Sabotaggio
Kamal Aljafari è un fidai, devoto sabotatore della stirpe dei Feddayyìn. La devozione però, per Aljafari è parte di un discorso che vicino alla rabbia mette sempre la responsabilità. Motivo per cui questo bellissimo film devoto alla lotta e alla resistenza fin dal titolo, sarebbe un film necessario in qualunque momento degli ultimi cent’anni non solo nell’attualità stringente.
Lavorando su materiali in via di sparizione, o manipolati all’origine dall’aguzzino che ti toglie l’aria la terra e la vita per renderli non più assegnabili a un fatto storico e geografico preciso (questo prima ancora che, ovviamente, trasformarli in qualche spietata menzogna), Aljafari ritiene che bisogna sapersi responsabili dell’unico vero atto di sabotaggio di questi nostri tempi insanguinati: la difesa strenua, a costo della vita, della verità storica, della memoria individuale e collettiva di un popolo martoriato.
Aljafari è entrato in possesso dei resti, proprio delle vestigia, dell’archivio con cui il Palestine Research Centre custodiva più di cinquant’anni di storia attraverso immagini e filmati palestinesi (pensati dai palestinesi per i palestinesi, per non dimenticare). Quando Israele invade Beirut nel 1982, riesce a trafugare e saccheggiare questa banca dati vitale e mette in moto una brutale macchina burocratica che rinomina e ricataloga ogni reperto mutandone e confondendone all’origine significato provenienza e verità. Come si vede in una sequenza del film, gli autori (funzionari che obbediscono agli ordini, storia e scusa risaputa) di questo dischiarato progetto di spossessamento, sono ben consapevoli e se ne vantano.
La parola è una, genocidio, anche se nei tribunali se ne discute ancora. Il punto però è cosa deve fare un cineasta che recupera questi materiali ridotti a essere irriconoscibili e in via di estinzione (stiamo parlando di VHS in cattivo stato). Si dà il caso – ma è facile immaginare l’indifferenza anche su questo da parte dello Stato di Israele – che proprio Aljafari abbia messo a punto nei suoi film un teoria di spossessamento della cinepresa. Anche Aljafari manipola, contorce l’immagine, la graffia, modifica e ricombina sonori già più volte ritoccati per significare altro da quel che si vede, ricolora ciò che già è stato sovraesposto. L’oscuro manipolatore israeliano voleva nascondere un fatto? Aljafari prende quell’immagine e quel fatto e li evidenzia ritoccandoli a mano. L’immagine viene così spinta verso il suo primo e ultimo vagito, perché deve fare una sorta di auto-rivoluzione che permetta il riemergere da dentro una fisica precaria squarci di fatti e persone vere e, se possibile, ristabilire il corso reale della Storia. Questo – Aljafari lo sa bene, ed è forse il lato più poetico della sua battaglia contro-informativa – non esclude ciò che della realtà e della Storia attiene all’illusione. È tipico dell’ideologia dell’espropriatore pensare che un archivio possa essere completo e concluso una volta per tutte, mentre un archivio è frammentario in quanto tale, soprattutto se attiene alla memoria viva delle persone.
Ecco perché fa parte di questa responsabilità mostrare anche il punto di vista del torturatore, conoscerne il metodo certo disumano, ma politicamente definibile con una sola parola: colonialista. I diseredati sottoposti a continuo oltraggio perché la loro storia venga cancellata, vengono letteralmente riportati al centro del fotogramma lavorando a cuore aperto sul trauma, se c’è l’immagine spezzata di un popolo bisogna usarne i più minuscoli frammenti come ipotesi di sovversione. Ciò che è stato espropriato deve essere ri-espropriato. Rubare un archivio visivo di un popolo e deturparlo ha un solo intento, cancellare la possibilità che quel popolo parli di se stesso, che si filmi, che ricordi, che esista. Ecco perché per Aljafari lo stato del materiale ritrovato non è un problema, ma un’opportunità di dare nuova voce ai palestinesi, non importa quanto precisa storicamente. I buchi di memoria, le incertezze dell’immagine e l’intervento del nemico: tutto deve essere riacquisito e rimesso in moto. Poiché è Israele ad avere il potere di tenere registri e archiviare (nel senso anche di mandare al macero per sempre) archivi altrui, l’idea è di lavorare sul ‘nuovo’ archivio, cioè direttamente sul risultato della propaganda colonialista. Si vedrà – e nel film è inquietante vedere quanto è semplice ritornare alla verità – come tutto quello che gli israeliani volevano occultare in realtà ottiene l’effetto opposto, il popolo palestinese viene rivelato. Free Palestine.