"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

CINEMA PSYCHODRAME (9)/IFFR 2019 - Montage muet français Palais des Congrès (Henri Langlois)

Sunday, 28 April 2019 10:22

Erik Negro

Senza inizio né fine

Il cinema spesso può rappresentare il nostro senso di provvisorietà. Nello splendido e imponente programma (“Laboratory of Unseen Beauty”) curato a Rotterdam da Olaf Möller - esattamente tra il focus di DocLisboa “Sailing the Euphrates, travelling the time of the world” e il viaggio di “Archival Constellations” all’interno del Forum nell’ultima Berlinale (tre straordinari percorsi recenti, almeno per chi scrive, nel ricostituirsi più marcatamente dialettico dei festival) -, spiccava questo lavoro nascosto e miracoloso di Henri Langlois, Montage muet français Palais des Congrès. La selezione era dedicata alle rovine di film impossibili, non-finiti, scomparsi - da German Concentration Camp Factual Survey documento invisibile del Processo di Norimberga al folle They Shall Not Grow Old di Peter Jackson, dal perverso Glawogger di Kino im Kopf al delirio di Joe Dante Movie Orgy - Ultimate Version, per arrivare fino al Rossellini riscoperto lo scorso anno, Le Psychodrame - e qui assemblati in una programmazione dal senso fortemente performativo.

Dunque Montage muet français Palais des Congrès, lavoro estremamente affascinante e complesso del genio cinefilo e ossessivo di Langlois a contatto con i frammenti muti del suo cinema vissuto, vivo e metamorfico, in lotta contro l’oblio. Centosessanta minuti di bellezza indescrivibile e fragilissima con cui guardiamo Parigi (e non solo) attraverso prospettive inesplorate e cangianti, luminosa nella nebbia di grana e nitrati che segnano un secolo e ne aprono un altro.

langloisEra il 2 marzo 1974 quando Langlois, co-fondatore e anima della Cinémathèque Française (sopravvissuto anche al Sessantotto, prima deposto da Malraux e poi difeso da decine di autori tra le barricate), proiettò dalla cabina in tempo reale film e frammenti della produzione cinematografica muta della nazione. Era l’inaugurazione al Palazzo dei Congressi con quasi quattromila spettatori, una performance installativa estemporanea ben precedente a molto di quello visto fino ai giorni nostri. Partiva dalle vedute di Nadar e dei Lumière, appariva Méliès e poi giganti come Clair e Léger, Gance e L’Herbier mischiati ai meno conosciuti Zecca e Perret, Monca e Nonguet, Calmettes e Colombier; ri-montava Le duel d’Hamlet di Clément Maurice con Sarah Bernardt e chiudeva questo vorticoso detour con Minuit... Place Pigalle di René Hervil. Era il 1928, il cinema stava cambiando e con esso Parigi e tutta la società. Ma le immagini che sorprendono di più rimangono forse quelle sconosciute, di impossibile attribuzione. Da scenette slapstick girate in strada a riprese aeree dal dirigibile, dalla visione più sperimentale allo sguardo specificatamente antropologico, frammenti di vita incapsulata per infintio sconosciuto, anime senza nome che attraversano la macchina da presa per un attimo che può durare un eternità. “Speakies' having put a stop to the production of silent pictures for a time, that form of cinema could no longer evolve and henceforth belonged to the past. The silent film consequently escaped fashion and passing fancies that ordinarily distort critical observation. Hence, its privileged situation doubtless allows us to recreate its perspectives by judging works from yesteryear as if they were from today”. Così lo stesso Langlois, nelle uniche sue parole dedicate a questa follia all’interno degli Écrits de cinéma.

La sensazione nel vedere questo materiale è di totale immersione, in cui sublima la sensazione dello scorrere del tempo e di quanto sia provvisorio il nostro passaggio. Aldilà della grande cura cinefila, dell’attenzione al montaggio, della sperimentazione di un progetto del genere, è proprio l’aspetto esistenziale che colpisce e lascia attoniti. Alla ricerca di un’epoca dispersa e naufragata nella memoria, un paesaggio fisico ed umano tra le due grandi guerre del Novecento e che ora può lasciare la sua impressione solo su un fotogramma strappato a quella contemporaneità. Perchè è proprio quel concetto di attuale che Langlois mette in crisi, riscrivendo oltre trent’anni di storia della sua città come della sua arte, in un’azione potenzialmente irreplicabile e non riproducibile. Guardare oggi questo atto di cinema, senza titolo (come senza inizio e senza fine), è attraversare una e mille storie affianco alla morte costantemente al lavoro. Questa riflessione diventa nel nostro contemporaneo, raggelante e de-realizzato, un enorme atto di amore nel rispetto del tempo e del suo travalicare le epoche; un atto senza autore (o forse con tutti gli autori possibili) divenuto chiave fondamentale nella riscrittura dei rapporti che l’umanità ha (avuto) attorno a una macchina da presa. Uno svelamento del senso intrinseco all’immagine, svuotatasi anno dopo anno, fino ai giorni nostri. Langlois stesso se ne andò, tre anni dopo quest’opera così impossibile e abbagliante - che al suo interno ne contiene così infinite - lasciandoci, oltre all’unicità della sua vita dedicata al recupero di film e di tutto quello che essi possono condensare, un affresco straordinario sulla potenzialità del cinema e la sua eternità. Un potere quasi assoluto su un quasi nulla, quello del rivivere attraverso un’immagine, già perduta nell’attimo di esser girata e ritrovata al montaggio, e nella sua visione che non conosce il presente. L’esistenza impossibile di un’infanzia continua dell’arte, costretta a naufragare come scheggia impazzita tra passato e futuro.

 

 

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