L’occhio e l’anima
"Nell'uomo, la coscienza spezza la catena, solo nell’uomo essa si libera:
fino a lui tutta la storia della vita era stata uno sforzo della coscienza per sollevare la materia,
ed una compressione più o meno completa della coscienza da parte della materia che sulla prima ricadeva"
(Henri Bergson)
Pensare all’opera espansa di Victor Erice è come attraversare un selva inesplorata di fantasmi unici e irripetibili che si muovono sul crinale assolutamente labile tra la (forma) vita e la (forma) cinema. Significa mettersi costantemente in discussione, esplorare i limiti delle proprie emozioni, portare forse all’estremo ogni sentimento che può attraversare un’immagine, come autore e come da spettatore.
In questo cinema, e in questo ultimo sublime film Cerrar los ojos, Erice non ci mostra l’improvvisazione ma l’imprevedibilità stessa di ciò che significa fare cinema, uno scarto che lui assimila e sviluppa, accettandone l’impossibilità e l’incompletezza, assecondandole e amandole, rifiutandone ogni possibile automatismo. Lavori mai convenzionali, distanti dalla norma, estranei al cinema moderno come ai modelli classici, uno spazio unico e solitario in cui appassionarsi alle anime che attraversano il fotogramma e si sedimentano sul fondo di esso, in un movimento ellittico e riflessivo che solo il rapporto tra l’occhio e l’anima possono comprendere. Una questione di emozione e di forma, giustamente contrapposte e mirabilmente fuse tra loro.
Ogni elemento di questo cinema alieno è una continua messa in discussione della realtà - esistente o ricreata, ricordata o inventata - che sia davanti alla macchina da presa o di fronte allo spettatore, sconosciuto ma individuale, intimo nel suo attraversare lo sguardo. La “miscela di razionalità, intuizione e tatto di Víctor Erice può sembrare una rarità o un esotismo” come affermava anni fa il grande Miguel Marías sul genio di Biscaglia “distinguendolo per un atteggiamento di responsabilità morale e artistica nei confronti di ciò che analizza e insegna – siano persone, paesaggi, suoni od oggetti –, nei confronti del mezzo di cattura e di espressione che utilizza”. Cerrar los ojos gira attorno a tutto questo mentre nel frattempo si espande a molto altro: Erice, modernista segreto e minimalista, è parte integrante della rivelazione di ciò che il cinema sia, del rapporto tra il nostro sguardo e l’interrogazione che esso pone nei confronti del reale (anche in giorni, come questi, in cui il cinema stesso pare essere scomparso). Oggi, dove c’è una sovraesposizione, quasi pornografica, della realtà e dove ogni immagine è intasata da/tra altre (proprio come il nostro occhio stanco), il senso dello ‘specifico filmico’ sta nel non poter/voler vedere più, chiudere le palpebre e immaginare un mondo al di fuori di esse. L’attenzione alla purezza di uno sguardo, alla nostalgia di una rivelazione, l’allegoria di quell’occhio come pulsione e tensione verso cosa non è più presente. Vedere è accecarsi, abitare la forma del non guardare dunque, vivere nel riflesso della memoria per essere altro, nel praticare una verità, quando anche l’oggetto della nostra visione non appartiene più all’essere - espansione possibile di qualsiasi piano della ripresa, dell’accadere della scena prima che altro accada (la vita, probabilmente). La possibilità del mostrare il cinema, in tutta la sua pulsione impura e complessità ibrida, riflettere (verso) se stesso e il suo infinito canto alla durata. Arriverà un giorno in cui davvero potremo chiudere gli occhi (e riguardare ciò che è rimasto impresso nella nostra retina)?
Il tutto parte come un giallo, alla rovescia, in un certo senso. Nelle scarna ‘trama’ di Cerrar los ojos si parla di un famoso attore spagnolo che scompare durante le riprese di un film, punto di costruzione apparentemente banale per un viaggio attorno al costruire un (altro) film. Il suo corpo non viene mai ritrovato, cosicché la polizia conclude che è stato vittima di un incidente in mare. Parecchi anni dopo il mistero attorno alla sua scomparsa viene riportato sotto i riflettori da un programma televisivo che delinea la sua vita. Emergono così immagini esclusive delle ultime scene da lui interpretate, girate dal suo caro amico regista che ora si butterà alla sua ricerca - innescandone un’altra, etica ed estetica, sul simulacro di ciò che (ci) rimane di un immagine. Un mistero che in un certo senso rappresenta la stessa figura di Erice, dall’apertura di quest’opera mistica legata alla figura decadente di Triste-le-Roy (di borgesiana memoria) nel film, del film, di un altro film (che nella ‘realtà’ ci sarebbe forse potuto anche essere, realizzato poi da Trueba). Una fotografia di una ragazza asiatica è tutto ciò che resta. Il rapporto tra il regista e l’autore, entrambi poeti alieni dalle esigenze della contemporaneità, si fa fitto e trasparente nella selva di fantasmi e illusioni che continuano ad abitare fotogrammi oramai deragliati. Proprio quella misera fotografia diventa un oggetto-cinema che apre a spazi e tempi di un’altra storia, uno squarcio di passato riconnesso al presente, per ricreare una forma di futuro per quel film che non è stato. In questo, nel senso di memoria, identità, fantasmi, nel sottile filo che tiene assieme amnesie e malinconie, ci troviamo subito davanti a una delle più grandi opere sulla durata del nuovo secolo.
Dove porta quindi questa ricerca? A una miriade di segni e simboli che si perdono nella spiaggia dove il regista abita e torna romanticamente sconfitto dopo ogni esperienza. Giunge un giorno però in cui i tasselli si ricompongono e l’attore forse ricompare in un ricovero; la memoria se n’è andata, l’astrazione ha preso il sopravvento, lo sguardo oramai è rivolto verso il vuoto. In questa infinitesimale ri-conoscenza di sguardo e gesto, c’è la ricostruzione minimale della tela di un rapporto meraviglioso che nell’immagine ha trovato il suo senso d’esercizio. E quindi cosa, se non l’immagine, può permettersi di poter rievocare la memoria? Nel finale, nel ruolo del vecchio proiezionista che matericamente ci porta a tornare a vedere immagini (le prime, quelle di apertura), risiede forse il senso stesso del cinema e di una vita tutta, scardinando definitivamente la frontiera possibile tra autore e opera, l’infinito punto di (non) ritorno. Un film così può comparire come forma di evocazione di una memoria esterna che vive al di fuori della figura del protagonista, nel chiedersi se il nostro essere dipenda in modo inconfutabile dalla nostra memoria, se siamo i nostri ricordi e nel perderli diventiamo altro, se l’identità che ci contraddistingue appartiene alla provvisorietà dei nostri frammenti. Il tutto in una società sempre più liquida, inclassificabile e atemporale che forse nemmeno più ha bisogno del cinema stesso in preda alla distruzione delle proprie immagini (nel loro essere troppe, infinite, futili). Una realtà collettiva che vive nel suo presente, rifiutando il passato della memoria e il futuro della possibilità attraverso situazioni parziali e spaziali sempre più relative (la televisione prima e il web poi). I miracoli al cinema non esistono più (si dirà all’interno del film), ma cosa - se non il cinema stesso - può essere se non un miracolo? La forma del nostro stesso ricordo lo è, naufragio della forma-vita e rivissuto nell’informe-cinema, fragile, vulnerabile e impossibile. Non è l’occhio di Brakhage che ancora fatica ad aprirsi, è l’opposto che mai vorrebbe chiudersi nella sua assoluta purezza. Quella purezza della durata, il susseguirsi di un istante all’altro, l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. Li in mezzo sta il cinema, istantaneamente morto e così perennemente vivo nel non negarsi mai, nel suo mostrarsi, nel suo esser(ci).
«Sono uno dei sopravvissuti di quel gruppo che, in maggioranza, all’inizio degli anni '60, si trasferì a Madrid per iniziare lo studio dell’antico mestiere di fare cinema. Oltre all’amicizia, ci univa l’intima convinzione che il cinema fosse l’arte del secolo, arte popolare sottolineerei io ora, come fu durante gran parte della sua storia, oggi purtroppo scomparsa. [...] Ho sempre inteso il cinema come mezzo di conoscenza, quindi l’apprendimento per me non finisce mai con il passare degli anni. C’è qualcosa che credo di aver capito ossia che il lavoro di un regista, ricordando ora Albert Camus, forse non è altro che un lungo camminare attraverso i territori dell’arte di fare film, per recuperare le immagini straordinarie contemplate su un grande schermo a cui si è aperto il cuore per la prima volta». Così lo stesso Erice a San Sebastian per il discorso rituale dopo aver ricevuto un premio alla sua unica carriera, intrisa di integrità e poesia, rigore ed flagranza, pulsioni limpide in una produzione così numericamente esigua e intervallata da lunghi momenti di inattività. C’è la forza della parola, nei gesti e soprattutto negli sguardi, il filmare la durata nel farsi del film, il sogno (del tempo cinema) di una vita precedente (nello spazio cinema) in una dimensione ulteriore, calda e umana, dilatata, a ricordare l’espansione infinita de El sol del membrillo. C’è la forma dell’incompiuto, la dissipazione del linguaggio, l’impossibilità del viaggio che aleggia in tutto El Sur (di cui questo potrebbe rappresentare una qualche altra possibile continuità). C’è soprattutto quel chiudere gli occhi che termina parallelamente El espíritu de la colmena e questo Cerrar los ojos, con un senso convergente e pure opposto, comunque sconvolgente. Là dove quel serrare le palpebre era una tentativo di trovare uno spirito, qui è un ri-trovare un parte del sè. Appare proprio il tempo a essere eroso, da un punto di vista formale ed emotivo, condensato nel senso inquieto della mancanza e della scomparsa (anche quella dello stesso Erice, da trent’anni lontano dalla macchina da presa), nel naufragio del cinema (e forse della stessa vita). Quello che nasce da questa densità pura è un film irregolare, meravigliosamente impossibile e non finito, in cui l’autore esprime se stesso nell’essere altro/i, osservare un’altra (sua) vita dal mirino per guardare in faccia la dimensione di quel tempo, per far affiorare l’effimero della memoria come della celluloide, la finitezza dei supporti, l’infinitezza precaria dell'immagine. Un cinema di prosa poetica e misteriosa, dal modernismo al classicismo (e alla rovescia, forse) in cui Erice fa i conti con i propri fantasmi in schizzi abbozzati di senso materico, incontrando sulla propria strada Welles come Hawks, Nick Ray come James Whale, con impliciti rimandi a Dreyer come a Rossellini, tutti autori che ritornano nella carriera del visionario basco. Tutto questo per (di)mostrare come la rivelazione sullo schermo potrebbe avere (oppure no) una possibilità di comprensione, e le immagini stesse dall’essere veicoli di scoperta del mondo come dello spirito diventano simbolo puro di attraversamento evocativo della memoria e di ciò che rimane ancora impresso nella retina quando, appunto, gli occhi si chiudono.
The story the film wants to portray to the audience revolves around two, intimately connected themes: identity and memory. [...] As I have worked on the scripts for all my films, it is only natural to assume that the themes they deal with have to do with my most intimate concerns and interests in life, those that belong to the art of poetry, where the experience of watching a movie, and I cannot insist on this enough, becomes a protagonist in its own right.” Queste note al film dello stesso Erice, raccontano un’opera di realtà e immaginazione, l’illusione di atmosfere e paesaggi, di modernità e leggende, di derive contemporanee in cui passato e futuro possono coesistere solo nell’incertezza del presente. Quella dell’essere idealmente ciechi, oggi, come se non ci fosse più una differenza teorica e qualitativa sul tenere gli occhi aperti o chiusi; il guardare questo film a tratti dà la sensazione di una possibile camminata solitaria tra notte e nebbia, una doppia forma di cecità che ridefinisce l’atto del vedere, nella pioggia che scivola sugli occhiali attraverso cui cerchiamo di guardare in un fuoricampo sfocato che ricostruisce una possibile inquadratura. Nei suoi quattro lungometraggi pare quasi verificarsi una forma di ascensione infinita (una specie di Scala Shepard emozionale) definendo un cinema fatto di isolamento e resistenza, personalissimo e sperimentale, avanguardista e classico, profondamente voluto e cercato fino alle conseguenze estreme di sofferenza creativa assoluta. Ne è prova questo finale meraviglioso quanto dolorosissimo, minimale ed eternamente espanso, assoluto, vitale fino all’inverosimile nella sua mortalità e tensione verso l’oblio. Tutto ciò che resta siamo noi spettatori, con le nostre paure, le nostre ossessioni, le nostre derive sentimentali e memoriali mai così presenti ed evocate. Cerrar los ojos è un lavoro sul miracolo del destino dell’immagine che si connette all’esperienza emotiva in sé, a tratti insostenibile. Sublime nella sua incompiutezza, popolato da personaggi che ci interessa conoscere, che prendono vita propria e che conservano sempre dentro di sé una parte di mistero. Un segreto che Erice rispetta e permette loro di custodire. Ancora Marías: “Tutto ciò che Erice ha girato è completato dal suo lavoro invisibile e interiore, da una costante riflessione sul cinema e sulla filmabilità che esercita quando vede altri film, quando parla, quando cammina, quando guarda.”
Capita così, in una notte di mezza estate, di parlare, camminare, guardare raccontando questo film a una persona assai cara, pensare a quella lacrima che per pochi attimi anticipa il chiudersi degli occhi. Così capita una notte di mezzo inverno di ricordare ciò, e sciverlo. Capita così di agganciare l’idea dell’emozione al venir meno di un’immagine, nel buio che esige la luce dell’anima.