Obbligatoriamente afro-futuristi
Ci vogliono almeno 10 anni di studio meticoloso per maneggiare non la tecnica ma “il cuore” di un film. Lo diceva Jonas Mekas, che si considerò sempre un filmer, mai un cineasta. Aveva ragione. E ha fatto scuola. Scuola etimologicamente significa infatti “tempo libero”, critica del lavoro sfruttato… Attenzione dunque quando, sprezzanti, attaccate il cinema didattico. È cinema di lusso, work zero. Perché le immagini visive e sonore consapevoli sono pericolose, potenti, virali. Il cine-cuore fa paura. Lo vorrebbero modificare geneticamente…
Date un’occhiata, se potete, a otto gioielli incandescenti del secolo scorso, realizzati da un regista mauritano, ex cuoco prof, poi attore di qualità a Parigi (a scuola, gratis, da Francoise Rosay, e Jacques Feyder era suo marito) che - istintivo seguace di Mekas - prima di affrontare un lungometraggio aveva minuziosamente saggiato con tre corti (Ballade aux sources ,’67; Roi de corde, ’69; e Mes voisins, ’73) le sue capacità espressive e qualità improvvisative: Soleil Ô; Les Bicots-Nègres vos voisins (sul razzismo nelle banlieu, Tanit d’oro a Cartagine); Nous aurons toute la mort pour dormir (doc sulla guerra dimenticata del Fronte Polisario), il musical West Indies (ogni monumento, ogni industria dell’occidente ha beneficiato dei profitti derivati dal traffico di schiavi, visto a Venezia); il kolossal panafricano che vinse il Fespaco 1987 Sarraounia (senza 50 milioni di franchi francesi, prestati dal poverissimo Burkina Faso di Sankara, non si sarebbe mai fatto ed è il prequel storicamente determinato di Black Panther su una guerriera femminista che tenne testa all’armata francese unificando tribù secolarmente rivali); Lumière noire (un polar, 6 anni per farlo, sulla pratica barbara del rientro forzato degli immigrati “clandestini”, i francesi non volevano concedere un aeroporto come set…); Watani, un monde sans mal e Fatima, L’Algérienne de Dakar. Molti sono tratti da pièce teatrali o romanzi di scrittori dei tre mondi. Tutti sono indipendenti, stilisticamente e contenutisticamente originali e differenti. Anche al loro interno. Le tecniche narrative della tradizione orale e scenica africana fanno sfrenato uso di digressione, trance, accumulo di temi, ripetizione, inserti musicali avulsi o saggistici, cambi di marcia…Nei film, così, parecchie storie e procedimenti formali si giustappongono, i raccordi sugli assi saltano, la suspense è circolare non orizzontale (Maya Deren avrebbe detto verticale), anche perché, spesso fermi per 10 anni, i cineasti non resistono a inserire in sovrimpressione tutte le loro riflessioni sul potere politico, la corruzione, la loro alienazione quotidiana, lo sfruttamento delle donne, il colonialismo, i guai della tradizione folklorizzata dai Jean Rouch, i 5 secoli di rapina continuata e ripetuta… Di magico, oltre alla modernità che già ci dà quel mix tra documentario e finzione raccontati in prima persona maschile singolare ribelle, c’è che bisogna anticipare le “forme dell’intenzione” del pubblico futuro, cui regalare set ludici sorprendenti. Perché prima di un buon numero di anni quel progetto non prenderà vita…. In lingua wolof la parola cinema significa infatti “stupire”.
Questi otto film obbligatoriamente afro-futuristi sono stati realizzati dal 1967 al 2000 dal più marxista, radicale e panafricanista dei cineasti. Med Hondo. Scorsese ha restaurato l’esordio in bianco e nero, Soleil Ô, 3 anni fa (e il Cinema Ritrovato rese uno dei pochi omaggi italiani a questo artista unico). Girato nei week end dal ‘67 al 1970, e subito voluto alla Semaine di Cannes, è uscito (male) solo a Parigi in poche sale normali nel 1973. Si analizza una differente emigrazione (che allora si riteneva provvisoria e non crescente), il sempre eterno razzismo anche operaio bianco, il sindacalismo pigro, l’indifferenza dei notabili africani, e si ipotizza, come antitesi, una svolta socialista, non come ideologia pietrificata ma come futuro da costruire senza permettere la tirannia dell’ iperprofitto privato.
Negli ultimi 20 anni Med Hondo è stato cancellato. Ha cercato senza successo di realizzare un kolossal su Toussaint Louverture, il leader nero che guidò la prima rivoluzione vincente di schiavi ad Haiti, sconfiggendo militarmente le truppe di Napoleone e moralmente una Francia incapace (sanculotti a parte, e Babeuf) di declinare fino in fondo e per tutti i popoli della Terra lo slogan Liberté Egalité Fraternité. Per vivere doppiava in francese le star nere dei film e dei cartoon hollywoodiani. Med Hondo è morto a 82 anni a Parigi, il 3 marzo 2019, sconfitto, ma mai domo. Aveva occhi penetranti e vincenti. Di una dolcezza tagliente. Gli avranno fatto pagare anche quel documentario La faim du monde - Sahel, la faim, pourquoi? che nel 1981 anticipava quel che oggi solo Greta ha capito. L’abuso neoliberista del cambiamento climatico.
Il fatto è che Hondo era isolato. Perché non esiste ancora un “cinema africano”, strutturato come industria culturalmente contagiosa. Ci sono solamente cineasti, certo bravi come Spielberg ma tutti tenuti d’occhio o messi in fuga come von Stroheim, semi-invisibili in patria e fuori, per lo più abbandonati al loro destino e che non riescono in una vita a realizzare che un centesimo dei loro progetti. E questo è uno dei trionfi più perfidi del neocolonialismo e della orrenda classe dominante autoctona che si è sbarazzata scientificamente di ogni intruso, non solo politico, Nkrumah, Cabral, Lumumba, Ben Barka, Samora Machel, Sankara, ma anche artistico e culturale…. Med Hondo, un Omero senza patria, film-maker nomade, che dei suoi film è sempre stato responsabile totale (regista, sceneggiatore, spesso interprete, produttore, distributore, esercente…), è il simbolo inquieto di questa catastrofe. Esule a Parigi, perché la Mauritania è una pericolosa dittatura (di quelle adorate dalle istituzioni bancarie internazionale e dalla Ue), non ha mai permesso ai francesi di mettere bocca sui suoi copioni. Come il senegalese Djibril Diop Mambety, due lungometraggi in tutto, e condannato al “fuori dal set” per 20 anni…. Hondo è stato così ‘ucciso’ dalla distribuzione e dall’esercizio dominante. In Italia nessuno ha visto i suoi otto film, festival a parte (e pochissimi).