(con la collaborazione di Erik Negro)
Dalla parte del cinema
Esprimo i miei dubbi su Atlantique di Mati Diop. Posso? E mentre li esprimo, difendo la regista. E ho intenzione di supportarla anche in futuro. L’ambiguità, l’incertezza di giudizio, sono ancora oggi la parte migliore dei film (sul cinema invece, bisogna avere dei principi più saldi). Atlantique ha di bello che la sua regista è sfrenata, ha molte troppe idee e non ne rinuncia a una, ha dei conti in sospeso e li paga tutti (Touki Bouki!), è decisa a filmare il mare il più possibile, anche a rischio di ripetersi, ama le sue attrici e si dedica a loro completamente. Atlantique è anche un film fragile perché qualcuno - il sistema delle co-produzioni che ormai sono il lato oscuro dei festival - ha chiaramente provato a mettere ordine all’approccio emotivo e istintivo di Mati Diop (ma Claire Denis non l’aveva scelta proprio per questo in 35 ruhms?). Probabilmente, ma non è il primo caso, scambiandone la passione per confusione o, peggio, pensando che il pubblico avrebbe potuto giudicarlo un film confusionario. Figuriamoci, un’opera prima in concorso a Cannes… Essere la nipote di Mambety, l’attrice di Claire Denis, avere una montatrice come Aël Dallier Vega sembra non sia sufficiente a evitare uno stretto controllo editoriale.
Un anno ai festival significa spesso avere a che fare con paradossi di questo tipo. Il più antipatico e controverso resta quando appunto si ha la sensazione che un film venga confezionato in base al pregiudizio che il pubblico sia sostanzialmente stupido e bisogna andarci piano. Un anno ai festival però significa anche imbattersi in quelle che chiamerei ‘imperfezioni resistenti’, parasites (film e registi) che sfruttano la loro fragilità o spericolatezza per combattere tutto un sistema di temi contenuti quote che sembrano minacciare, se non presi in considerazione, l’emarginazione e talvolta la sparizione. Mati Diop è un buon punto di partenza perché caso emblematico e con le spalle più coperte (ora anche da Netflix). Anche perché va ricordato che i film di cui brevemente ci occuperemo, nel bene e nel male, è nei festival che, nonostante tutto, trovano spazio. Parasites necessari.
Per esempio Zumiriki di Oskar Alegria, sul quale lascio la parola al nostro Erik Negro, che ne scrive così:
“Mio padre era solito filmare le tradizioni e i paesaggi del suo villaggio. Un giorno notai che aveva anche l’abitudine di filmare le piante e gli uccelli che stavano scomparendo, mentre contemporaneamente registrava i loro nomi in basco antico all’interno della colonna sonora...”; così Oskar Alegria descrive i ricordi riflessi dal fiume Arga, nella profonda Navarra, dove quel lembo di terra è oramai nascosto tra le acque, all’ombra di un’enorme diga. Zumiriki (già la densa etimologia del titolo, ovviamente in lingua basca “isola in mezzo al fiume”, è una direzione senza fine), appare come atto unico dalla forma ermetica di un linguaggio denudato anche dalla parola, dove solo l’occhio si sente partecipe del creato (e creatore di altro). Una nuova mappatura di quel territorio durato giusto l’infanzia di un autore/attore, ora nella vivisezione delle sue rimembranze, in un diario a cuore aperto. Un luogo magico, nella sua completa astrazione, abitato una volta anche da Albitsur, eremita e pastore, isolato al mondo da un fiume, lasciando la parola aldilà di esso. Dalle conversazioni con lo zio di Oskar si narra che una mucca del suo gregge sopravvisse al macello, così da diventare essa stessa fantasma mitico di quella memoria. Oskar allora decide di costruire la sua capanna isolata, il tempo di un’estate (lo stesso dell’infanzia?); per guardare l’invisibile di spazi delimitati oramai solo da due grandi alberi su cui giocare e lasciarsi trasportare. Interno ed esterno a una realtà, quasi parallelo e mai tangente.
La deriva su senso e percezione delle cose, sta nella domanda, nella sua continua esposizione di un’erranza che lotta contro l’abbandono. Lo sono le poche anime che nell’oblio vivono in questi luoghi una personalissima resistenza alla morte, cristallizzate in quella capsula; lo è una lingua i cui fonemi paiono scomparire ogni (ultima) volta venga pronunciata una sola sillaba. Nel passaggio, il tempo sublima ciò che non può più esser visto. Attraverso questo crinale assai scosceso Oskar cammina su di un filo che nessuno di noi può intuire, per sfuggire a questo nulla, a questo vuoto; nella doppia sopravvivenza del sostenersi per qualche mese alla natura matrigna dei propri ricordi, e resistere al naufragio del disastro di ciò che sfugge. Ed ecco le immagini che pian piano sorgono come germogli, specchio di quei pochi fotogrammi di 8mm filmati dal padre, apparsi qui come miraggio di un esploratore che non saprebbe più riconoscere la terra da trovare. Una nuova genesi, nel ricreare un rapporto, tra gli oggetti (un orologio e un coltellino) e la loro immagine; inseguire la luce che li dipinge e che su di essi si scompone come impronta della fisicità di ciò che è perduto. Guardare e farsi guardare, dalle galline, dagli altri animali sperduti nella notte; tessere una tela così sottile di rapporti e suggestioni, da essere dolcemente percepibile a chi ascolta, con quell’utopia di purezza che sfida il dramma della caducità della durata a cui siamo aggrappati. Il senso dell’attesa diventa pulsante, fino a donare all’e/assenza della memoria un’altra possibilità, quella della follia. Arrendersi significa sparire, non lasciare nemmeno una traccia di tutto questo passaggio.
Ciò che questo film lascia è il suo divenire, qualcosa che fa parte della sostanza propria del cinema, di chi lo fa nel momento stesso di guardarlo. Oskar si muove con noi, sempre ad un passo dal naufragio, nella continua decostruzione di quell’impressione lontana che pare sedimentarsi nell’oggi, nella flagranza di una libertà che reinventa un piccolo mondo per farlo fluire tra realtà e apparenza. Cerca di cogliere ora ogni attimo, tornare sui passi dei propri frammenti per costruire uno squarcio nella rappresentazione dove possa esistere un’altra vita, un altro tempo. In questa pratica della perdizione, che rifiuta ogni struttura e teoria possibile che non sia quella dell’esperienza, il nostro piccolo esploratore entra in contatto con se stesso, con l’esigenza di inglobare ogni elemento che sfiora; nella perenne angoscia drammatica di poterlo perdere un’altra (ultima) volta. Nel gioco continuo dell’atto-cinema come evocazione di fantasmi, nella ricollocazione continua dell’affondare in una qualsiasi rimembranza, nelle lancette di quell’orologio fermatosi per sempre alle 11.36 (e 23 secondi). Ecco quella mucca, e con essa tutti i segreti del mondo, tutto l’invisibile che si fa carne della memoria. Nessuno sa se sia mai esistita o se fosse proprio lei ad apparire oggi, ma cosa conta oramai? A cosa tutti noi possiamo affidarci se non al cercare ciò che siamo (stati)? "...fu allora che appresi che se le parole muoiono, anche gli uccelli e le piante svaniscono. Filmare era allora un gesto per salvare il nostro mondo antico. Filmare per vivere due volte. Filmare per sentire la nostra voce di bambini.". Così Oskar sulla pratica del padre, del suo filmare tutto ciò che poteva scomparire; così noi, riflessi di qualcosa che non sia il fiume Arga, ma un’immagine che confonda e specchi le nostre paure, le ampli e le condensi, le faccia crescere così tanto fino a farle esplodere. Così io a crcare, inutilmente, la parola che possa dare senso a questo testo in relazione a ciò che abbia potuto (intra)vedere sull’isola dei miei abbandoni, in cui questo film inesorabilmente trasporta. Così lui oggi, qui e ora. All’infinito (e oltre).
Invero a Venezia quest’anno c’erano un altro paio di esempi di questo tipo, ma sui quali mi sentirei di puntare con qualche certezza in più. Alegria ha la stessa qualità del suo film, sembra un caso unico che difficilmente si ripeterà. Invece un cortometraggio come Cães que Ladram ao Pássaros di Leonor Teles - già esordiente col bel documentario Terra Franca, e geniale DOP per l’altro grande esordio portoghese di due anni fa, Verão danado di Pedro Cabeleira - dà l’impressione di essere solo un capitolo di una carriera che sarà lunga. Qui c’è ambizione e sfrontata certezza dei propri mezzi. Si dicono cose complesse - in fondo il corto è solo un’istantanea presa nel bel mezzo di una giovinezza - in maniera semplice. Teles non ha bisogno di esibire tutto il lavoro che probabilmente c’è stato per cancellare il punto di partenza documentario e realistico, il film è già tutto decentrato e giocato su una velocità quasi action della caméra, che cerca di accompagnare l’erotismo del suo giovane protagonista e di assecondare il suo sguardo fluidissimo e intelligente su una città in piena mutazione. Non a caso tutto finisce con una caduta, che però non è altro che un nuovo punto di partenza.
Stessa cosa per Atlantis di Valentyn Vasyanovyc (titolo ricorrente quest’anno…). Non solo per una delle scene di sesso più belle degli ultimi tempi, ma per l’intuizione di ricavare una messa in scena distopica dalla realtà nuda e cruda. Bastano pochi tocchi e uno sguardo di grande respiro. Il mondo svuotato e apocalittico ha il suo contrappunto nel ritrovamento di cadaveri (il lavoro dei due protagonisti), come una morgue a cielo aperto dove però i corpi senza vita riconsegnano valore alle macerie. Ecco un regista da seguire con attenzione.
Due film sorprendenti arrivano da Locarno. Lo spagnolo (o meglio galiziano) Longa Noite, opera terza di Eloy Enciso e il vietnamita Nhà Chây (The Tree House) di Trương Minh Quý. Enciso è il primo regista che io ricordi capace di lavorare sugli insegnamenti di Straub-Huillet senza commettere l’errore di riprodurli. Il lavoro di Enciso con gli attori non professionisti è più dolce, più in cerca di una melodia che di un’immagine scolpita, ma tuttavia in grado di raggiungere – attraverso l’uso di testi scritti in esilio, lettere dal carcere, memorie personali di violenza e sofferenza durante la dittatura di Franco - le stesse vette politiche. Il ritorno a casa del protagonista, il suo lento naufragio nelle foreste galiziane, fa da contrappunto alla durezza delle testimonianze, memorie non riconciliate, che forse hanno l’esigenza del perdono e forse, in parte, vogliono dimenticare. Ecco allora che colui che ascolta è pronto a portare il peso sulle spalle, a prendere il testimone e allontanarsi nella notte, sperduto nel buio e al tempo stesso più vivo. Un film bellissimo.
Nhà Chây si muove sulle medesime corde vocali e politiche. Qui il cantore è fuori campo, parla addirittura da Marte, dove rivisiona le immagini raccolte tra le montagne e le caverne dove vivevano e dove ancora adesso tornano varie tribù e minoranze etniche vietnamite. Popoli e lingue in via di sparizione, spezzate prima dall’esercito Americano (nel film si vede il footage girato dalle truppe Usa che entravano nei villaggi) e poi dal governo vietnamita stesso, che ne provocano la dispersione e ne incoraggiano il ricollocamento, la richiesta di abbandonare usi e costumi provenienti da un passato quasi ancestrale. Trương Minh Quý trasforma questo portato di memorie fragili in un precipitato elettrico di immagini in pellicola, sovraesposizioni, interferenze sonore, testimonianze di linguaggi perduti (non a caso parole come “life” e “death”, una volta tradotte significano nella lingua di una tribu “positivo” e “negativo”, e nel footage marziano c’è una precisa documentazione in split screen di questa transizione), memorie del passato e riflessioni sulla vita quotidiana nella foresta. Una casa a forma di albero, una roccia, riprese casuali della caméra lasciata accesa (che nel film vengono definite come - viene detto - faceva la Varda: “the dance of the lens cap”). Un viaggio intimo e malinconico che, attraverso l’interpretazione filmica, non rinuncia all’azione politica.
Un’altra endless night arriva da Cannes con Ghost Tropic di Bas Devos. Bruxelles come territorio post-apocalittico che mostra tracce di una speranza inattesa. La storia della cleaning lady maghrebina Kadija è semplice e ha a che fare con un’idea di umanità perduta. Il film inizia con la protagonista che finisce la giornata di lavoro con i suoi colleghi, un gruppo dalle più varie provenienze razziali e nazionali, raccontando storie. Una di queste scatena l’ilarità collettiva. Ecco, si ride insieme, a lungo. Poi Kadija prende la metro per tornare a casa. È stanca, si addormenta. Quando si sveglia si accorge di aver mancato la propria fermata e di essere arrivata (anche metaforicamente) al capolinea dall’altra parte della città. Quella era l’ultima metro. Non le resta che incamminarsi nella notte. Una notte senza fine, appunto. Fatta di incontri, di visioni notturne, tutto un mondo speolto ma vivo, umano. E il regista segue con rispetto questa deriva infinita, facendo un film poetico e rigoroso.
Non lontani da queste topografie intime e politiche insieme i due lavori del regista turco Burak Çevik, Belonging (opera seconda, visto al Forum-Berlinale) e A Topography of Memory (cortometraggio, Moving Ahead/Locarno e poi Wavelenghts/Toronto). Sono due radiografie, quasi due operazioni a cuore aperto, la prima a partire da un caso di omicidio accaduto veramente nella famiglia del regista, la seconda sulla struttura stessa di una città come Istanbul, presa a metafora del controllo (tutto il film fa uso delle camere di sorveglianza che la monitorano) e della distanza della popolazione da questo sistema inesorabile che la guarda e dovrebbe riguardarla (fuori campo sentiamo le discussioni di una famiglia che esce di casa per andare a votare alle elezioni del 2015). Belonging comincia nella stessa maniera. I luoghi e i fatti dell’omicidio vengono scandagliati con precisione ossessiva, ancora una topografia, ancora una voce fuori campo che funziona come una confessione. Poi la svolta. I fatti vengono rimessi in scena. Non l’omicidio, ma l’incontro e l’inizio della storia d’amore tra i due protagonisti. Un ragazzo e una ragazza si incontrano, bevono un caffè, parlano, si conoscono, passano la notte insieme e, alla mattina, dopo colazione, si separano. Ma nella prima parte del film abbiamo saputo che in seguito la ragazza ha convinto il suo amante a uccidere sua madre. E lui ha pagato un killer per compiere l’assassinio. Un’analisi clinica, che ha il pregio di non dare giudizi, ma di porsi come interrogazione pura. Cosa può aver provocato, solo poco tempo dopo, il piano criminale? È successo qualcosa quella prima notte - qualcosa di invisibile anche a loro stessi - che si è lentamente fatto strada nelle loro menti e nei loro cuori e che piano piano ha lavorato fino al disastro finale? La cosa interessante, è che in questa fredda analisi, non c’è solo il piano intimo del regista che cerca di capire, ma la richiesta specifica allo spettatore di guardare e di trovare qualcosa che è sfuggito a chiunque, anche ai familiari. L’intuizione di Çevik è notevole: non servono giudici o tribunali, ma di qualcuno che si metta dalla parte del cinema.