la vita sempre più alienata e l’impossibilità di celebrare almeno il rito sociale e collettivo della sala - si fa sempre più forte.
Ho amato molto l’incipit di Undine, l’ultimo film del regista tedesco Christian Petzold. Si alternano i primi piani di una coppia che sta per lasciarsi. Sguardi, occhi che si abbassano, o che cercano un approdo nel fuoricampo. Piccoli gesti, una mano che sposta i capelli. E lì ho ritrovato la vita. Quella che si trova solo nel cinema. Nel cinema irriducibile agli algoritmi di Netflix e delle grandi e piccole produzioni, e così distante dal dicibile, che a differenza del visibile, struttura ad esempio la maggior parte della forma seriale. Solo il cinema.
Non è un caso che mi venga da citare una definizione di cinema che era il titolo di un capitolo delle Histoire(s) du cinéma di Godard. Anni fa, e qui invece non ricordo il titolo, Godard aveva realizzato un piccolo film per la sua esposizione al Centre Pompidou, sulle ragioni per continuare a fare (e vedere) il cinema. E oltre a dei piani di una partita di tennis, c’era una sequenza di un film di Vincent Gallo, The Brown Bunny dove una coppia si incontrava, e si lasciava, intorno al tavolino di un bar all’aperto. Anche qui poche parole, quasi un film muto. Corpi, sguardi, piani. Cinema.
Quello che trovi nell’ultimo, meraviglioso, film di Philippe Garrel Le sel des larmes. Incontri, quasi scene primitive dove l’incontro intimo, mai realmente raggiunto, svela il sovrapporsi della forma finita e di quella infinita, del visibile e dell’invisibile. In un’antidrammatizzazione che mi fa spostare le parole di Steve Dwoskin dalle parti di Bresson.
La stessa pigrizia che mi fa chiudere questi brevi appunti sempre con parole di altri. In questo caso di Manoel De Oliveira che alla mia domanda, ottusa, su quale età avesse il cinema, per lui che aveva iniziato con il muto per finire un secolo dopo, mi rispose semplicemente: ha la stessa età di quando è nato. L’uomo, e la vita, resta un mistero, e il cinema cerca di proiettarci sopra le sue luci (e di ingannarlo con le sue ombre).