"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

CINEMA vs DEATH (5)/INTERZONE - Il libro contro la morte (Elias Canetti)

Saturday, 05 May 2018 07:44

Lucrezia Ercolani

I libri mancati di Canetti

Il libro contro la morte è una raccolta di aforismi, ordinati in ordine cronologico, dal 1942 al 1994. Rappresentano una scelta tra gli sterminati lasciti manoscritti di Elias Canetti, nei quali si confronta con una delle sue principali ossessioni: la morte. Di fronte a questo libro, più volte invocato ma mai terminato, non si sa bene come reagire. Non che l’immortalità sia un tema poco attuale: tra post-umanesimo, simulacri e accelerazionismi di varie risme, si celebra sempre più “la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte”. La fusione con i cyborg ci garantirà un’avvenire illimitato; una sorta di pallido residuo della vetusta immortalità letteraria sembra destinato a tutti; purtroppo non potremo decidere cosa rimarrà di noi negli archivi digitali che comporranno il nostro imperituro profilo. Difficilmente vi saranno poesie.

 

Ma non è di questa (im)mortalità che parla Canetti. No; è proprio la semplice morte individuale che egli non può accettare. Un rifiuto viscerale, in cui c’è qualcosa di eroico e di infantile, di saggio e di equivoco. Il libro mancato, assieme ad altre opere come la pièce teatrale Vite a scadenza, rappresenta un tentativo di resistenza, di affrontare il mostro, di scovarlo. Vi sono i filosofi della morte, che vorrebbero darcela in dote come se esistesse in noi fin dal principio; c’è l’istinto di morte freudiano; ci sono gli amici della morte, i minimizzatori (come Montaigne), i rassicuratori (Epicuro), i fanatici...il nemico è ovunque, e quasi tutti sembriamo rassegnati alla sua vittoria. Canetti non capisce perché dovremmo darci per vinti in partenza.

 

Diverse questioni etiche attraversano il libro. La prima potremmo definirla quella dell’esperimento mentale. Come sarebbe il mondo se non ci fosse la morte? Niente più guerre, dunque niente più sopraffazione, e anche niente più fallimenti (avremmo infiniti tentativi per riprovarci!). Questa fantasia deve aver avuto gran presa sull’autore, che è sopravvissuto ad entrambi i conflitti mondiali ed è nemico giurato di ogni guerra. Come abbiamo accennato, inizia ad accumulare questi appunti nel 1942. Gli sembra che la possibilità della morte abbia un effetto nefasto sulla vita degli individui. Da qui, l’unica “soluzione” che Canetti arriva ad ipotizzare a più riprese: un mondo dove si muore di nascosto, dove le persone ad un certo punto spariscono e non si sa più che fine facciano. Si avrebbe dunque una società che non ha cognizione della morte, né termini per parlarne. Questa idea di una pia fraus rispetto al termine della vita colpisce alquanto, perché la volontà dell’autore di affrontare il nemico a viso aperto si rovescia nel suo contrario. L’ateismo per Canetti è un punto di partenza quasi scontato; eppure la nostalgia per un credo a cui affidarsi, che ammanti la morte di una veste accettabile, è forte (d’altronde si trova in buona compagnia). Ma la fine viene vista in strettissima correlazione con Dio: «La morte viene da Dio, e ha divorato suo padre», «Dio è il carnefice». Finché gli uomini vorranno “vivere e uccidere”, avranno bisogno della religione.

 

Non sorprende che Nietzsche venga evocato più e più volte come grande nemesi. Per Canetti, il suo ingrandimento dell’Io «non vale nulla: miserabile inganno per mascherare la morte» (aforisma del 1971). In realtà, ci sono alcuni intrecci sotterranei tra i due. Entrambi non accettano di non essere liberi di fronte alla necessità (la morte per Canetti, il passato per Nietzsche). Celebre è l’analisi del comando, contenuta in Massa e Potere: possiamo dire che quello di trapassare è il comando supremo, a cui l’autore vuole sottrarsi. «Più di ogni altra cosa la libertà odia la morte, ma subito dopo l’amore» (aforisma del 1943). Nietzsche distingueva tra una vita ascendente e una discendente, una da preservare e l’altra da eliminare. Leggiamo nello Zarathustra (Il canto del nottambulo): «“Ciò che si fece perfetto, tutto quanto è maturo – vuol morire!” così tu dici. Benedetto, sia benedetto il falcetto del vignaiuolo! Ma tutto quanto è immaturo vuole vivere». Qui si misura la più grande distanza con Canetti, che prova un senso di sacralità per ogni vita: per lui non dovrebbe morire nessuno, bestie comprese (nei confronti degli animali, siamo tutti nazisti!). Soprattutto, la cosa più importante è che non si instauri un’abitudine nei confronti della morte. Il tema ci riguarda da vicino, e forse dovremmo farci aiutare dagli indios, come sostiente l’antropologo Viveiros De Castro: ci sono anime ovunque, dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi.

 

Anche Canetti fa delle distinzioni: da un lato c’è il potente, ovvero il sopravvissuto; dall’altro lato chi è nelle sue mani. Il punto è che il potere, per il nostro autore, è immediatamente legato alla morte: lo possiede chi può disporre della vita di molti, chi può sopravvivere a tanti esseri umani. La potenza è conferita dal veder l’altro morire, dalla sensazione che dà il sentirsi ancora vivo di fronte a chi è caduto. Come è stato più volte ricordato, Canetti non è riuscito a scrivere il secondo volume di Massa e Potere, che avrebbe dovuto contenere la pars construens del discorso. Forse perché questo secondo volume avrebbe dovuto contenere il modo di distruggere la morte, e con lei il potere? E allora, entrambi i libri sembrano essere “mancati” per lo stesso motivo.

 

Restando nell’universo concettuale canettiano, si potrebbe forse trovare una risposta nella trattazione della metamorfosi (sempre in Massa e Potere). L’esistenza è un flusso continuo, un perenne divenire-altro, un cambiare di forma. Il potere blocca le metamorfosi, ci irrigidisce in un soggetto ben definito e non modificabile, così da poterci controllare. Allora, se morte e potere sono tutt’uno, vita e libertà sono l’altra faccia della medaglia. Esprimere il proprio essere cangiante, rompendo tutti i confini che vogliono trattenerci, non escluso il confine ultimo. Respingere la morte fuori dalla vita.

Ma Canetti non sviluppa questa linea, per lui i suoi morti sono troppo importanti; la sua esistenza è scandita da loro (da piccolo il padre, poi la madre e infine le due mogli). Si interroga su come nutrire la loro memoria, su come tenerli in vita dentro di sé. Non possiamo non definirlo un sopravvissuto; egli lo sa, e se ne duole.

 

Un libro per tanti versi apparentato a quello di cui stiamo parlando è La fine del mondo dell’etnologo Ernesto De Martino. Anche in questo caso, abbiamo un libro che l’autore non ha scelto di pubblicare, che è stato ricostruito arbitrariamente dai posteri, composto di appunti e pensieri sparsi. Anche qui la fine è un tema centrale, ma essa viene vista come sempre possibile all’interno dell’esistenza: se non superiamo gli eventi traumatici, tra cui innanzitutto la morte, essi si impadroniranno di noi. Il rischio è che la morte si manifesti nella vita stessa, sotto forma di follia, depressione, perdita del sé. Per questo superamento, secondo De Martino, abbiamo bisogno degli altri, ovvero di forme culturali condivise. Non solo la religione, ma anche la letteratura, l’arte, la politica (e quando queste tecniche non funzionano più, è la fine di una cultura). Canetti aderisce a suo modo a questa concezione: egli confessa che la sua scrittura nasce dalla battaglia contro la morte, e che la letteratura è l’unico modo per sopravvivere senza fare del male. E ancora lo ribadisce nell’ultimo emozionante frammento prima della sua scomparsa, datato 1994: «È tempo che io mi racconti di nuovo qualcosa. Se non scrivo mi dissolvo. Sento la mia vita dissolversi in un rimuginio sordo e torbido, perché non annoto più nulla su di me. Farò in modo che tutto questo cambi». Diverse volte negli appunti Canetti si augura di non venire “conquistato” dalla morte con l’avanzamento degli anni. Fino all’ultimo, non si è arreso.

 

 

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