"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

CINEMA vs DEATH (3) - Visages Villages (Agnès Varda & JR)

Saturday, 05 May 2018 07:45

Lorenzo Esposito

Le rughe fanno parte del gioco

immagine del filmPiccoli cimiteri marini. Piccole recinzioni quasi intatte nel mezzo di radure dimenticate. Sulle tombe la testimonianza di certi passaggi solitari sulla terra. Rocce gigantesche distaccatesi dai costoni spiaggiate in attesa dell’alta marea. Le si può rinvigorire, sfruttandone la posizione obliqua, per raddrizzare ciò che il tempo lotta implacabile per trascinare via. Vi si può incidere la fotografia di un uomo nudo scattata più di quarant’anni fa (da Agnés Varda giovanissima). Un uomo diagonale che sarebbe piaciuto a Max Ernst. Il mattino dopo la marea se lo porterà nuovamente via, vittima allora di un doppio inabissamento. Un Icaro delle acque (come il cinema, ma questa è un’altra storia). Eppure il metodo è quello giusto. La fotografa e cineasta Agnés Varda e lo street-artist JR (che dunque non si considera o è arduo considerare fotografo, per questo, scatenando l’indignazione di Agnés, non si toglie mai gli occhiali scuri; mentre Agnés, decisa a guardare ad occhio nudo, non a caso ha problemi agli occhi, vede sfocato: fotografa e cineasta, appunto) non demordono. La campagna francese, quella dimenticata da tutti, soprattutto dal grande Capitale, che abbandona fabbriche lavoratori e fallimentari progetti turistici, diventa un’unica grande tela, déjeneur sur l’herbe on the road. Le stampe a grandezza naturale coprono o forse risvegliano file di case vuote un tempo abitate dai minatori (l’ultima donna rimasta ad abitarle, le comunità circostanti), muri di piccoli paesi di provincia (la giovane cameriera, il postino, un’anziana coppia), containers portuali (tre donne, tre mogli), serbatoi per l’acqua (pesci), fabbriche (foto di gruppo con operai), granai (l’agricoltore), vagoni di treni in viaggio verso l’ignoto (gli occhi e i piedi di Agnés, mai metafora fu più chiara). Varda e JR parlano di collezionare immagini, del desiderio di Agnés che non se ne perda memoria e fanno coincidere l’idea di immagine con l’idea di volto, volto come mappa (Borges docet). Lui sta al gioco: “ti voglio dare più immagini possibili, finchè siamo in tempo”, e anche quando parla dei film della Varda dice: “ricordo le immagini dei tuoi film, il volto di Cléo”. Non il film, ma il volto. Come quello di Godard, che in Cléo de 5 à 7 appare con le sembianze di Charlot, e che lontanamente assomiglia al JR di oggi, cosa che peraltro fa venire più di un sospetto che, nonostante la gioiosa collaborazione, Visages Villages sia film voluto progettato dipanato dalla sola Varda, la quale non a caso ne è l’unica montatrice. JR è parte di un casting immaginario e teorico che prosegue da anni e che già aveva avuto un alto punto d’arrivo con Les Plages d’Agnés, dove l’autobiografia era solo un punto di partenza per una rimessa in circolo delle immagini per nulla malinconica, o che vedeva nella malinconia una possibilità di interpretazione continua del contemporaneo.

La verità è che qui, ancora e sempre, si parla di vita e di morte. Cinema contro la morte (sempre pensato che questo e non altro intendesse Cocteau). Nulla a che fare con banalità come Visages Villages è un documentario… di finzione. No, Varda insiste a fare quello che ha sempre fatto la Nouvelle Vague, lavorare il tempo in modo che il tempo si renda conto che il cinema può essere il perno di quel lavoro incerto e indefesso che chiamiamo memoria. Dunque lottare per stare al passo col tempo (non con i tempi). La donna casa-volto-finestra d’inizio film, non solo è subito la prima commovente testimonianza di questo lavoro, ma anche e soprattutto politica dell’autore, dove se un pezzo di mondo viene colpito al cuore il cineasta giunge a operare a cuore aperto, guerrigliero che non teme di filmare l’abisso tra essere e non essere. Questi volti, questi villaggi, sono spariti e dunque sono memorabili. Come i film? Forse. Ma certo è per questo che l’ultimo volto, che non si mostra, è quello di Godard. Vero o meno che sia l’episodio, vero o meno che sia il messaggio lasciato per Agnés mentre la porta di casa di JLG rimane chiusa, si tratta di lettere d’amore fatte della materia stessa delle immagini, ciò che di più solido e insieme volatile ci sia al mondo. Lo sa Godard, lo sa Varda. Ecco perché, a differenza del feticista Bertolucci, quando la Varda rimette in scena la corsa nel Louvre di Band à part, lo può fare con irriverenza e ironia tutta femminile, facendosi spingere sulla carrozzina da JR. I film non invecchiano, mutano. Così come muta nel tempo ciò che resta dell’occhio che guarda. Ciò che resta del fuoco. “Le rughe, spiega la cineasta allo street-artist preoccupato di farle una bella foto, fanno parte del gioco”.

 

 

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