"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

LE TEMPS RETROUVÉ (2) - Tommaso + Siberia + Sportin’ Life (Abel Ferrara)

Sunday, 14 March 2021 13:59

Daniela Turco

A dangerous method

È quasi impossibile prendere gli ultimi film di Abel Ferrara, Tommaso, Siberia e Sportin’ life (quest’ultimo - il più recente dei tre - presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2020), come dei lavori a sè stanti. Si ha invece l’impressione di trovarsi di fronte all’articolazione di un unico progetto in divenire, che muovendo dal groviglio di una stessa matrice prende strade diverse, ciascuna necessaria alle altre, ciascuna, talvolta, il riflesso o il rovescio impossibile delle altre. Ci si sente chiamati a smarrirsi nelle spirali sottili e ambigue della finzione di Tommaso, il cui protagonista interpretato da Willem Dafoe sta lavorando a un film che poi diventerà Siberia, in cui è di nuovo protagonista di un’esplorazione anche più radicale nei crepacci scoscesi dell’io, che per Ferrara rappresenta da sempre la scena primaria, da New Rose Hotel, a Mary, a 4:44 Last Day On Earth; tutti film in cui i personaggi sono impegnati a cercare disperatamente qualcosa, soprattutto all’interno di sé.

In Tommaso e in Siberia è Willem Dafoe a esporre i propri paesaggi interiori e a mettere in gioco le intermittenze e i rispecchiamenti del suo corpo d’attore, gli scarti tra sè e sè, tra sè e il personaggio e tra sè e Abel Ferrara, di cui è un possibile alter ego, mentre un io infinitamente diviso si muove tra le fessure che si aprono tra finzione e realtà che formano la costellazione del film, un tessuto denso e stratificato di sogni, memorie, allucinazioni, frammenti di testi e di immagini, resti alla deriva.

Il protagonista di Tommaso porta lo stesso nome del più restìo a credere di tutti i discepoli di Gesù, come racconta il vangelo secondo Giovanni, e questa realtà fisica della passione-morte- resurrezione di Cristo, di cui Tommaso ha bisogno per poter credere, ha lo stesso segno preciso che fonda la sorprendente materialità che hanno le immagini di Abel Ferrara, che tanto in Tommaso, quanto in Siberia mostrano tutta la potenza di incarnazione che possiedono i fantasmi, le paure, i desideri, i sogni, materiali vivi e indistinguibili - ed è questa la loro forza - dalle altre immagini della realtà.

In Tommaso, ad esempio, quando il protagonista vede la moglie Nikki - interpretata da Christina Chirac, moglie di Abel Ferrara -, che abbraccia un ragazzo nel parco, o quando, più avanti nel film, rientrando in casa, la scopre con lo stesso ragazzo, che Tommaso non esita a uccidere con un colpo di pistola, si tratta di eventi reali o ci si trova invece nel registro opaco dell’allucinazione? Tutto il film è continuamente percorso da questi momenti che sono insieme romanzeschi e vertiginosamente indecidibili, un fitto catalogo di pure visioni, una teoria di catastrofi rilevate da un sismografo, angoscianti e misteriose come l’allucinazione della figlioletta (interpretata dalla figlia del regista, Anna Ferrara) investita da un’auto, o come l’estrazione dal costato di Tommaso del suo cuore palpitante nel giardino di piazza Vittorio, che viene passato di mano in mano dal gruppo degli ambulanti che lo hanno accolto fra loro: “prendetelo è tutto quello che ho”, o, ancora, la sua crocifissione finale, di fronte alla stazione Termini, dove il corpo di Willem Dafoe cede di nuovo all’ultima tentazione del Gesù di Martin Scorsese.

Lo stesso filo narrativo e ambiguamente autobiografico di Tommaso si iscrive nella realtà di una Roma che è insieme dolcemente familiare e nello stesso tempo estranea, filmata da Abel Ferrara come una terra primordiale, così come doveva essere apparsa negli anni ‘50 a Pasolini, folgorato dal suo originario splendore. Lo stesso fantasma di Pasolini diventa un’ombra che cammina accanto al film, mentre si riscopre la città insieme a Tommaso, che ne percorre le strade notturne, nei suoi tragitti dal Viminale fino a Piazza Vittorio, quando ritorna dagli incontri degli Anonimi Alcolisti, mentre, di nuovo, le tracce più drammatiche di Roma faranno irruzione in Sportin’ life con le immagini, prese dalle news, della benedizione sotto la pioggia di papa Francesco davanti a S. Pietro nel marzo 2020 e di una città spettrale e deserta, svuotata dalla pandemia.

Tommaso e Siberia, girati l’uno a ridosso dell’altro e oscuramente legati da un’idea di numéro deux, come se fossero l’uno il sogno - o l’incubo – dell’altro, inaugurano un metodo che fa germinare l’ideazione e il lavoro su un film dal terreno delle immagini di un altro. In Siberia Clint, il personaggio interpretato da Willem Dafoe, è e, nello stesso tempo, non è il sosia in senso dostoevskiano di Tommaso - così come Tommaso, a sua volta, non si potrebbe definire come l’alter ego di Abel Ferrara -, anche se, come il suo doppio a piedi per Roma, e come il regista, è spinto da una medesima inquietudine, che gli fa lasciare il rifugio di montagna per mettersi in viaggio su una slitta trainata dai cani.

Se all’origine di Siberia c’è (non dichiarato) il Libro Rosso di Carl Jung e i suoi studi perturbanti sull’immaginazione attiva e sulla possibilità di intercettare e di fissare i sogni e le visioni dell’inconscio collettivo, si sentono gravare nel film molte altre ombre, alcune perfino più remote, come il mondo oscuro di F. Dostoevskij e di Ricordi dal sottosuolo, dove ogni gesto quotidiano del soggetto diventa una discesa spericolata nell’inferno di se stessi. Siberia e Tommaso sono due facce di un unico film, in cui si compie una dispersione sistematica e progressiva del soggetto; in Siberia, dove sembra dominare la dimensione spaziale, si passa dalle montagne coperte di neve, attraverso uno splendido raccordo su una configurazione stellare (presente anche in Tommaso), alla sabbia del deserto messicano, mentre il paesaggio di Tommaso si muove più lungo un asse temporale, che gli fa ritrovare una Roma perduta, di disperata vitalità, come quella vissuta da Pasolini. Parola e immagine considerate nella potenza del loro rapporto, come per Pasolini, sono un’ossessione anche per Abel Ferrara, che si impegna in ciascuno dei suoi ultimi film a dare corpo e sostanza all’una e all’altra, a restituirne il peso e la materialità fisica, come per un miracolo, che ogni volta si deve compiere.

In questo senso, sono pochi i registi che, come lui, riescono a costruire tanta realtà fisica nello spazio breve e incerto di un racconto. Questo succede, ad esempio, in Tommaso, quando, durante uno degli incontri degli A. A., Dafoe parla del periodo in cui era in preda alla dipendenza da alcol e droghe, in cui aveva fatto un sogno dove veniva selvaggiamente picchiato e solo al risveglio aveva scoperto che si era trattato di un’aggressione reale. Una realtà-sogno violenta, probabilmente realmente vissuta in passato da Ferrara durante la lavorazione di un film, che viene qui ricreata da Dafoe, in un gioco di distanze e di specchi che restituisce il processo emozionante di una parola che si materializza in immagine.

Rendere visibili i desideri, i sogni, i pensieri e gli incubi, era anche il metodo pericoloso del Libro rosso, di cui si ritrovano in Siberia alcune immagini dettagliate e precise, come il sole rossastro che brilla dal fondo buio di una grotta o le distese di sabbia del deserto, che nel film non sono tanto la visualizzazione delle immagini descritte nel testo, quanto le tracce di un processo esoterico e alchemico che non ha fine e che scorre negli scarti tra scrittura e cinema.

Un cinema della différance - nel senso di sospensione spazio-temporale data a questo termine da Jacques Derrida -, delle differenze e dell’infinito slittamento del soggetto, quello di Abel Ferrara, un cinema che è insieme mentale e oscuramente organico e che, proprio a partire dalla sua densa corporeità - è questo il paradosso - , spinge continuamente chi ne fa parte e chi guarda a chiedersi che cosa è reale. È per confrontarsi con questa domanda che Clint attraversa con i cani le distese di neve, poi il deserto e infine una casa dove può incontrare i propri fantasmi - il padre chirurgo, la ex-moglie, la madre (l’unica a chiamarlo per nome) - appare il suo volto sorridente tra le foto della famiglia reale di Willem Dafoe -, prima di fare ritorno al punto da cui era partito, dove non c'è più una casa, ma solo rovine sparse nella neve. È la fine del viaggio, che forse coincide con quella della vita, come profetizza in ebraico il pesce parlante, nell’ultima sequenza: “La fine è vicina”.

Tommaso e Siberia sono film che non hanno paura di spingersi a scrutare nell’abisso, nel buio delle macerie interne; per questo le deboli tracce rappresentate dai racconti presenti in entrambi, toccano così profondamente: perché sono i residui preziosi di memorie personali del regista, che si mescolano a un certo punto anche con quelle dell’attore, brandelli di singole vite che vanno a far parte delle vaste regioni dell’inconscio collettivo, prima sognato e poi messo in parole da Jung, come fossero i pezzi dispersi di un puzzle che anche uno spettatore-esploratore è chiamato a raccogliere e a ricomporre, per partecipare al film con immaginazione attiva - la definizione di Jung -, per vivere il film come un’esperienza che lo riguarda (cfr. su questo la conversazione con Abel Ferrara in Film parlato, n.14, a cura di L. Esposito e G.A. Nazzaro).

Alcune sequenze di Siberia, insieme ad altre di Tommaso entrano anche in Sportin’ life, un film-manifesto che mentre da un lato dà al metodo di lavoro di Ferrara uno spessore teorico e politico mai sperimentato prima con questa intensità, dall’altro appare a sua volta come lo stadio estremo di un lungo processo alchemico di trasformazione, il distillato terminale del percorso compiuto da Abel Ferrara in questi ultimi anni nel cinema. In Sportin’ life la sua visione labirintica e frammentata prende il ritmo selvaggio di una jam session, dove il cinema appare per quello che è, l’ultimo presidio umano cui poter affidare le immagini dei propri film e quelle visibili e invisibili della propria vita, da raccordare con i nobody’s shot, con i frammenti montati dalle news, che formano nel loro insieme il magma splendidamente musicale del film: una vasta nebulosa di detriti di immagini e di suoni, disposti in costellazione dal magnifico lavoro di editing di Stephen Gurewitz e Leonardo D. Bianchi, in cui la domanda che continua ad attivarsi è sempre la stessa: che cosa è il cinema, e perchè lo si fa.

I frammenti di alcuni suoi film precedenti: Mary, Go Go Tales, The Addiction, Pasolini, 4.44 Last Day On Earth, Alive in France, Searching For Padre Pio, Tommaso, fino a Siberia, costituiscono una sorta di controcanto o di rovescio alle immagini delle news e dei filmati postati in rete durante la pandemia a Roma e a New York - che affascinano Ferrara in quanto utopia incarnata di un cinema universale, di nessuno e di tutti -, e nell’incastro con gli estratti dalle conferenze, gli incontri con la stampa durante i festival, i filmini familiari della figlia che gioca a casa, tracciano nel loro caotico insieme un’opera apocalittica e grandiosa - pura action-painting - sullo stato del mondo.

Dalla cornice del Festival di Berlino, uno dei luoghi-set provvisori, sparsi nel film, Abel Ferrara con Willem Dafoe in un incontro con la stampa, definisce il progetto di Sportin’ life come un meta-documentario, un documentario, cioè, sull’atto di girare un documentario. La forma stessa del film oscilla continuamente su questa doppia polarità tra una necessaria distanza e la presenza, spesso insostenibile, delle immagini della pandemia e del lockdown, riprese a Roma e a New York, nella metropolitana e nelle corsie degli ospedali, con il sound angosciante del respiro affannoso e della tosse dei malati, con la visione delle sepolture viste dall’alto di Hart Island e la deriva tragica e grottesca delle dichiarazioni del presidente Trump.

Sportin’ life (letteralmente: mettere in mostra la vita) parla di un cinema che si spinge oltre ogni limite per toccare ogni piega dell’esistenza, compreso il mistero continuamente interrogato del sacro, un cinema contradditorio e controverso, vivente, in senso profondo, nel momento in cui si muove nel ritmo stesso del respiro: “Un’inquadratura alla volta, così come per vivere, si fa un respiro alla volta”.

Non sorprende che tra le diverse sequenze prese dai suoi film, sia l’ombra inquieta di Pasolini - ancora Willem Dafoe - nelle sue perlustrazioni notturne di Roma, a ritornare più di altre per accompagnare questa ricognizione dolente eppure disperatamente vitale di quel mondo di macerie, che è l’oggetto e la forma stessa del film.

Sportin’ life, con le parole dell’ultima intervista rilasciata da Pasolini, dice che siamo tutti in pericolo, intendendo esattamente qui e ora. Non è quindi per caso che il film si concluda, o, più precisamente, smetta di respirare, con le immagini di Minneapolis e di George Floyd, messo assurdamente a morte dalla polizia durante il suo arresto. Nel cinema, come nella vita, serve il respiro, è su quel ritmo naturale che Ferrara fa procedere il suo lavoro, di qui la scelta di quel filmato scioccante, che ha fatto il giro del mondo, per chiudere il film, tracciando un ritratto fulmineo, in anamorfosi, dell’America contemporanea.

Sportin’ life, resta il film-manifesto più politico e crudo del 2020, che se lascia scorrere la vita liberamente nei suoi shot - nei live più teneramente appassionati delle canzoni di Joe Delia e Paul Hipp - è obbligato a concludersi - nel solco delle Histoire(s) di J.L. Godard - riprendendo la morte, con il corpo di George Floyd a terra e il ginocchio del poliziotto premuto sul collo, che gli toglie respiro e vita. Una materializzazione violenta della morte al lavoro che occupa letteralmente l’ultima immagine, che si va sempre più ingrandendo, come in uno zoom, finchè il nero della divisa invade totalmente lo schermo, prima del black out dei titoli di coda.

Siamo tutti in pericolo.

 

 

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