"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

CHAMBRE VERT (1) - Jean-Luc Godard, Michael Snow, Jean-Marie Straub

Sunday, 14 July 2024 10:38

Erik Negro

Jean (Jean) e Michael

 

 

"Quando un amatore filma scene di un viaggio che sta facendo,

di una festa o di altre occasioni speciali, e specialmente quando sta filmando i propri bambini,

sta innanzi tutto cercando di far presa sul tempo e, come tale, sta in ultima analisi tentando di sconfiggere la morte.

Tutto l’atto del fare cinema può quindi essere considerato come un’esteriorizzazione del processo della memoria."

(Stan Brakhage, In defense of amateur, 1971)

 

In quattro mesi, oramai un anno fa, ci hanno lasciato, rispettivamente, Jean-Luc Godard, Jean-Marie Straub e Michael Snow. Per certi versi gli occhi più puri, allora a noi rimasti, dellìinfinito Novecento. Non avrebbe senso oggi ribadirne l’importanza, la loro opera, cosa ci lascino in eredità. Nel lavorare su parte dei loro frammenti di immagini e parole mi sono ritrovato spesso a riconoscere un possibile asse scosceso su cui questi tre giganti si sono mossi verso di noi. C’è una sottile differenza tra l’esistere ed il resistere, sottile ma estremamente marcata. Pochi uomini, ancora meno autori, riescono a camminare su quella soglia; una vertigine che, pensando al “qui e ora", ci porta drammaticamente a chiederci a che livello l’immagine (del post-cinema e del pre-nulla probabilmente) possa ancora in un certo senso significare e se essa abbia dentro di sé un possibile significato. Nei suoi ultimi film – da L'Aquarium et la Nation a La France Contre Les Robots passando per Gens du lac – Straub si interroga ancora sulla lingua invece che sul linguaggio, tra estraneità prima, percezione dei sensi e concetto puro (la lettura) poi, con cui appunto leggere l’umanità e la sua evoluzione sempre più tortuosa. Questa topografia non indaga uno spazio fisico ma quello umano delle relazioni, della società, dello stato in un certo senso, in un cinema che sempre di più suggerisce la cosa che deve mostrare. Un contemporaneo a cui mai è stato indifferente soprattutto quando la posta in gioco è altissima. I confini socio-politico-culturali dell’Europa e del mondo occidentale, sono sempre più in crisi e l’esigenza stessa di indagarli, ponendo l’occhio ed il cuore in uno stato di trincea permanente, è vitale. Lìimmagine e la parola, per qualche amico e lìumanità tutta, nulla più. Anzitutto per l’amico (?) Jean-Luc, cui l’ultima opera di Straub è semplicemente e mirabilmente dedicata. Quello che li ha (quasi) sempre uniti, pur nella loro considerevole diversità, è il lavoro sul dispositivo e sulla rappresentazione, urgenza di delineare una nostra posizione nella Storia che fa sempre più vittime e di denunciare la totale lacuna di una reale coscienza delle responsabilità. Solo ridiscutendo questa desertificazione può sbocciare il desiderio di rivoluzionare forme stabilite: una volontà ferrea di storicità, di rispetto della memoria verso la ricerca di nuove strutture e comunità possibili.

 

Jean-Luc Godard, Michael Snow, Jean-Marie StraubGodard appunto, nel monumentale e in qualche modo seminale Livre d’image e nell’ultimo misterioso e incompiuto Film annonce du film qui n’existera jamais: «Drôles de Guerres» ribadisce quel desiderio di ridiscussione. Già Deleuze ci mostrava come il cinema di Godard fosse, dalla sua nascita, un completo esercizio di interstizio tra le immagini (“una spaziatura che fa sì che ogni immagine si strappi al vuoto e ci ricada”), esercizio che diventerà metodo oltrepassando la stessa idea di attrazione. Si vede in Ici et ailleurs (1976) – vicino anche al Livre, nello sguardo sul mondo arabo – come nel suo trasferimento televisivo di Six fois deux (1977), l’esperimento del “differenziare” e “disparare” le immagini liberandole dalla loro schiavitù dell’essere in catena; qualcosa che vada oltre all’idea del cinema dell’uno come a quello dell’essere (la dispersione del fuori e/o la vertigine della spaziatura di Blanchot), qualcosa che chieda allo spettatore un ruolo essenzialmente nuovo. Dove esisteva il falso raccordo ora c’è il taglio reciso della sequenza, quell’emozione spezzata prima del climax come pratica radicale del (far) vedere oggi, a dimostrazione dell’inesistenza attuale di un fuori campo – nella proliferazione dell’immagine e del nostro consumo legato ad essa – affermando unicamente l’interstizio. Lo studio di più tracce (nella loro profondità spesso divisiva) che si intersechi con il montaggio determinando nuovi rapporti dell’immagine-tempo in accordi dissonanti e interruzioni irrazionali (l’immagine s-concatenata di Artaud). Così come con il colore movimento e immagine, un simbolismo cromatico che amplia e supera l’effetto del mero visibile, uno spazio in cui riflettere e nascondere ciò che vediamo in apparenza; radicalizzazione dell’invenzione pittorica e visiva nei confronti di qualcosa mai visto prima. Il montaggio è autonomo rispetto al film, ma organico nei confronti del cinema. Negli ultimi suoi lavori, la successione di immagini riflessa in un genere (la serialità rispetto allo stesso film, la possibilità che esso ne possa contenere linguaggi infiniti) approda ad una pratica di montaggio apparentemente definitiva. Fu sempre Deleuze a paragonare la moviola di Godard ad una specie di “tavolo della categorie”, dalla verosimiglianza ai paradossi della logica, partendo da Aristotele e Aragon, mutabili e reinventate; una pratica che ha trovato la sua più completa e complessa radicalità dai tempi della rivoluzione di Ejzenstejn. Singolare per colui che negli anni ’60 “ridonava al cinema la potenza del romanzo” – una linea (mai retta) che univa l’autore al mondo esterno attraverso i personaggi – e negli anni ’80 ribadiva al cinema un ruolo altro rispetto alla cultura, oggi cercare con esso nuovi rapporti verso il pensiero lasciando all’archivio quella linea di ricerca. Un rapporto che è progressivo scardinamento secondo il potere della domanda, un qualcosa che ci lasci solo credenza e suggestione di questo mondo. Un genere di discorso che rinvia sempre ad un discorso di altro genere (Daney), lasciando al cinema la specificità d’accogliere immagini che non fanno più parte del cinema stesso, di immagini che ora ci possano restituire la credenza del mondo attraverso il pensiero. Qui e altrove, appunto la nostra Regione Centrale del Livre, quella di Snow, dell’Orwell catalano e di Hitchcock. Quella altra, dell’Arabia gioiosa di Dumas, tra miti e pirati; quella dell’oggi di terrore e paura, dove non si vede ma si percepisce lo squarcio.

 

Arriviamo così a Snow, a uno dei sui ultimi lavori Cityscape e al suo ritorno a La Région Centrale a cui appunto proprio Godard dedica il segmento centrale e fondamentale del suo ultimo lungometraggio. Come fu per uno dei film più radicali e affascinanti di sempre, qui il canadese filma autonomamente la skyline di Toronto con una camera Imax a braccio rotante, un’elaborazione del metodo strutturalista che lo vide sperimentare per anni sul monte attorno a Sept-Îles. Era il 1971 e il dispositivo (costruito con Pierre Abaloos) fu un tentativo unico e circolare di esplorare il movimento (orizzontale e verticale, laterale e spiraliforme) della telecamera/inquadratura e le sue relazioni con lo spazio e il tempo, la grana della terra e l’infinito del cielo, il paesaggio nel suo continuo mutamento; una macchina che permettesse alla fotocamera di muoversi agevolmente attorno a una serie di assi diversi a varie velocità, supportata da una breve colonna, dove l’obiettivo della fotocamera stessa potrebbe rivolgersi al proprio interno. Il mondo è dunque invertito, la luce dissolve le apparenze, l’orizzonte a sua volta invertito nella completa assenza di un qualcosa che definisca la linea del vedere; stiamo ai bordi dell’inquadratura perché il centro è il vortice del tutto, di questa realtà astratta e inafferrabile, di questa percezione invertita e frammentata. Il sentirsi complici di un movimento cosmico, nella trasfigurazione spaziotemporale di un pianeta senza gravità, dagli orizzonti non trasformati ma cancellati, un riflesso del sistema solare senza massa nè volume. Un film eroico, epocale, apocalittico, riproposto pochi anni fa (seppur in forma meno estrema e rivoluzionaria) sulle sue rive del Lago Ontario. La sua lingua anche svuotata da ciò che è pittorico e musicale produce una melodia visiva, quella dell’oggetto, della provvisorietà che altre immagini imporrebbero. Non è più l’inanimato a muoversi attraverso la camera, ma un fondo campo in cui le azioni fisiche, le presenze umane dialogano in un gioco favoloso con la natura e la macchina, mettendo ancora in discussione le nostre percezioni, le nostre abitudini mentali, il nostro esserci. "This time, instead of a landscape film, vast and unpopulated, I was interested in looking at my own city through a more linear view. We seldom think of Lake at the foot of Yonge Street, but the skyline viewed from the islands just offshore is interesting. The title makes clear that the city is the subject. [...] In Cityscape, camera movements - panning and rotating at different speeds - activate the city skyline. [...] In these films and La Région Centrale, camera movement drives the structure subtly but in substantial ways. The latter is cosmic, spanning 24 hours and the entire firmament. Cityscape is an urban landscape and appropriately scaled."

 

Regioni centrali e ragioni digitali insomma. Gli ultimi lavori di questi autori aprono possibilmente uno spiraglio di nuovo ordine del cosmo in cui rivendicare il nostro spazio, in giorni in cui il caos e la paura generano mostri che intaccano costantemente la nostra lucidità; doni e moti all’anima per continuare a lottare, tutti insieme per non nasconderci dietro al vortice di immagini disciolte e indistinguibili, libere da possibili tecnicismi libertari, delle categorie della riflessione, dalla drammaticità della storia. "Le dernier des imbéciles, en effet, peut comprendre que les techniques des gouvernements en guerre ne diffèrent que par de négligeables particularités, justifiées par les habitudes, les mœurs. Il s’agit toujours d’assurer la mobilisation totale pour la guerre totale, en attendant la mobilisation totale pour la paix totale. Un monde gagné pour la Technique est perdu pour la Liberté". Eccoli Bernanos e Straub appaiati e spaiati. La guerra totale e l’oggi, il coraggio di poter immaginare le nostre vite. Come Godard che ancora mostra la nostra nuova incapacità di una lettura “visiva” dell’immagine, del nostro non esser in grado di assimilare una profonda disperazione sul presente, che possa portare ad un vero atto di ribellione (come transfert dal nostro occhio alla nostra mano). Per un cinema - che almeno dalle sue Histoire(s) fino a Drôles de Guerres - possa contenere paradossalmente i fotogrammi di Warburg, le costellazioni di Benjamin o il museo immaginario di Malraux; un motto anarchico, non dogmatico come quello fatto di parole delle grandi religioni (prive di immagini), perché mostra lo spirito del pensiero e della domanda. Le domande a cui siamo chiamati sono già nostre, ma non abbiamo il coraggio di concepirle. Nello stesso modo in cui potremmo chiederci come è possibile realizzare un film in cui la macchina da presa non guarda all’occhio? Le risposte sono quelle di Snow, visivamente così radicali da non esser composte da prolungamenti nel tempo di atti visivi già compiuti consapevolmente, perché la camera non imitava l’occhio umano e tanto meno lui può imitare la camera (un senso più estremo, contemporaneo e futuribile di qualsiasi aggeggio di ripresa potremmo pensare ancora oggi). Un’esperienza incredibile, con torsioni e movimenti vorticosi, colori dinamici e astrazioni di linee, un fotogramma che divampa fuori dall’immagine e si ferma immobile sul sole nel doppio rapporto di trasformazione, capace di qualsiasi magia. Tre registi per costruire una possibile e infinita “metafora della visione” (come direbbe Brakhage, il più grande di tutti probabilmente) definitiva che dona alla 'settima' arte un qualcosa che si ripete all’infinito come al di sopra del visivo, che catapulta nel cuore di un mondo prima della parola, prima dei significati arbitrariamente composti, persino del soggetto, che ci costringe a ripensare non solo il cinema stesso in senso baziniano, ma il nostro intero universo. “La sensazione dello scorrere del tempo è sempre stata molto viva in me, e ne sono sempre stato attratto come altri sono attratti dal vuoto o dall’acqua. In questo senso, ho amato la mia epoca [...] Ora attraversiamo un paesaggio devastato dalla guerra che una società porta avanti contro sé stessa, contro le sue stesse possibilità. L’imbruttimento di tutto era indubbiamente il prezzo inevitabile del conflitto. È stato perché il nemico ha spinto così lontano i suoi errori che abbiamo cominciato a vincere.” Così parlava Debord, di un qualcosa che potesse sopravvivere al destino come all’apocalisse; tra durata e attimo, paura e desiderio, lotta e sconfitta, politica e filosofia, realtà e sogno, mistero e poesia. L’idea di testimonianza umana più profonda possibile, che possa (r)esistere anche al nulla, che oltrepassi lo scorrere del tempo come dell’acqua. Quella che unisce il lago Lemano e l’Ontario, quella incastonata nelle latitudini arabe e quella incapsulata nell’acquario delle cose, quella della fotografia di Wavelenght, osservata fino all’ultima particella. Quella che è (stata) la memoria del mondo, di cui noi siamo specchi o spettri vicendevolmente. E ora? Eccoli qui (e altrove), i robot che ci guidano a spasso per la società, l’intelligenza artificiale che crea per noi immagini e parole, questa interfaccia che giocoforza pian piano si sta prendendo caratteristiche nostre dell’essere. Da una parte la conversione e il mondo nuovo, dall’altra la guerra (sempre lei). Apparentemente uguale a se stessa eppure ora vincolata a questi marchingegni contemporanei (il drone che filma e il drone che uccide), per cui forse ancora più subdola e inspiegabile. Quindi? “Et même si rien ne devait être comme nous l’avions espéré / cela ne changerait rien à nos espérances / elles resteraient une utopie nécessaire / et le domaine des espérances est plus vaste que notre temps / de même que le passé était immuable / de même les espérances resteraient immuables”. Nulla da aggiungere, tutto da (ri)scrivere.

 

 

Ultimi articoli pubblicati

- Questo sito utilizza cookies, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e gestire la tua navigazione in questo sito. I cookies necessari al funzionamento del sito sono già stati installati.Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookies, consulta la Cookies policy.

  Accetto i cookies da questo sito.
EU Cookie Directive Module Information