Morte di un amico.
Non solo Pasolini, com’è evidente (eppure bisogna approfondire l’evidenza), ma anche (forse di più) Rossellini, per la costitutiva povertà delle cose mostrate (anzi, le cose che si mostrano, si svelano nella loro sorda aseità, agli occhi magnetici della macchina da presa) e della (mancanza di) messa in scena, così volumetrica, spessa di nudità, della scarnezza dei luoghi (per una tridimensionalità che incontra e registra scheletri, impalcature, intonaci minimali); e lo Scorsese ironico di fronte alla brutalità dell’esperienza (quando nell’Odore della notte Remo si esercita con la pistola di fronte allo specchio-macchina-da-presa); sono le coordinate su cui s’è mosso, claudicante (gambizzato) e periferico, il cinema di Claudio Caligari, in questo senso, cioè di una marginalità non solo del rappresentato, ma anche della forma di rappresentazione (che è poi, alla fine, fiera e candida rappresentanza), cinema trasparentemente politico, come poteva esserlo solo Francesco Giullare di Dio.
C’è appunto un francescanesimo di fondo (di sfondo, scrostato), un’esposizione di povere cose e persone, in questo cinema, che certo prende le mosse dalla spudorata frontalità pasoliniana, quella gioia dell’apparenza, della carnalità delle figure che erano di Accattone, pervase da un biancore peculiare del bianco e nero, proprio dei ponti sul Tevere, dei selciati, della polvere delle borgate, che diveniva indiamento, cattolicesimo spurio, profano; ma ancora prima erano di Morte di un amico (1959) di Franco Rossi (sceneggiato tra gli altri dallo stesso Pasolini e da Giuseppe Berto), uno degli addentellati tra il Neorealismo e quello che, sulla base di una sua problematizzazione, ne seguì, cioè quel contesto sfrangiato, arrivando ai limiti del nichilismo, che sarà poi di registi come Ferreri e Pasolini, per citarne solo due che in effetti ebbero a che fare con i primi passi di Caligari nel cinema.
Ma più che allo stilismo pasoliniano, quella bestia da stile che corrispondeva alla dilatazione e divinazione dello spazio semplice, il cinema di Caligari, con la sua forma scarnificata, sembra accostarsi maggiormente all’archetipo di Rossi e al suo immediato accoramento dentro la narrazione elementare, sostenuta da un’immediata, straripante verbalità dei personaggi (e quindi della recitazione degli attori, soprattutto Luca Marinelli e Alessandro Borghi in Non essere cattivo) che contribuisce alla mimesi essenziale: queste povere bestie straparlanti (già dai tempi di Amore tossico) per via della loro istintiva, vitale incoscienza, trovano il loro contrappunto laconico nel poliziotto-rapinatore dell’Odore della notte, zittito dalla consapevolezza (dell’ingiustizia di fondo, della fatica, delle sperequazioni) mentre conduce la sua personale, rassegnata lotta di classe. Un che di smagato che caratterizzava anche la coscienza politica di Bruno in Morte di un amico, quando spiega ad Aldo i meccanismi della condizione proletaria, per convincerlo a parassitare del lavoro di prostituzione di Lea: perciò, secondo la pragmatica (e lo schema) di Bruno, i poveri sono sottomessi ai ricchi; le donne, che non hanno di che vivere, sono costrette a “vendere l’amore” (sono le parole di Bruno), calandolo nella stringente logica economica, per poi ricomprarlo (riconquistarne il senso sentimentale, o solo illudersene) dai giovani proletari. Ma se Bruno è cinicamente rassegnato a quest’ordine di domanda/offerta dell’affetto (tanto da lasciare andare via, in paese, Franca e poi accettarne freddamente la morte), sia Aldo che Lea, in modo diverso, vogliono uscirne, venendo in questo modo travolti dalla solitudine e dalla morte. Ed è a questo punto che Non essere cattivo, per opera di trasparenza e semplicità, attua uno scarto rispetto agli archetipi di Rossi e Pasolini, e all’esito mortifero dello stesso suo Amore tossico.
Prendendo in prestito una definizione e il titolo di un libro importante di Enrico Testa, quello di Caligari appare come uno stile semplice che risolve quella frontalità (pullulante e spesso esibizionistica, in senso erotico) di stampo pasoliniano, in un’estrema, frontale (non esibita, ma francescanamente offerta) povertà e, alla fine, in un’ipostasi della sopravvivenza di questa condizione. (Sarebbe interessante leggerla anche alla luce di una delle ultime, straordinarie cose di Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, che si rivela, alla lunga, una riflessione sulla ineludibile [dis]simulazione esistenziale).
Questo stile semplice che è peculiare di Caligari più di ogni altro regista italiano degli ultimi trent’anni, si rivela squadramento, angolatura dei costituenti dell’inquadratura, enucleazione delle linee basali, acute: si serve di un apparato di oggetti nucleari, nudamente spigolosi, spogli, che di riflesso essenzializzano i modi della rappresentazione. Una povertà che in Non essere cattivo s’incarna alla sgrossatura e squadratura iconografica, alle ossature minime (che sono quelle dei cantieri in cui si ritrovano a lavorare Vittorio e Cesare: impalcatura su cui si muovono le corporature scabre dei personaggi, come i randagi di Amore tossico; un consunto, instabile Remo-Mastrandrea nell’Odore della notte, fino alle sagome, ai volti smunti di Viviana e Linda); ai parallelogrammmi, i quadranti delle automobili dei primi anni Novanta (e tanto più dei Settanta e degli Ottanta dei primi due film), le Golf e le Fiat Uno; Ciao, l’omino puntuto, ossuto, mascotte di Italia Novanta; i maglioni grossolani, gli intonaci e le insegne dei bar, delle cucine; le inscrizioni dozzinali, come quella posta sul peluche “Non essere cattivo”. Ma la ripresa di questi oggetti non è affatto feticistica (quel piacere del buon gusto dei disegni e degli stili del passato) ma strettamente funzionale alla nuda corporeità, al complesso di linee e superfici rudimentali che imprimono la linearità del racconto (anche nei tratti onirici) e la coscienza (dolente, addirittura sacrificale) di questa povertà al limite (anzi dentro il limite) dell’incuria. Ecco allora quel rigore della rappresentanza, la poetica delle piccole cose che coincide con la politica del mondo e delle vite scabre: la denuncia dell’indigenza che trascende nell’(in)coscienza del sacrificio, un donarsi, anzi uno sdarsi dei poveri cristi, che è tutto secolarizzato e circostanziale.
La circostanza dello scorcio scabro, incolto è, alla lunga – cioè in quell’intervallo di tempo o nell’immediatezza e ingenuità delle scelte dei personaggi (Cesare che ruba il peluche dal bar) che lo rendono sciatto, trasandato o dozzinale – anche quella del “cattivo gusto”, per quanto genuino: da lì sembra nascere l’interesse di Caligari per il “genere”, per il piccolo film di artigianato (di espediente), per lo più il poliziesco, nella versione di uno Scorsese impoverito, artigianale appunto (di cui L’odore della notte è esempio pieno), ma anche il melodramma popolare; tracce evidenti in alcuni stacchi improvvisi di Non essere cattivo e poi primi piani, come quello della siringa che si conficca nella mano di Cesare o sui passi minacciosi sui selciati, o nell’uso della musica, un sassofono (come d’accatto) che si perpetua dai tempi di Amore tossico e infonde i tramonti, reali, negli sfondi di Ostia, o ritratti nei poster.
Questa iconografia, che si ripete tra un film e l’altro rappresentando lo stigma e proprio il corpo di una comunità solidale (la condivisione di un gelato all’inizio di Amore Tossico e di Non essere cattivo è solo l’attante primevo, infantile, di un amore intossicante, un darsi istintivo dei personaggi), di una fratellanza (ancora francescana); riguarda la predestinazione alla dissipazione, al sacrificio, di questa umanità minima, sparente nell’orizzonte coprente del mondo; ma che nell’ultimo film sembra dare frutti, raggiungere un fine, proprio fuori dal proprio corpo, dal corpo individuale, verso l’altro da sé. È il rigenerarsi dell’agnello (giullare) di dio, Cesare che trapassa in suo figlio Cesare, dopo aver scontato il proprio martirio tutto contingente, aver vomitato l’eroina, da solo, in cucina, eppure in tutta la sua fragilità (insieme alla frontalità ultrarealistica e aggregante dei bar, dei ritrovi in macchina, della condivisione dei gelati, torna in tutto il cinema di Caligari il vomito, unica vera reazione alla violenza e all’estraneità della realtà); e dopo aver lavorato all’individuazione di un proprio spazio di affettività, di nidificazione: un rifugio stabile che invece in Amore tossico era transeunte, mobile, costituito dai confini del gruppo errante entro cui condividere di volta in volta (distribuire in parti uguali) l’amore tossico.
In questo senso, di una ricerca di semplice stabilità nell’impalcatura sconnessa della società, Non essere cattivo compie miracolosamente il percorso cinematografico di Caligari nella misura di una fiducia nella vita che nasce dal sacrificio della vita e stabilisce il posto in cui stare, anche al di là della Storia, della giustizia, e all’interno di una Natura irriducibile (alla Storia), quell’«essere certi di essere proprio là dove si deve essere» (Mallarmé), corrispondente qui alla necessità della famiglia, del riparo. Che per Cesare è la casa materna dove assiste alla morte di sua nipote e poi quella diroccata in cui fa nascere l’amore con Viviana: l’affettività, il riconoscimento dell’altro, dentro un territorio di riparo urgente, che avveniva già nel rudere, nella semplice circoscrizione di un focolare, del Francesco di Rossellini.
È qui, nelle cucine stordite dal mattino, intrise dell’odore del latte caldo, dello sguardo già stanco delle bambine; negli intonaci turchini o al fenolo scrostati dai neon, che gettano luce anche sulle scorrerie fuori, come chiuse così dagli slarghi delle spiagge, gli orizzonti dei tratturi e dei tramonti, quand’è ora per i bambini di tornare a casa; che la morte di Cesare, prima disperso nelle strade di Amore tossico poi, limitata l’erranza, cabotante tra la casa si sua madre e quella di Viviana, può essere esorcizzata nel figlio, stretto nell’affetto di sua madre e di sua nonna, in una delle case a schiera di Ostia. E la stupefazione di Vittorio a questa vista, la madre con il bambino che s’avvia per il mondo, nella luce slavata e devastata della mattina, è la meraviglia di Caligari di fronte alle immagini perdute che rivivono, e al destino di consunzione e rigenerazione continua delle cose, nonostante tutto.