"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Viaggio in Italia 1 - Conversazione con Franco Maresco

Monday, 26 October 2015 18:28

Naked

Io e Franco...

Scaldati e Maresco, Franco e Franco, sembrano una delle coppie voraci e strampalate delle fiabe di Sergio Citti, due viandanti tra le macerie dell’era atomica condannati da un infausto destino ad essere girovaghi nella propria città. Gli uomini di questa città io non li conosco è innanzitutto la storia di quest’amicizia antica, il frutto di un incontro straordinario con dentro l’amarezza e la pena per tutti gli incontri possibili mancati. C’erano già stati Il ritorno di Cagliostro o il sublime Viva Palermo e Santa Rosalia messo in scena a Bologna nel 2005 davanti a migliaia di persone a mostrare che avrebbero potuto fare tante cose, Scaldati e Maresco, ma il film sepolcrale presentato a Venezia, quella corrispondenza di amorosi sensi che è Gli uomini di questa città io non li conosco, amplifica la pena per ciò che poteva essere e non sarà ormai. Come sempre il cinema di Maresco non imbalsama i morti, semmai li resuscita, il vuoto incolmabile che lascia la morte di Scaldati diventa un’altro buco nero attraverso il quale entrare nel baratro in cui siamo tutti e da dove l’autore di Io sono Tony Scott continua a parlarci mentre sprofonda con gli occhi ben aperti. Per caso o per fato o più probabilmente perché Maresco trasforma il dolore in arte, questo evento luttuoso, passato ovviamente sotto silenzio in Italia, segna un punto di ripartenza per Franco. Da quel momento Maresco ha messo in scena Lucio al teatro Biondo di Palermo, portato a termine Belluscone. Una storia siciliana, ha realizzato il film su Scaldati e si appresta a mettere in scena un altro testo del teatrante palermitano, Tre di coppie, a febbraio ancora al Biondo. Tutto questo è stato fatto con scarsi mezzi, quasi come dono, grazie a un’orchestra ormai collaudata con Claudia Uzzo, Ciccio Guttuso e Giuliana La Franca e Salvatore Bonafede che ci mette la sua musica, alla periferia del sistema cinema italiano. Maresco, nonostante tutto, continua a fare film e teatro con lucida ferocia critica e rara onestà, a opporsi con rabbia e senso di giustizia a quella che chiama narcosi morale motivandosi con valori forti quasi estinti, con un senso dell’amicizia verso il prossimo/spettatore alla Bataille (“rendere accessibile ai vivi, ai miscredenti”). Io e Franco è il titolo che Maresco aveva scelto per un omaggio funebre fatto insieme, a Fuori Orario nel 2013, nella ricorrenza del compleanno di Scaldati, a giugno, morto pochi mesi prima. Rimetterlo in gioco per questi brandelli di conversazioni avvenute in momenti, luoghi e modi diversi, richiama la traiettoria che disegna un’amicizia virile oltre che essere una sintesi critica precisa per Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati.

 

 

1. Palermo, aprile 2014

 

Perché hai scelto Lucio tra i testi di Scaldati.

 

Perché è uno dei primi che ho avuto modo di leggere, era la prima metà degli anni ’80. Fu una folgorazione, innanzitutto perché non lo capivo, Scaldati quasi non lo conoscevo, stiamo parlando di trent’anni fa, rimasi sorpreso prima ancora che dalla potenza della lingua, quella reinvenzione del palermitano che tanto avrei amato di lì a poco, dalle suggestioni e dalle atmosfere. Improvvisamente mi apparivano i quartieri, quell’umanità a cui sono legato da quando sono nato e che già allora era in via di estinzione; ci ritrovavo odori, risentivo i suoni, quella musica, rivedevo un mondo. E questo non mi era mai capitato.

Anche se allora ero molto giovane e nutrivo la mia passione per il jazz e il cinema americano, non avevo mai smesso di amare un mondo che sentivo stava scomparendo, quello in cui ero cresciuto, e in Franco, che aveva una quindicina di anni più di me, lo ritrovavo in una forma compiuta e inedita.

In particolare la coppia Pasquale e Crocifisso - ma un po’ tutte le coppie di Scaldati da Totò e Vicè a Benedetto e Aspano… - Franco se la portava dietro dai quartieri, erano quei personaggi che avevamo conosciuto da bambini, quei puri, innocenti, una volta si sarebbe detto gli scemi del villaggio che facevano divertire, diventavano dei commedianti, delle maschere. Era un’umanità folle che però era amata e protetta dalla comunità in cui viveva, nei testi riviveva tutto quell’universo che alla metà degli anni ’80 era già stato spostato dal centro e mandato in posti come lo Zen o il Cep.

Alla fine degli anni ‘80 vidi una rappresentazione di Lucio fatta da Scaldati al Piccolo Teatro, mi colpirono le atmosfere cinematografiche, forse per questi quadri che dissolvono uno nell’altro, e per la prima volta pensai alla possibilità di metterlo in scena, se non addirittura di farne un lavoro per il cinema. Chiaramente pensavo di farlo con Scaldati e Gaspare Cucinella, il grande attore che per una vita è stato al fianco di Franco. Memorabile per chi ha avuto la fortuna di vederli recitare insieme è la sua interpretazione di Crocifisso in Lucio, mentre Scaldati faceva Pasquale, o ne Il pozzo dei pazzi in cui i due interpretavano Benedetto e Aspano

Con Ciprì filmammo qualcosa, il dialogo “sasizza-munnizza” e qualche altro pezzo, ma niente di compiuto. Anni dopo, nel 2010, quando io e Daniele Ciprì eravamo separati già da un po’, Franco tornò a chiedermi di mettere in scena questo Lucio, apportò anche minimi cambiamenti, ma entrambi eravamo fuori dal sistema, non avevamo neanche il carattere giusto per andare a chiedere produzioni. Nel 2012 avevamo fatto un’intervista insieme in cui parlavamo ancora di mettere in scena Lucio, poi Franco si è ammalato e repentinamente è venuto a mancare, a quel punto è stato Umberto Cantone a chiedermelo come omaggio post mortem a Scaldati. Ho accettato e ho scelto Lucio perché è il testo che volevamo fare insieme, ma subito ho capito che la cosa sarebbe stata molto difficile, innanzitutto perché ero rimasto solo, Franco non c’era più.

Lucio non offre appigli, è poesia pura, con didascalie scarne, indicazioni vaghe, senza continuità scenica, non c’è la trama sono visioni. Ci sono anche molte contraddizioni, molti i personaggi: Lucio e Illuminata, Ancillù e Ancillà, Pasquale e Crocifisso, a cui andrebbero aggiunti Ziù e Ziè, due topolini di pezza che Scaldati da un certo momento ometteva. Questi assumono sembianze molto diverse, Lucio e Illuminata una volta sono una farsa, poi due adolescenti virginali, in seguito si intuisce che diventano addirittura il sole e la luna, a un certo punto anche due personaggi malvagi...è stata un’esperienza davvero dura, con mille ripensamenti e false partenze.

Non nascondo che almeno per due volte ho provato a tirarmi indietro, perché senza Franco mi sentivo smarrito e mi sembrava davvero un’impresa impossibile, un atto d’incoscienza. Alla fine ha prevalso, fordianamente o come per i piloti di Hawks, l’amicizia e mi sono detto buttiamoci e cerchiamo di uscirne vivi…

E così è andata.

 

Prima ancora che Scaldati incontrasse Ciprì e Maresco tu e lui vi eravate già conosciuti. Racconta il rapporto tra Franco Scaldati e Franco Maresco, il rapporto di amicizia oltre che di “affinità elettive”.

 

Il rapporto con Franco è nato poco prima che incontrassi Ciprì, era la metà degli anni ‘80, credo ci presentò Umberto Cantone che era già un attore del Biondo. Tra di noi ci fu subito empatia perché nonostante la differenza di età avevamo tante cose in comune e anche tante affinità. Innanzitutto guardavamo entrambi con la stessa sensibilità a quella umanità che stava scomparendo, ai quartieri che erano stati svuotati… Mi affascinava molto il suo umorismo, anche nel suo teatro non tralasciava mai la comicità, genere che amava molto e da cui prendeva il senso del “tempo”; ho sempre detto che Franco era un attore anche comico.

Altro aspetto fondamentale è che Scaldati era un autodidatta, i libri li aveva letti facendo il sarto, se li era andati a cercare da solo; era uno che leggeva di tutto, era onnivoro. Per me fu importante incontrare un uomo che si approcciava alla letteratura, al cinema, all’arte, con lo stesso spirito famelico, caotico e anarchico, che avevo anch’io. Scoprimmo che frequentavamo gli stessi cinema di quartiere: Dante, Italia, Eden, Noce; avevamo la stessa passione per certa musica popolare… letteralmente avevamo un retroterra in comune, che io avevo ritrovato già nel suo teatro. Iniziammo a frequentarci, soprattutto di notte, quando lo accompagnavo dal teatro a casa con la 2cavalli della mia ex moglie, ho un ricordo straordinario di queste lunghissime conversazioni notturne, è stata un’esperienza umana oltre che di trasmissione di cose che lui aveva visto prima di me. Iniziai a seguirlo poco a poco nel suo lavoro, in quel periodo portava in scena Assassina, un altro suo testo molto potente e magico, e produssi Angeli per la Zattera di Babele, tirando fuori tre milioni di lire dai risparmi della videoteca che avevo a quel tempo. In sintesi potremmo dire che fu un amore a prima vista.

 

Come cambia il vostro rapporto dopo che incontri Daniele e diventate Ciprì e Maresco?

 

Intanto bisogna dire dell’esperienza del Piccolo Teatro, anch’essa con una fine disastrosa, che lascerà a Franco pesanti debiti. Il Piccolo Teatro di Palermo nasce alla fine degli anni ‘80 come cooperativa da un teatro fondato da Nino Drago, personaggio eccentrico, pazzo ma con una sua anarchia. Franco si insedia al Piccolo un paio di anni dopo il mio incontro con Daniele, a quel tempo lavoravamo a TVM, loro mettevano le apparecchiature e io e Daniele facevamo un po’ di cose per noi e un po’ per questa tv palermitana, seguivamo anche l’attività del Piccolo e di Franco, ad esempio ricordo facemmo delle riprese a Erice per la Zattera di Babele. Quando esplode Cinico TV Franco fu uno dei pochi a capire di cosa si trattasse realmente, a conferma della sua sensibilità e la sua attenzione, e che il suo amico più giovane, io, portavo avanti a modo mio la sua poetica, la sua visione. Capì anche che avremmo potuto essere compagni di strada e non solo “suoi eredi” come ci definì anni dopo, infatti con Daniele filmammo una scena con lui e Gaspare Cucinella nei panni di Pasquale e Crocifisso ma non riuscimmo a concretizzare nulla a livello produttivo anche perché Scaldati era sempre impegnato con il Piccolo, che pochi anni dopo fallì, e noi eravamo presi tra Cinico TV e le mille solite disavventure. Ci sentivamo, ci confrontavamo, ma le nostre vite andavano avanti parallele, non si incontravano.

Arriviamo così alla fine degli anni ’90; Franco era tornato a collaborare col Biondo, segnato, economicamente soprattutto, dall’esperienza del Piccolo che aveva lasciato già a metà anni ’90, e aveva intanto iniziato il progetto Femmine dell’Ombra mentre io e Ciprì eravamo reduci da Totò che visse due volte. Filmammo un’ora con lui e da quel momento abbiamo fatto diverse cose insieme, a partire da Il ritorno di Cagliostro ma anche molti video, cose per la tv, frammenti di suoi testi, anche di Lucio, lo spettacolo Viva Palermo e Santa Rosalia con lui e Mimmo Cuticchio messo in scena in piazza a Bologna nel 2005.

 

Qual è la relazione tra il “mondo cinico” e l’opera di Scaldati?

 

Sicuramente Franco vedeva in noi dei continuatori della sua opera. Eravamo più estremi, accentuavamo certe componenti mentre altre, come la parte femminile, lunare, o quel lirismo in Scaldati molto evidente, erano introiettate o raggelate, apparentemente rimosse. Allo stesso tempo fu lo stesso Franco a sottolineare una grande differenza in un frammento filmato che ti ho dato per la messa in onda di Fuori Orario, Io e Franco, quando dice “Abbiamo in comune una visione pessimistica della vita ma la differenza tra me e loro [Ciprì e Maresco] è che in me c’è questa componente religiosa”. Questa è una cosa molto importante perché Franco non era un osservante, un fedele, aveva piuttosto una spiritualità infinita, fortissima. La sua era una religiosità pagana, una sorta di visione panteista, ogni elemento naturale assume un aspetto spirituale, questo in Lucio è molto evidente, ma in molte sue opere ci sono Santa Rosalia e il Sole, la Luna, gli Angeli… Nelle cose mie e di Daniele erano più accentuate la cupezza e il grottesco, quest’ultimo presente nelle opere di Franco ma in modo meno esacerbato; così l’eros, la sensualità e la sessualità che si fanno erotismo mistico nei versi di Scaldati diventano in noi pornografia, qualcosa che nega la vita e la possibilità di comunicazione; la sessualità in Ciprì e Maresco è agghiacciante solitudine.

Va detto che le opere di Franco hanno assunto negli anni toni più cupi e violenti, un testo come La gatta di pezza in cui si adombra la presenza di un incesto, figlio del progetto con attori non professionisti realizzato nel centro sociale del quartiere Albergheria, è esemplare nel mostrare come il teatro di Scaldati si inasprisce e si fa più grottesco anche perché lui era stato lasciato solo dalle istituzioni e dagli apparati.

In quegli stessi anni giriamo Il ritorno di Cagliostro. Quella è stata una parentesi davvero divertente e felice, ricordo quelle settimane allo Zucco con lui e Luigi Burruano nei panni dei fratelli La Marca come momento di puro divertimento. Loro due si trovavano a meraviglia e Franco tirava fuori tutta la sua cultura fatta di teatro di strada, avanspettacolo, il comico; era un attore puro che solo un paese di decerebrati come l’Italia può aver ignorato. Anche nel cinema Scaldati ha fatto poche cose, la maggior parte delle quali sono apparizioni folkloristiche, e in alcuni casi arriverei a parlare di scaldaticidio, come per Il cavaliere Sole di Scimeca. È una visione personale ma posso dire che Franco era incazzato nero quando vide il film; non si può fare uno scempio simile di un’operetta così graziosa.

Sicuramente Scaldati è stato ignorato dal cinema e dagli apparati culturali perché era bravo ma non a muoversi negli “ambienti giusti”, non frequentava salotti, era un uomo introverso e timido che non voleva e non sapeva vendersi. Come ho scritto in occasione della morte lui era un uomo antico, nel senso che veniva da un mondo con altri valori e ha iniziato a muovere i primi passi come autore in un momento unico per Palermo. Siamo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, la città è stata attraversata da un’energia rivoluzionaria che produsse eventi come Palermo Pop 70, occupazioni, movimenti, durò lo spazio di un mattino ma fu una scossa molto forte. Dall’altra parte quelli erano anche gli anni della Palermo saldamente in mano alla DC, alla triade Gioia, Lima, Ciancimino; sono gli anni del “sacco di Palermo” e degli scempi, dell’apoteosi della mafiosità politica, della strage di Viale Lazio e del passaggio dalla mafia rurale alla mafia moderna.

È in questa Palermo dai contrasti molto forti ma viva, neanche parente dell’odierna città di zombie, che esordisce Franco Scaldati. Ed è una bomba, perché il suo palermitano non è folklore ma una lingua viva, estremamente dolce e violenta, che lui reinventa e rianima ricavandone potenza e risorse come mai nessuno prima. Nel suo teatro per la prima volta vengono rappresentati gli abitanti dei quartieri, gli ultimi della terra, il ventre di Palermo a cui lui dava anima e corpo.

Di fronte a questa novità la sinistra palermitana, che passato il vento di cambiamento tornerà subito ad essere salottiera e gestita da famiglie borghesi, pensò in un primo momento che il teatro di Scaldati potesse essere funzionale ai propri discorsi. Ben presto però fu chiaro che Franco non poteva essere ingabbiato in percorsi ideologici o in apparati, era dalla parte degli ultimi ma non era un materialista, non amava i potenti ma aveva valori antichi… Franco non era sicuramente un comunista, piuttosto un anarchico, era uno spirito libero, parlava dell’uomo non del lavoratore. Per il PCI Palermitano era un UFO, non potevano ignorarlo ma non sapevano cosa farsene delle sue opere. Semplicemente non lo capivano, infatti alla prima di Lucio più di metà della sala uscì durante lo spettacolo.

 

Anche questa è una similitudine con Ciprì e Maresco, a quella sinistra che all’inizio giubilava per voi siete presto risultati indigesti.

 

Esattamente la stessa cosa, io non ho mai accettato che le nostre cose fossero inserite nel discorso di una sinistra ormai orfana anche del Partito Comunista. Franco stesso era consapevole di questa impossibilità ad essere utile a qualsiasi discorso politico; negli anni ‘70 il PCI siciliano scelse come nume tutelare Michele Perriera, intellettuale forte, organico al partito, cresciuto all’ombra del Gruppo ‘63. Scaldati invece era un poeta, un grande poeta, con le sue debolezze, i suoi fantasmi, i suoi dolori e le sue contraddizioni.

 

Continuando su questa scia di affinità/divergenze, dopo aver visto Lucio mi viene da dire che nei tuoi lavori c’è sempre stata una distanza maggiore, visibile a occhio nudo, da quell’umanità che abita il mondo cinico. Forse contano anche i quindici anni che vi separano, ma accostando i versi di Scaldati e le immagini di Ciprì e Maresco si sente subito che in mezzo è accaduto qualcosa. Cinico TV è una cosa da un altro mondo ma è anche una cosa “postuma”, è un baratro in cui ci sono solo relitti e macerie, anche quell’altrove che in fondo c’è, non trova mai modo di manifestarsi.

 

Sia in Franco che in noi c’è quella che io chiamo “nostalgia dell’assoluto”, prendendo in prestito il titolo di un libro di George Stainer. Per me il concetto di assoluto non è racchiudibile nel senso religioso. In Franco però rimane la speranza, si intravede fino alla fine, forse è dovuto alla sua tormentata religiosità. Mi ha messo sempre molta allegria il suo rapporto con Santa Rosalia, che metteva insieme rituali ancestrali e invenzioni di pura fantasia, oppure la sua venerazione per gli angeli. Scaldati era un angelologo, conosceva le gerarchie, le caratteristiche peculiari, i nomi degli angeli.

 

In Ciprì e Maresco abbiamo degli angeli, forse un po’ maltrattati…

 

Si, come in Grazie Lia quando Giordano è un angelo alle spalle di Opè che dice “quello è il mio angelo custode. È un pezzo di merda”

 

Tornando alla tua messa in scena di Lucio, più che parlare della “cinematograficità” dei versi di Scaldati credo sia importante sottolinearne il rapporto con la luce. Venendo meno una drammaturgia tradizionale è proprio la luce a segnare l’andamento del testo e mi sembra sia un aspetto su cui hai lavorato molto anche tu nella realizzazione dello spettacolo.

 

Lucio non è stato rappresentato molte volte; negli ultimi venti anni Franco lo leggeva, una lettura solitaria e straordinaria in cui lui dava voce a tutti i personaggi. Comunque avevo la sensazione che le poche messe in scene del testo non avessero rivelato l’amore di Franco per la luna, la notte e le creature che la popolano, come i topi ad esempio, che sono protagonisti di molti suoi brani eccezionali. L’universo scaldatiano è segnato dal contrasto tra luce e ombra, le sue creature hanno un anelito verso la luce, che ha una forza mistica e religiosa. È quell’altrove di cui parlavi tu prima, verso il quale tendono questi esseri che popolano le viscere della terra. Per la locandina ho scelto un fotogramma di K. in cui un raggio di sole trapassa le spesse nuvole nere addensate sul cielo, spero di essere riuscito anche così a sottolineare questo aspetto fondamentale di tutta l’opera di Franco: la luce.

 

A partire dalla luce credi che nella tua regia di Lucio ci sia soltanto l’impegno a far uscire lo sguardo e le visioni di Scaldati oppure ci hai messo dentro una parte della tua visione di Palermo, della gente dei quartieri, del mondo?

 

Questo si inserisce nel discorso sulle analogie che abbiamo fatto finora. L’altro giorno mi sono ritrovato a guardare un pezzo di un lavoro mio e di Daniele che si chiama Tre visioni, una di queste visioni è il Monte Pellegrino schiacciato da nubi nere che fanno scomparire il mare e sotto c’è un frammento di Ornette Coleman.

Quell’immagine fu girata in un periodo molto cupo per Ciprì e Maresco, a livello personale e lavorativo; quello che manca, di cui si avverte il desiderio guardando il frammento, è proprio la luce. Anche noi, come i personaggi di Scaldati, aneliamo alla luce, questa tensione verso la luce/altrove appartiene anche a me e ai personaggi di Ciprì e Maresco. Franco parla sempre dell’essere umano nella sua totalità, l’ombra, la notte, contengono tutto il male dell’uomo e del mondo, la paura, la tristezza e così via, quindi ogni essere umano potrebbe perdersi e ritrovarsi nei suoi versi.

Nel mondo filmato da me e Daniele c’è Palermo, c’è un’umanità violenta e brutale, apparentemente irredimibile, i cieli plumbei, tutto è trasfigurato, però è sempre un mondo che vorrebbe smaterializzarsi, non essere più o essere da un’altra parte. Questa tensione al trapasso, a liberarsi dalla pesantezza della materia, attraversa tutto il teatro di Franco e Lucio è esemplare in questo senso. Se la si guarda nel complesso la produzione teatrale di Scaldati si svela come un lungo percorso di smaterializzazione, quell’umanità che trova per la prima volta un palcoscenico col suo teatro si fa man mano più eterea, perde carnalità e si fa ombra. Questo è il desiderio che hanno anche i personaggi miei e di Daniele.

 

Lucio è un testo che spazia dal fondo del mare alla luna, passando per la città fino agli astri, la tua cinefilia ha avuto un ruolo nella messa in scena?

 

Per questo mi sono affidato a Franco, è banale dirlo ma la poesia ti porta ovunque. L’intento principale, mio, di Claudia, degli scenografi, di Bonafede era quello di dare corpo alla fantasia. Per Scaldati il teatro era innanzitutto questo e Lucio è anche una metafora del teatro. Questo essere che tramuta, che vaga, che trova forme di vita passando da materia a spirito, dall’idillio alla farsa non è altro che un commediante; il testo è una splendida metafora di quello che per Franco era il teatro.

 

Il tuo Lucio è anche il teatro di Scaldati dopo Scaldati.

 

Questa è la cosa più importante che volevamo testare, la possibilità di mettere in scena le opere di Franco senza di lui e i suoi interpreti storici. Alla fine mi sento di dire che non si sente la mancanza di Franco, di Gaspare Cucinella, e questo è il risultato più importante. La mia fortuna è stata di trovare ancora corpi, lingua, suoni che conservano parti di un’umanità che sta sparendo e una enorme disponibilità a rischiare da parte dei compagni di questa avventura.

Melino Imparato, che è un attore storico della compagnia di Scaldati e ha recitato per la prima volta la parte che era di Franco, si è dovuto liberare dal quell’interpretazione, assumere una carica violenta che i suoi personaggi abituali non avevano. Gino Carista invece, che non aveva mai recitato Scaldati si è subito ritrovato nella parte di Cucinella, io all’inizio volevo fargli ascoltare qualche brano ma non ce n’è stato bisogno.

Cuticchio invece è un altro mondo che entra nell’universo scaldatiano e questo ha spiazzato non poco alcuni spettaori. L’ho voluto perché Mimmo rappresenta il teatro di strada, l’opera dei pupi, la sua arte fa parte del mondo in cui nascevano le opere di Scaldati. È come Chella là suonata dalla fisarmonica del Maestro Ciprì, messa all’inizio dello spettacolo: quel suono sgraziato, stonato ma unico proviene direttamente dalle strade degli anni ’50, oggi è impossibile ritrovarlo. La presenza di Cuticchio, che irrompe con la sua forza nel teatro di Scaldati, segna le parti più liriche di Lucio, ne fa un cunto, una leggenda. Bisogna notare che non esplode nell’epica, eppure Cuticchio avrebbe la maestria per farlo quando vuole, qui è il puparo arriva a smembrare il pupo. Questo perché oggi non è possibile fare poesia, mancano i corpi, i suoni, i sogni, manca la materia. Se non si ci scontra con questo allora che si fa? Si continua a combattere pur sapendo che la battaglia è persa, per mangiare e perché è preferibile morire con le armi in pugno, ma non c’è più nulla, questo è il dato di fatto.

 

 

2. Ottobre 2015, al telefono…

 

Raccontare la vita e il teatro di Franco Scaldati è stata l’occasione per raccontare ancora una volta la storia degli ultimi cinquant’anni di Palermo, che diventa uno specchio più che una metafora dell’Italia tutta. Questo c’era già in Tony Scott e poi in Belluscone, sei diventato una sorta di “cuntista” o come un jazzista suoni variazioni di uno stesso tema…

 

Questo è vero, ma con Scaldati parlare di Palermo era inevitabile e anche ovvio. La vita di Franco è inscindibile dalla storia della città, che qui rispetto a Belluscone è forse più didascalica, come qualcuno mi ha rimproverato.

 

Più che didascalico direi didattico. Non capisco perché, a cinquant’anni esatti dalle riflessioni di Rossellini, dovremmo aver paura di vedere un film in cui impariamo, anche, qualcosa su Scaldati, figura a dir poco misconosciuta.

 

Fotogramma MarescoMe lo sto chiedendo anch’io in questi giorni rivedendo il film in piccoli festival e rassegne insieme al pubblico, che non mi sembra esca appesantito dalla visione. La questione è che in Belluscone la lettura di Palermo di Ciccio Mira diventa un contrappunto alla parte più “didattica” mentre in Tony Scott, peraltro artista ben più conosciuto nel campo musicale di quanto lo sia Scaldati in quello teatrale, a una prima parte in cui si presenta il personaggio segue una seconda più ironica e malinconica. Gli uomini di questa città io non li conosco aveva le stesse esigenze di far conoscere al pubblico un artista marginale, ma io volevo evitare assolutamente che fuoriuscissi io, che diventassi un altro di quelli che hanno usato Scaldati per parlare di sé.

Ho voluto raccontare la vita e l’opera di quest’uomo, sapendo che Franco avrebbe portato nel film le emozioni. E questo credo sia avvenuto, mi sembra che la poesia di Scaldati arrivi agli spettatori, non solo agli addetti ai lavori anche al pubblico meno addentro.

La mia vuole essere una testimonianza, proporre esempi di un’idea di uomo e di artista di cui oggi c’è bisogno perché sono esseri estinti o al massimo in via d’estinzione e questo c’è già in Tony Scott e poi, in altro modo anche in Belluscone. A me non interessa fare un’invenzione originale, una sperimentazione, ammesso che oggi sia possibile, per me sarebbe non solo senza senso, ma sicuramente sarebbe inutile e dannoso narcisismo.

Mi ha fatto davvero piacere la chiamata di un ragazzo molto giovane che ha collaborato al film e dopo la proiezione di Venezia mi ha telefonato per dirmi che lui e i suoi amici erano commossi e avevano voglia di leggere le opere di Scaldati. Questo mi interessa, non i problemi che pare il film abbia creato a qualche vittima di ideologismi ormai rancidi.

Penso a Roberto Silvestri, ex critico del Manifesto e persona che conosco da una vita, che ha scritto un paio di cose che mi hanno fatto incazzare e credo sia bene precisare. La prima riguarda il rapporto di Scaldati con Palermo, quell’indifferenza che secondo Silvestri toccava poco Franco perché lui viveva come in un mondo “separato”, quasi una sorta di monaco buddista. L’altra riguarda il mancato riconoscimento di Scaldati da parte delle istituzioni, e qui mi si scrive addirittura “ma Franco (Maresco), vivaddio!”. Questo non posso accettarlo, va bene scrivere che in alcune parti il film sembra “un inserto di Repubblica”, ironica cattiveria, ma non buttare addosso a Scaldati visioni e convinzioni che non gli appartenevano. Il dolore e la rabbia di Franco, soprattutto negli ultimi anni, di essere costretto da sempre alla marginalità non sono cose che dice Maresco ma Melino Imparato, che ha lavorato con Scaldati una vita ed è colui a cui Scaldati ha affidato tutta la sua eredità teatrale, dai testi mai pubblicati al metodo, lo dice padre Cosimo Scordato, che lo aveva accolto nel suo centro sociale offrendogli uno spazio.

 

Entrambe le cose le lamenta Scaldati stesso nel film, anche in modo chiaro. Ancora una volta si ripete il difficile rapporto tra Scaldati e la sinistra, a me sembra che Scaldati non abbia mai voluto essere un artista contro…

 

Questo lo dice Franco e lo dicono le persone che lo hanno conosciuto e frequentato. Mi sembra ci sia sempre una distanza abissale tra chi teorizza e chi si ritrova a combattere con la miseria quotidiana per realizzare le proprie cose. Chi sarebbe contento di non avere mai a disposizione i mezzi per poter realizzare i propri progetti? Perché Scaldati sarebbe stato felice di non avere i soldi per pagare gli attori, uno spazio per le scenografie e così via?

Riguardo al rapporto con la sinistra ne parla nel film Letizia Battaglia, celebre fotografa, e dice che nei turbolenti anni ’70 nonostante Scaldati fosse, giustamente, considerato un patrimonio della sinistra era comunque un mondo a se stante, distante da tutta una serie di discorsi e stili di vita. Del tentativo di portare Scaldati all’interno di una visione teorica ne parlava lo stesso Franco, ricordando che aveva accolto Il pozzo dei pazzi come interpretazione politica della realtà sociale mentre a lui di questo interessava ben poco. Anche negli anni successivi sono continuate le incomprensioni, ai tempi di La gatta di pezza fu accusato da alcuni dell’allora Rifondazione comunista di non prendere una netta posizione morale all’interno della storia riguardo alla vicenda dell’incesto; Franco reagì con tristezza perché continuava a non essere compreso. È ovviamente doloroso e raccapricciante un padre che sevizia una figlia, ma a Franco non interessava porsi nella posizione del giudice, del moralizzatore, piuttosto come Dostoevskij indagava il lato oscuro dell’animo umano.

 

Cambiando argomento, come è entrato Scaldati in Belluscone, che hai terminato subito dopo la regia teatrale di Lucio, e come è cambiato il tuo rapporto con la sua figura dopo aver fatto Gli uomini di questa città io non li conosco? Inoltre ti appresti a mettere in scena a febbraio, ancora al Biondo, Tre di coppie, sempre tratto da Scaldati.

 

Fare questo film su Franco mi ha permesso di conoscere materiali, sentire testimonianze e apprendere cose che non conoscevo. È stata davvero una scoperta continua e una sorpresa continua, grazie a Melino ho potuto leggere cose inedite e rileggerne altre che magari avevo incrociato di sfuggita. Di Scaldati mi impressiona la sua vorace curiosità, la sua intelligenza, le sue passioni. Allo stesso tempo è stato molto doloroso, e lo è tuttora, perché mi ha fatto toccare con mano una solitudine che la morte ha amplificato. Franco era da anni l’unico artista con cui io mi confrontavo, chiacchieravo, sentivo vicino; già prima, nei lavori con Ciprì ho sempre sentito l’opera di Franco presente. Se sei contemporaneo a un poeta come Scaldati, lo frequenti, parli della stessa città, della stessa gente e dello stesso periodo non puoi prescinderne. Sono consapevole che l’influenza di Franco Scaldati sul mio lavoro è ancora più profonda di quanto possa sembrare.

 

Molto del materiale non girato da te è di bassa qualità, sono riprese amatoriali a conferma che Scaldati non ha interessato molto i grossi media, ma per me danno al film quell’aspetto molto materico proprio dei testi e del teatro di Scaldati. Allo stesso tempo sotto questo sporco mi sembra che il tuo cinema mantenga ancora una trasparenza rara, è impietoso non lascia scampo a chi è ripreso, ognuno appare per l’essere che è.

 

Tanti materiali sono stati girati in vhs e altri formati “poveri” degli anni ’90, è stato fortunoso e difficile recuperarli e soprattutto lavorarli, per quanto possibile, e inserirli nel film. È vero che il film è sporco e che testimonia la clandestinità di Scaldati ma è grazie a Franco che fin dalla prima immagine mi sembra arrivi diretto allo spettatore senza far sentire la scarsa qualità dei materiali di partenza.

 

Sull’altra questione invece credo che nella seconda parte del film, attraverso le testimonianze di chi a Franco è stato accanto emerga tutto un lato umano che mostra che uomo era Scaldati. Emerge anche la sua scarsa capacità a proporsi, la sua scontrosità che si univa alla timidezza. Franco non amava frequentare artisti, teatranti, intellettuali, ambienti mondani e accademici; nel film si vede quali sono le persone che lui frequentava e aveva vicino e quali lo hanno conosciuto soltanto attraverso la lettura delle sue opere, parzialmente e in modo indiretto. Per Scaldati una metafora della vita era il ciclismo, amava i portatori d’acqua, i gregari, i perdenti, gli umili; il suo essere sempre stato umile credo sia una caratteristica ormai estinta nei nostri tempi. Come dice la citazione finale Franco è stato il poeta degli sconfitti e questo è un mondo in cui non c’è posto né per i poeti né per gli sconfitti.

 

 

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