Si salvi chi può (la vita)
Hamaguchi (1): In Evil Does Not Exist l’immagine è intesa come movimento in cerca di un’angolazione che si smarchi dalla narrazione, che funzioni come deviazione, deragliamento. Gli alberi a picco, le carrellate nella foresta sono solo l’inizio di questo continuo contrattacco al narrativo, mentre il cuore di un tale procedimento è la strana impressione che la bambina protagonista di queste camminate solitarie sia sempre viva per miracolo e sempre sul punto di sparire, anche quando ciò non avviene affatto, o avviene non per condurla a una vera sparizione, ma a produrre l’ultimo vero capovolgimento (a sua volta camuffato da enigma o simbolo di qualcosa di misterioso).
Hamaguchi ha chiamato in causa come fonte d’ispirazione il capolavoro di Victor Erice El espirtu de la colmena, di cui Evil Does Not Exist è un remake tanto più stupefacente quanto più riesce ad esserlo segretamente: nessuno infatti, fino allo svelamento operato da Hamaguchi stesso, se ne è accorto, neppure chi scrive. Nulla di grave, anzi è proprio questo accecamento, questa danza con e attorno all’invisibile che ne fa un remake straordinario, talvolta sublime come il suo modello.
L’infanzia è portatrice di poteri speciali, ciò che al bambino non è possibile vedere è in realtà la base di una sorta di veggenza assoluta che riscrive il mondo e al tempo stesso ne rivela i misteri occulti (magari l’inquietante e strisciante potere di una dittatura). Questo soprattutto Hamaguchi ammira e cerca di esplorare in Erice, il modo chiaro sopraffino e anche violento con cui riesce a portare il film su un piano differente di percezione da quello che in apparenza viene mostrato.
La coppia natura/sonoro serve pure a questo, costruisce passo dopo passo una realtà che corre a fianco di quel che si vede. La dimensione eco-horror al confronto è appena un gioco: in questo the village tutti hanno legami misteriosi con la terra che abitano e sono depositari di un qualche segreto ancestrale che coinvolge la natura umana e la natura animale. Da qui il cosiddetto finale enigmatico, che in realtà è chiarissimo e tutto tranne che simbolico: semplicemente le due linee – immagini e narrazione – che fino a quel punto hanno lavorato divaricandosi e giocando a rincorrersi, convergono, in modo però da non dare una conclusione, aprono una soglia, un varco dove tutto è possibile (in tutti i precedenti film di Hamaguchi c’è sempre almeno una sequenza o un passaggio che mira a questo effetto). Il che ne fa un vero rohmeriano.
Hong (2): A Traveler’s Needs. I bisogni di un viaggiatore sono misteriosi in maniera direttamente proporzionale all’alterità espressa dalla meta del viaggio. La questione però si pone diversamente se il grado di alterità è commisurato al viaggiatore e non agli indigeni. Peggio se il viaggiatore ha qualità quasi non umane e – come nel caso di Isabelle Huppert – è portatrice di uno straniamento ancora più indefinibile: da sé prima ancora che dagli altri. Da sé e dalla propria lingua, il francese, di cui si improvvisa insegnante molto sui generis, sicura di poter varcare la soglia dell’incomunicabilità con la ‘borghesia’ abbiente coreana con cui entra in contatto tramite l’idea di far coincidere il ‘mistero’ del francese (di cui si fa letteralmente beffe) col mistero ben più grande degli stati emotivi dell’indole coreana (qui è Hong a prendersi gioco dei suoi compatrioti) e con la folle e impossibile mediazione dell’inglese. Il suo metodo pedagogico consiste nel portare con sé un mazzetto di piccole schede, che estrae solo per tradurre i discorsi dei suoi clienti quando sente che è stata espressa una verità emotiva: le loro ammissioni di dubbi su se stessi, di fastidio o di dolore. Dall’inglese al francese la traduzione è spoglia e in qualche modo poetica (ma autoironica quando gioca a evitare qualsiasi grandeur), come se lasciasse degli spazi bianchi, dei margini di libertà fra le parole in cui i suoi studenti vengono loro malgrado costretti a riflettere sulle loro emozioni: ed è questo che, secondo questa buona maestra, li porterebbe a comprendere davvero il cuore di una lingua. Inoltre la maestra si muove come un colpo di vento, arriva e scompare velocemente, si addormenta sulle rocce, cammina a piedi nudi. L’unico elemento che la lega alla realtà è il suo amore per il makgeolli, un liquore al latte di riso che beve durante tutto il giorno. Saggissima mossa per non impazzire in terra straniera o semplicemente visione etilica della vita.
Le cose poi sono ancora più strane. Cosa dire dei bisogni di questa viaggiatrice se con ogni probabilità non sono esattamente suoi ma corrispondono al modo in cui viene percepita (forse sognata) da un cineasta prodigioso che è prima di tutto un poeta che dichiara in tutta sincerità di non sapere bene cosa e perché fa determinate cose o gli vengono certe idee? Certo, sia Hong che la Huppert giocano con tenerezza e abbandono questo gioco, mostrando con gioia e ironia i brevi istanti in cui la verità non scaturisce da grandi eventi ma dal loro ripetersi quotidiano, o dall’insistere su una parola o dall’essere terminali di confessioni non richieste.
La grandezza di Hong, anche rispetto a tutto il cinema contemporaneo, è la sua assoluta indifferenza a se stesso, a un’idea narcisista di fare film (fermiamoci un attimo a pensare: di quanti registi oggi si può dire lo stesso?). Riesce a contagiare persino un’icona come la Huppert, la quale ha l’intelligenza di arrivare a sublimarsi in questa situazione (a proposito, se questo film si intitolasse Sauve qui peut (la vie) ci sarebbe poco da obiettare). È quasi banale ormai definire questa attitudine come il risultato del rapporto fra ripetizione e variazione, Hong – mi sembra – è un passo al di là di questa dimensione strutturale che in genere è giusto il punto di partenza e che può risolversi velocemente nel formarsi e nel susseguirsi dei dialoghi (sempre essenziali e genialmente naturali e consegnati come un mazzetto di schedine all’attrice la mattina setssa delle riprese: vi ricorda qualcuno?).
C’è qualcosa nel suo metodo che lo conduce vicinissimo alla verità, a ciò che è veramente la realtà e tuttavia, ogni volta che accade, Hong si ritrae, cancella ogni traccia che possa mostrare una qualche intenzionalità del processo. Questa è la sua grandezza: grazie a questo movimento ciò che resta è un senso di purezza tale, da far pensare alla bellezza come a qualcosa di inquieto e inquietante eppure una volta per tutte semplice e potente. Non si possono nemmeno biasimare i detrattori che parlano di film sempre uguali, semplicemente, messi di fronte al puro esibirsi della realtà, così come quando capita qualcosa di inatteso nella vita, la reazione può essere quella di distogliere lo sguardo o di fuggire.