Che cosa sogna l’ultra-sognatore quando sogna di morire
L’arte dello spettatore è credere ai miracoli. La cosa buona per il cinema è che il necessario stato di veglia e quello naturale dell’illusione restano caparbiamente ancorati all’arte terrena della solitudine e della malinconia. Miracolo sí, ma terrestre, disperato o gioiosamente triste. Altrimenti non si scriverebbe (di cinema). L’artista-spettatore è l’unico a sapere che disperarsi è la condizione naturale di chi guarda, l’unica strada possibile per avvicinarsi all’immagine e cominciare a giocare il gioco della distanza. Trovare la posizione e insieme disorientarsi. Lassù sulla collina, a Hollywood, lo sanno più o meno da sempre: un albero è un albero. Giocare sí, ma giocare con la vita e la morte. Nel caso del giocatore timido Steven Spielberg si può ben dire che un’intera generazione ne ha condiviso i viaggi e una altrettanto grande ne ha frainteso le intenzioni, scambiando attacco e presa del potere (inequivocabili) per hubris incontenibile e non per incontenibile desiderio, pur facendo film, di restare per sempre seduto dalla parte di chi guarda. L’odio e il disprezzo per Spielberg da parte di Godard o di Straub. Certo, è più facile identificare o identificarsi nel sogno di Coppola, che fin dall’inizio dice voglio ascoltare, sonoro attraversami fino all’apocalisse. E sicuramente De Palma: mi farò girare la testa, guarderò contremporaneamente in tutte le direzioni. O a maggior ragione il compagno d’avventura Lucas, da subito teso a una sorta di anonimato paradossale: che sia io o no raggiungerò le stelle. Fra tutti Spielberg è il più disperato, quello che non è mai stato né è ancora sicuro di farcela. Anzi, da questo punto di vista Ready Player One è il suo film più godardiano. Il suo Histoire(s) du cinéma. Non certo per il detour prodigioso e rigorosamente generazionale attraverso film amati o con cui siamo cresciuti e una miriade di singoli feticci estrapolati e rimessi in circolo, ma perché questo abbacinante maelstrom di amori e ossessioni è rigorosamente anti-citazionista. Trattasi, alla Godard, di autoritratto. Dove, come in ogni autoritratto che si rispetti, la cosa messa in conto (meglio: in volto, in primo piano) è la possibilità di morire, e al tempo stesso o come conseguenza il sogno della resurrezione. Fra i due abissi, e questo è solo spielberghiano (Always), passa il tempo fulmineo e incommensurabile di un bacio dato o non dato. Un museo mobile delle immagini che non basta dire ci sopravvivrà, bisogna filmarlo. Non è questione di grandi apparati teorici. La stessa opera tutta di Godard è una corsa a ostacoli per cercare di abbatterne l’impalcatura pur geniale, fino a rendersi conto entrambi - JLG e Spielberg - che non è solo nel film-teoria la risposta, ma nell’ininterrotta serie di domande con cui di volta in volta i film interrogano la vita per parlare della morte.
Che Stanley Kubrick sia al centro di questo discorso non deve stupire. Shining è il film più preciso mai fatto sul meccanismo della visione, dove l’agognata perfezione va di pari passo con la possibilità viva fino all’ultimo di mutare e mutarsi all’interno degli eventi e delle loro concatenazioni. Pensare l’occhio come un cortocircuito continuo quanto più divaricato – fisso polifemico o labirintico, aperto o sbarrato – tanto più implacabile e enigmatico. Ecco il punto. Così se già A.I. altro non era che una mappatura dei piani ingegneristici kubrickiani in preparazione al film mai fatto (proprio: Spielberg che anela la soglia per penetrare i meandri del metodo), Ready Player One è la realizzazione del sogno d’ogni bambino: non entrare nel film e neppure farne parte (anche se, diciamolo, quei corridoi, il fiume di sangue, la stanza 237 finalmente varcata - per di più e non a caso da Aech, l’unico che non ha mai visto il film - sono il sogno del sogno del sogno...), ma venire letteralmente posseduti da un vedere all’ennesima potenza, overlook appunto. Qualcosa di più del vedere stesso, così oltre da prendere in considerazione qualunque alternativa, anche di essere qualcosa in meno, oscillante su un piano recondito, primitivo se si vuole, che viene prima di quel che si sa della visione, che si oltrepassa. Mettere il proprio volto nella famosa fotografia al posto di Jack Nicholson/Jack Torrance così come Nicholson/Torrance in fondo lotta strenuamente per superare i limiti del proprio corpo-cervello: appunto tornare lì da dove tutto ha (forse) origine.
E allora e ancora. L’autobiografia è il punto. Con tutto quello che di eroicamente immaginario e ludicamente auto-leggendario hanno le autobiografie. Ci si ricordi a chi assomigliava il fabbricante di esplosivi solitario chiuso nel suo garage di Munich: chiaramente a Spielberg stesso. Ed è quasi inutile dire a chi assomigliano, fisicamente, il saggio James Halliday e l’imbranato Wade Watts, entrambi ultra-sognatori: Spielberg anziano e Spielberg ragazzo. Autoritratti al cubo. Derive del soggetto che spingono per contenere e insieme venirne inghiottite tutte le variabili e vicende possibili (le tre chiavi sono anche chiavi narrative, chiavi di volta). Nulla a che fare col virtuale. Meno che mai con l’intrattenimento nostalgico. Così come Shining non aveva nulla a che fare con l’horror. Ma invece lucida e sfrenatamente ironica (ecco la saggezza) ultima riflessione sulla consistenza stessa del film. Non è un film, ma un film su tutto quello che potenzialmente un film può contenere. La parola stessa film è un eufemismo. Ciò che un generatore e una generazione di immagini può generare. La forma del suo rigenerarsi. Chiaro che è del corpo umano che si sta parlando. Di che cos’è il cinema quando si è prossimi alla morte.