Immanenze e imanazioni: uno psicodramma nella “camera alta”
“Tutto ci cambia, continuamente, e siccome questo tutto è ciò che forma la vita, ne risulta che la vita è, come dicevo, instabile”
(Luigi Pirandello in una intervista del 1924)
Jehoschua, impersonale messia, pare abbia dettato, chiuso nella inconcepibile ‘camera alta’, per una intera notte, il proprio vangelo a un resuscitato, Eléazar. Forse gli confida e rivela il segreto per vincere la morte, per accedere a una emanazione eterna della vita. In High Life di Claire Denis, questa “camera alta” che rinserra e conserva la vita come eterna e singolare immanenza è un’astronave (ma vista la presenza di Binoche e Pattinson, è un quasi cronenberghiano veicolo astrale come in Cosmopolis), dove un messianico capitano spaziale, un padre senza paternità, dal nome naderiano di Monte vive solo e perduto in un kaufmaniano spazio profondo, alle prese con oscure trasmigrazioni e spossessamenti di corpi, di ultracorpi, come nelle siegeliane, e poi ferrariane invasioni di body snatcher, rapitori e corpi in-visibili abduttivi. Ma la sua solitudine è paradossalmente resa immanentemente ‘imanata’ (o anche ‘inumanata’) e abitata dalla compagnia perturbante della sua (non) figlia (lacanianamente non tutta, come ogni singolarità e sessualità femminili). Una ‘emanazione’ femminile del suo seme, frutto di una trasposizione-immacolata (ma ipersessualizzata), concezione-inseminazione. Quella propria figlia (cui è fatalmente attratto come nel risucchiamento e insieme dischiusura dell’attrazione auto-generativa e incestuosa dei corpi), è filmata come un fantasma carnale, una nebulosa presenza che trascorre nella crescita biomorfica all’interno del ventre-astronave, e che porta il nome fitomorfico di una pianta-albero (del bene e del male): Willow. L’astronave (degli esseri perduti ‘a se stessi’) è anche il penitenziario di una ciurma di condannati al vagare eterno (come nel Vascello Fantasma dell’Olandese volante). La colpa, ma anche la grazia, da espiare è quella della ri-generazione conseguente a un delitto originario di caduta che li ha spinti in alto. Qui una donna dal nome bifido di Dibs (Binoche) si fa carico e propulsione di una trasmissione di vita che in realtà è una destinazione all’uscita dal soggetto, a qualcosa che è di meno dell’identificazione e di più della connessione. Uscita da sé e dal mondo, virtualità assoluta che è anche a fondamento dello scatenamento psicodrammatico, dell’azione senza azione e del soggetto senza soggetto del “pattern” di psicodramma praticato dalla “terapia- messinscena” di J. L. Moreno (con una immediata ricaduta e risollevamento nello splendore di verità dell’immanenza di messinscena, come Rossellini non si è stancato di mostrare e non dimostrare).
Dunque Immanenza: una vita…, così suona il titolo di uno scritto estremo e splendente di Gilles Deleuze. Laddove c’è una filosofia dell’interpunzione che è un mettere in campo, incommensurabilmente: una vita. Quei due punti che sono meno di identità e più di connessione. Un transito: “senza distanza né identificazione, qualcosa come un passaggio senza mutamento […] quel movimento che Deleuze, giocando sull’emanazione platonica, chiama imanazione” (qui è Giorgio Agamben di La potenza del pensiero a parlare p. 389). Una vita dice Deleuze contiene solo virtuali. La singolarità, l’ecceità, procede come una realtà vivente senza attualità. Uscendo dal soggetto si sprigiona una vertigine immanente che prosegue per vari punti conseguenti all’infinito. L’immanente si ripiega sulla stessa immanenza, e in questo movimento eccede. Come nella narrazione di Melville Our mutual friend preso a esemplare di ‘immanenza: una vita’ da Deleuze, c’è una coincidenza con l’individualità verso un punto singolare sospeso nello spazio. Colui che in vita fu vituperato, colui che porta con sé una colpa sospesa, l’uccisione, come la generazione, in potenza, è, sul crinale tra morte e vita, una cura che il seme conservato in provetta e custodito dal materno come utero vagolante, immette in una spossessata vita neonata. Accade così qualcosa di impersonale che rasenta la possessione di un corpo a seguito di una trascendenza che si annienta in immanenza, come campo trascendentale. Tale campo, come la navicella spaziale di High Life, può essere sprigionato e compreso solo al di là del cogito, dell’individuazione, dando sfogo a una zona al di là del soggetto e dell’oggetto. Agire tale zona è opera di psicodramma. Un campo inesperenziale laddove ciò che esiste è solo una corrente (intratemporale) di coscienza a-soggettiva. Una serie indeterminata di soggetti senza soggettività e senza apparenza oggettiva si susseguono nel drama agito dai corpi-fantasma impersonali (quelli che erano lo scollamento vivente tra persona e personaggio nel Pirandello preso a campo di prova dallo psicoanalista Moreno).
Nel film di Claire Denis tutto ciò ha l’implacabilità del flusso a-coscienziale deprivato dell’io, in cui la catena generativa sussiste solo come potenzialità trasmessa lungo un tempo senza esperienza ma di pura durata. Lì si scatena in atto uno psicodramma che non a caso (come nell’infratesto pirandelliano di Sei personaggi o di Questa sera si recita a soggetto ) è destinato a un incontro fatalmente incestuoso, tra padre e figlia misconosciuta, dove la mutuabiltà dei corpi sottostà solo alla legge di attrazione-repulsione che non può essere che inassegnabile. Il padre che si rifiuta di generare e il cui seme è separato dalla soggettività viene fatalmente immesso nell’immanenza generativa di una vita e non c’è trascorrere, ma bensì co-incidenza, tra il corpo neonato e il suo sviluppo sessuato e femminile che, come lungo un lucreziano clinamen di particelle singolari che non possono che ingenerare simulacri, dà accesso all’inassegnabilità e al permutare dei corpi.
Il film procede allora per spinte coattive, le azioni extra-effettuali degli abitanti dell’astronave “dei corpi perduti”, sono come dei conatus, anche nel senso che le immagini, gli apparenti flashback o flashfoward, le tarkovskiane memorialità che vengono a con-fondersi tra loro, sono (come il kubrickiano neonato) co-nascenti. Il film fa emergere i residui di nuda vita, e procede a una sorta di filmare coattivo e conativo, come se a filmare fosse uno stesso dispositivo biopolitico coincidente con una camera intrasoggettiva. Certo persiste in Claire Denis la consueta furia tutta introflessa nella potenza del femminile e in una economia dei corpi irriducibili visti e sentiti ‘alla Nancy’, come intrusi. Ma se i corpi che spostano in alto, e all’infinito (in una inattingibilità iperuranica) la propria vita (high life), disappropriandosene e rendendola impropria, sono “corpi estranei”, qui è lo stesso filmare (e la stessa aleggiante presenza spossessata dell’occhio estraneo di Denise) a pro-vocare quella stessa estraneità che permea il film. Proprio come in uno psicodramma moreniano tutto incede e scorre, si spinge, si infiltra, come un flusso sospinto “sotto vuoto”, sempre passibile di esplodere in crisi di identità, in trance psicosessuali, sempre apparentemente improvvisato, come ‘avveniente’, appunto ‘imanante’. Come la scintilla di vita di cui scrive Hermann Melville. “The spark of life within him is curiously separable from himself”.