Crittografie del labirinto
1 . Labirinti
“Il film stesso non è altro che un residuo, di cui spero rimanga qualcosa (...) non c’è più nient’altro che il film stesso che parla e che dice qualcosa che non si può tradurre (...) Un film è in genere una storia costruita su una idea; io ho cercato, aiutandomi con un intrigo di forma poliziesca di raccontare la storia di una idea; il che vuol dire che invece di svelare alla fine l’intenzione prima, la conclusione non può qui che abolirla. Nessuna idea può pretendere di spiegare il mondo, esaurire da sola l’estensione del reale che, perchè reale, la eluderà sempre per mezzo delle sue contraddizioni. E certo si può credere a 20 anni o a 30, che si va a scoprire il senso del mondo, e che Parigi vi appartiene; e Péguy può in effetti dirlo, ma è perché sa, nello stesso momento, che Parigi non appartiene a nessuno (...) è il labirinto che formano le scenografie fra loro, l’idea che rimane del film come una serie di luoghi in rapporto l’uno con l’altro, alcuni tagliati fuori, altri che comunicano tra loro, altri che sono come itinerari facoltativi, e le persone che si aggirano come topi all’interno di questi labirinti” (Jacques Rivette)
Percorrere un labirinto presuppone attitudine, rischio, ricerca, gioco. Ciascuna di queste vie si biforca proiettando una perdita e un ritrovamento. Lungo i punti di svolta e di vista di una avventura del pensiero che si trascrive come intrigo e complotto, suscita apparizioni che mentre allenano lo sguardo a riconoscere, approntano anche un misconoscimento e una dissimulazione. Se il ‘gioco a nascondere’ impiega una mossa studiata in solitario congettura anche un Altro che, come dio nascosto, riprende le mosse occulte, implicando il giocatore che fugge e insegue, si occulta e si rivela distendendo un tempo a falde, predisponendo una durata di percorso, pianosequenziale, veggente, che si dispone nelle caselle di una mappa. In tal senso il cinema di Rivette e di Ruiz, si manifesta come una crittografia schermica, una cartografia di riproiezioni.
Ha scritto Serge Daney (Trafic n.1, Hiver 1991) nel suo Journal de l’an passé a proposito della durata in Rivette (Le veilleur), che la longueur “non è che l’indice - paragonabile alla celebre carta geografica di Borges - di un altro spazio-tempo rigorosamente parallelo al nostro, talvolta visibile, talvolta invisibile, e di diritto infinito. È il fantasma realizzato dal cinema permanente”. In un film come La belle noiseuse, “Il capolavoro sconosciuto” balzacchiano, Rivette inscrive le cifre nascoste nella tapisserie del Quadro Assoluto e trascendentale lungo una ri-presa dove la mano e lo stilo di Frenhofer scompone e ricompone il corpo inaudito e invisibile, il nudo impossibile della donna, riversandole a più riprese sul set di carta del disegno. L’idea di un ‘corpo a luogo’, vampiricamente insufflato e trasposto unisce in tal senso le variazioni balzacchiane, di Rivette e Ruiz, che vengono risospinte nelle “questioni di punti di vista” di derivazione jamesiana (come jamesiana è la dimora di Céline et Julie von en bateau e quella di La maison Nucingen, e spettralmente jamesiana la tecnica di cifratura nel tappeto filmico). Come spesso accade nel cinema rivettiano è il corpo femminile dislocato come apparizione lungo le caselle, le quadrature, i tableau, i plateau a ingenerare il viaggio labirintico, così come anche nel cinema ruiziano è il corpo alchemico e mutante del bambino e di una donna spesso maga e veggente (come in Ce jour-là), a creare sentieri borgesianamente biforcantisi.
Ciò viene perseguito e ripetuto da Rivette: la posa di un nudo impossibile e il suo prelievo vampirico attraverso lo stilo tagliente che, come per Il ritratto ovale di Poe, succhia vita e insieme restituisce vivente una immagine, salvo a dissimularla come una cifra nascosta, murata, imbricata, cifra nel tappeto jamesiana, su un altro lato, incompossibile da vedere, irriducibile, crittografia rimandata, nel senso proprio di un riinvio, di un rimando, di un rimbalzo dello sguardo. È il processo della ri-proiezione, cioè il depositarsi di una vita, vita delle immagini, sull’altro lato. Si tratta di una rifrazione alchemica, proiectio, in cui le varie avventure della materia, lo svariare dei colori nella ‘polvere di proiezione’ de-compongono e de-pongono gli intrighi alambiquées, l’alchimia delle immagini. Per Rivette “la vera invenzione del cinema secondo i Lumière non è quella della proiezione in sé, ma quella di una proiezione, immediatamente ripetibile”.
La memoria di un film al crocevia dell’essere è un luogo oscuro, un punctum caecum, attraverso cui tutto passa nel suo andare e venire. La forma di credenza nel mondo parallelo del cinema richiede forme di accecamento volontario, con il proposito di rendere più labili i confini imposti da una ontologia della visione. Scrive Metz che: “Per funzionare il film non reclama solamente un ‘clivaggio’, ma una serie completa di stati di credenza, imbricati e concatenati in una macchineria notevole” (Le signifiant imaginaire , Bourgois, 1984, p. 98). Quando andiamo al cinema attiviamo la necessità di proiettare una istanza di credenza, la rimozione della “verità” dell’ illusione.
Ricordiamo l’analogia godardiana tra il meccanismo di credenza (nella immagine cruciata) del cristianesimo e il cinema, l’obiettivo-croce di malta, il gioco crittografico nelle Histoire(s) su Jude X, la credenza nella resurrezione delle immagini, e l’esempio di Ordet. Si tratta per Rivette, come per Oliveira, come per Ruiz e per Bressane, di rendere visibile l’invisibile. Enucleare una cifra segreta dal dipanarsi di un disegno che si ripete, si riflette, si differenzia. Si tratta di instaurare una potenza tale nel pensare le immagini in modo che lo schermo, la sua topografia (che inerisce al luogo, che sia una ‘casa’, il palcoscenico di un teatro, il dedalo di strade di una città) diventi un luogo di apparizioni. E il cinema, lo stilo del cinema, non può dar atto che a una incarnazione. Immagine incarnata che è il suo apparire spettrale. Ed è allora ciò che, per dirla con Deleuze, "può un corpo".
Ma questa “potenza del pensiero” (processo inverso dell’incarnazione: dal corpo verso lo spirito, e non dallo spirito verso il corpo) viene fin dall’inizio messo in atto, e in un certo modo, messo in azione e in movimento, fin dal manifestarsi del cinema. In Meliès è sparizione seguita da una riapparizione, come nei Lumière l’uscita dalla fabbrica degli operai o l’arrivo-uscita dallo schermo del treno alla Ciotat.
Eppure bisogna praticare uno squarcio, inoltrarsi verso il centro del labirinto, come se questo possa solo essere percorso per rotture, per biforcazioni che sono altrettante incrinature, se si vuol rendere vivente e attuale l’energia di qualcosa che è memoriale, come avviene nell’episodio di Erice in Centro Histórico, Vidros Partidos: la foto degli operai, le finestre rotte, il vetro rotto, lo schermo squarciato, cinema vivente.
Un corpo dunque si leva. Come Cristo e come il vampiro, da un luogo di buio, entro cui si riforma l’immagine del “risorto” (come sapeva Carmelo Bene). Scrive Nancy: “ma questa sparizione seguita da una riapparizione di un corpo non costituisce anche, stranamente, l’ancrage stesso del cristianesimo? Lo star di fronte alla tomba vuota di Cristo, nei Vangeli, costituisce la fondazione di fede nella resurrezione.” Ora il "Mysterium", come Ministerium, è appunto l’iconostasi in atto di una incarnazione. Ci sarebbe allora (come sa Paul Schrader) una passione della carne e della immagine che, in un cristianesimo decostruito fin nelle sue origini, è la ripresa diretta del cerimoniale di apparizione dei misteri eleusini (Agamben nei suoi lavori recenti ha ripercorso questa connessione). Ricordiamo il nero del sepolcro in Mary di Abel Ferrara e l’istanza del nero, del buio come presupposto dell’irruzione di visione in Godard o in Debord.
In un sogno fatto da Freud campeggia una scritta: “Si prega di chiudere gli occhi”.
Il ‘punto cieco’ o, per dirla con Derrida, la “memoria di cieco” ha a che fare (e qui il dialogo tra Derrida e Nancy è cruciale) con il toccare, con una qualità aptica del cinema (si può in tal senso rileggere anche la veggenza appellata da Deleuze a proposito dell’epifania di un altro tempo, dell’irrompere delle falde di tempo negli spazi qualsiasi del mondo restituito alla credenza, direi trasfigurato e redento proprio nella sua materia, nella materialità del suo essere corpo restituito allo spettro, allo stato nascente della visione, come suo gradiente spettrale, a proposito del neorealismo).
Nancy ha scritto un libro sul “Noli me tangere”: La Maddalena vede un corpo che non riconosce e che le è interdetto di toccare, una apparizione-proiezione, il cui riconoscimento interdetto avviene solo rispetto al levarsi dell’immagine dal nero del sepolcro e dal suo dissimularsi in altro.
Film come La Borgne di Ruiz, e in generale il ritorno nei suoi film della figura di un cieco cone colui che accede a una visione ulteriore, fanno eco in Rivette a una forclusione dell’atto del vedere e del rivedere, del cercare fino a mettere a rischio la visione, del gettare nel buio gli occhi, insistendo nell’accedere oltre una porta o oltre un muro, dietro un angolo di strada, nelle stanze di una casa, nelle celle di un convento o di una prigione, lungo i muri ottusi e la ruvidezza di una carta da disegno, dietro le quinte di un teatro, nelle fessure che una chiave potrebbe dischiudere.
E in questo addentrarsi nelle crittografie del labirinto Rivette, come un pittore che fissa un punto e lo fa ruotare sulla tela, ha bisogno (come Bresson) di ‘modelli’, in particolare di un corpo femminile medianico, che sia esso stesso nudità inattingibile, cifra di quel mistero che vogliamo possedere mentre già ci appartiene.
Paris nous appartient, è anche il viaggio in trasformazione del corpo in movimento continuo di una donna (figura ‘ninfica’, pathosformel, immagine in fuga), Anne, attraverso i sentieri mentali dell’incontrare e abbandonare, poi ri-incontrare e lasciare di nuovo e in questo si avvolge la struttura stessa del film e l’immaginario implicato, un confronto visivo, sonoro, fisico, fantasmagorico con l’intero film, alla maniera di un gioco di incastro ove questi elementi sono insieme un solo fatto e una sola esperienza. Anna è letteralmente il segno-carrello-soggettiva che avanza, fugge e va incontro alla Parigi deserta come per affermare che le strade così trasformate ai nostri occhi sono il simbolo del nostro viaggio, l’itinerario di uno spettatore implicato, di uno sguardo a ritroso del film stesso; è appunto, come dice Rivette stesso, l’avventura di una idea.
In tale apertura che ne è del concetto di regia come mise en scène ossia secondo la definizione rivettiano-rohmeriana “l’arte di mettere in relazione dei corpi nello spazio”? Se da un lato c’è una sorta di “revisione” del concetto verso una sua dislocazione rispetto alla sua accezione di disegno contingente dei materiali attraverso il gioco del set (che aveva il cinema americano da un lato e Renoir dall’altro come riferimenti ), per cui lo spazio implicato e artefatto viene costruito sotto i nostri occhi dalle traiettorie dei personaggi, dall’altro, secondo quel cinema “in profondità” di cui parlava Godard negli anni ‘50, la sua fenomenologia dell’istante e del dettaglio vengono sospinti verso una pratica e una teoria della messinscena più aperta, più sul lato dell’incontro e meno dell’intrigo, più sul lato rosselliniano e meno hitchcock-hawskiano. È una pratica che va oltre la regia verso una sua conversione in messinscena della deriva, in cui si ritrovano le nozioni di collage, di casualità, di sguardo soggettivo.
Secondo Rivette il cinema dell’incontro e il cinema dell’intreccio possono essere spinti verso una maggiore coalescenza piuttosto che verso una divergenza, discorso per cui il concetto di classico e quello di moderno non risultano contrapponibili quanto obliquamente compossibili sull’asse, baziniano ma anche godardiano, del cinema come “ri-presentazione”, come trasparenza ambigua, come oggettività impura.
Quando Labarthe dice, alla vigilia del '68, che la regia non è solo la premeditazione e l’artificio, ma anche il caso e il collage, il concetto di messinscena viene aperto verso una tale compossibilità.
E quando Rivette gli fa eco, a proposito di un movimento del senso: “esso (il senso) è per noi, che ci piaccia o no, sempre ripreso dal circuito della merce, complice dell’ideologia dello scambio”1, il rapporto che la tessitura, l’intrico, la topografia di un récit (che sia la significazione dei luoghi come luoghi narranti, come dislocazione continua della diegesi) intrattengono con lo scivolamento del contingente, con la deriva degli incontri, con la sospensione e l’allentamento dei codici classici, con la loro erosione e sgretolamento, va a mettere in luce anche il rapporto, che Godard non perde mai di vista, tra il cinema come circuito delle merci e lo sconcatenamento delle immagini nel loro scindersi, negli slegamenti delle loro trame, nel fatto che, dice Godard, una immagine non c’è da sola, c’è sempre le immagini che appena diventano due, tra due, ecco che ce n’è sempre una terza, immagine che fugge come in uno specchio, che non è l’immagine giusta, ma giusto un’immagine; ed è in questa “tavola di montaggio” che si mette in campo il sintomo e la sua economia, che l’atto mancato di una figurazione sempre al di là di se stessa, ciononostante necessita, malgrado tutto, di un precipitato del visibile, effettuato appunto nell’emergenza del leggibile entro gli spazi di invisibilità, di nero. Quei neri impercettibili entro cui, secondo Ruiz, si depositano altrettanti film possibili, dando così scacco alla figurazione e alla decifrazione, come alla reificazione di un testo, che non è mai dove lo si cerca, ma è rifratto in uno specchio che però esso stesso scivola e fugge (come nel racconto di Papini amato da Borges).
Il senso non è mai innocente, nel circuito delle merci il fattore di verità implica sempre un doppio fondo, un complotto delle merci, una indizialità e dunque un intrigo della colpa che ha sempre a che fare con un feticcio, con un oggetto rivelatore e occultante, con un macguffin, che in quanto significante copre il vuoto e il nulla del senso, in altri termini introduce un gesto mistificante.
Ora il modo per districare questa verità mistificata è qualcosa che si può definire moto di de-drammatizzazione, uno sganciamento e uno slittamento del senso che si pone esplicitamente come effetto di linguaggio, gioco dei materiali: è qui che l’aleatorietà necessaria, il movimento paradossale dell’incontro effettua e sposta, disloca il senso e produce, mette in gioco lo sguardo.
2. Crittografia
In “I pellegrini di Emmaus” di Rembrandt si intravede nel fondo oscuro qualcuno che è indaffarato in una attività indecifrabile. Jean-Louis Leutrat in L’autre visible riferisce questa intra-visione come una sorta di derivazione del centro, un effetto che definisce “laterale”, qualcosa che sfugge all’ordine del segreto e si pone come crittografia a scarto, una mossa come quella del cavaliere degli scacchi, la cui obliquità è come se squarciasse nel fondo un segreto che coincide con la sua stessa cifra di rivelazione, con la coda dell’occhio, come una visione cieca, che si rende visibile nel suo rivelarsi a sé. Sbirciare significa allora strappare all’invisibile il suo potenziale sempre rivelabile di visibile. La visione si allarga a tutto il corpo che, come quello di Argo, si cosparge di occhi e (ripetono tanto Ruiz che Bressane, entrambi “in siesta ipnotica” sui loro set) si può vedere in uno schermo, al di là del velo, nella trasparenza di un fotogramma, con tutte le membra del corpo. Corpo ripartito e disseminato entro la scacchiera labirintica di una città, di un deserto, di un’isola, del picco di una montagna, di un territorio che si muove, di un fiume che scorre, di un litorale .
Scrive Leutrat che Le pont du Nord di Rivette propone un esempio di percorso di questo tipo laddove, in un luogo magnetico e magnetizzato dai “passi” dei pellegrini Baptiste e Marie, nomi evangelici, le immagini della tela del ragno e del gioco dell’oca (con le caselle-zone del labirinto e del sepolcro), vengono associati alla cartografia degli arrondissements della città, si sovrimprimono agli spostamenti, agli scarti obliqui del cavaliere.
In questo caso, come spesso in Rivette, la quest è al femminile, le strade delle due donne si incrociano. “Parigi è assimilata a Babele, il percorso prende l’apparenza di una teoria processionale orlata di leoni che potrebbero essere sfingi, una serie di statue di questi animali regali che rinviano a luoghi repubblicani”. La crucialità dei quattro punti araldici, oltre ad accompagnare la quest e a inserirla in un processo di revulsione da un ordine all’altro, segna anche un destino cifrato, un percorso stellare come lo zodiaco, con un omaggio al Rohmer del Signe du Lion. La struttura combinatoria delle apparizioni e il disegno progressivo di una mappa che diventa trappola labirintica, luogo del delitto e del sacrificio, ma anche percorso delle anime, topografia di una mappa segreta dove sono poste le immagini di una città celeste, come per il cammino onirico degli sciamani: tutto ciò ossessiona in modo altrettanto significativo, e insieme depositando nei segni disseminati alcune tecniche oniriche e rintracciando punti privilegiati di visione (rotante e mandalica come nell’Aleph di Borges), in diversi film di Ruiz, che si pongono in dialogo con Rivette (sulla scorta della cifra comune, della lettera rubata, di un significante ronzante cone il ruotare del rullo pellicolare, il girare dei fotogrammi, il gioco del caso contingente negli ingranaggi della Storia: RR, e ancora R, quella di Rossellini, che girava sempre nella contingenza del vero un film segreto e impersonale che appartiene a ciascuno di noi, a nessuno e a tutti): Colloque de chiens, Le jeu de l’oie, L’éveillé du pont de l’Alma. Non a caso torna anche qui il gioco iniziatico e celestiale del cammino verso il cielo e verso la terra, della catabasi infernale (dietro Babele e il Paradiso Perduto c’è la Città di Dite, come dietro la Gerusalemme Celeste c’è la Gerusalemme terrestre: in Rivette Marie è deposta a Denfert-Rochereau, e D-Enfer-t sta per dannazione, come nota Leutrat), tornano gli animali araldici (cani parlanti o felini rampanti e ruggenti), animali sciamanici e guida delle anime, torna l’essere sottile e invisibile, umano-animale, del “guardiano della soglia”, angelo-demone-doppio con cui lottare e corpo scambiato, ricettacolo delle anime, androgino di mutazione, spoglia-corpo sottile entro cui si trasferiscono gli spiriti-voci fluttuanti e cantanti nelle ossa cave sparse nei punti cruciali del mondo-mappa, del territorio del cinema-sogno (è l’altra ossessione ruiziana della Recta (Versa) Provincia). Tornano infine, in Ruiz come in Rivette, gli ingressi nascosti, le soglie dissimulate, i punti di passaggio e di mutazione che possono prendere la forma della porta di ingresso e del fiume delle strade (Céline et Julie vont en bateau), oppure della stanza d’albergo e degli specchi, dei passaggi da un isola all’altra come da un sogno all’altro con le sue shattered images. E qui la regia diventa, come in Rossellini, l’orientazione di uno sguardo che non molla la presa e che perlustra il vero facendone emergere le crittogrrafie cerimoniali che tessono le avventure della Storia o la costruzione filmica di un intero mondo in cui credere senza mediazioni, con adesione empatica e insieme con distscco critico, uno svuotamento che diventa chiarificazione dello sguardo per attingere a uno stato di visione (da La prise de pouvoir a India a Socrate. avviene così in Rossellini). Il punto di passaggio e visione del Pontifex, del Costruttore di Ponti, del Gran Cerimoniere delle immagini: Ponte Cardinale (da Nord a Sud), Ponte delle Anime (e dei Corpi). Come in un mandala che lentamente ruota, in un sottoscala borgesiano a un certo numero di ingresso di una stradina di Buenos Aires, in Le Pont du Nord, Marie trascrive ed enumera, con un occhio ulteriore: “Tutto ciò non esiste più... il grande lupo cattivo, Mamma Oca, il re dei gatti, la vecchia scimmia della montagna” e Baptiste aggiunge a questa lista i Leoni e gli Occhi. Si potrebbero aggiungere anche le Tigri Azzurre borgesiane. Creature fatte di occhi o di pelo e piume o di scrittura invisibile, scrittura del dio, formula per dissovere nel sogno-vita le mura della prigione, come nel racconto di Borges La scrittura del dio. E si potrebbe rintracciare in quel Mondo di Mondi, in quel Labirinto dei Labirinti, intra-visto nei viaggi, nei libri, nei giardini, nelle città, nelle mappe, nei patii, nelle cisterne dove sonnecchiano tartarughe, nelle biblioteche, nei corridoi di specchi, nella fuga di stanze, negli angoli delle case rosate, la cifratura, la crittografia di leggendarie finzioni, di luoghi privilegiati di apparizione dissimulati all’angolo di una strada, dove occhieggia un mostro, o nell’impensato giardino dietro una inferriata di periferia.
Il Leone, segno Rohmeriano e Rivettiano, di interpunzione per i tracciati labirintici è araldica filmica fin da Ejzenstejn, e, come nota Leutrat, “appartiene al bestiario dei racconti leggendari, ciò che permette di connetterlo con il Gioco dell’Oca, per l’intermediazione delle fiabe di Ma mere l’Oie", il carattere “regale” del felino è da mettere in relazione con il “nobile” gioco. Nella quarta giornata del film di Rivette il leone diventa un dragone guardiano dei ponti, che sputa fuoco.”
E, come in un un racconto di Borges, nella sequenza del film rivettiano dove appaiono i leoni lungo l’itinerario labirintico di Baptiste, i suoi passi sono accompagnati da un tango di Astor Piazzolla la cui atmosfera Rivette definisce “tra la musica da bordello e la musica da chiesa”.
“Questa sequela di statue, interlacciata in qualche modo dal movimento della camera e da quelli del tango argentino è un tournoiement, un tourbillon, una danza tra la ragazza e i leoni, e una figura della necessità, del destino in cui crede Baptiste laddove Marie è una adepta del libero arbitrio. All’interno di questo gioco, il film si presenta sotto gli auspici del caso e della necessità, e lo stesso montaggio non sfugge a questa logica che gli dona una apparenza obliqua” (Jean-Louis Leutrat). Ogni luogo manifesta il suo genius loci, in modo da tracciare un cammino di immagini che ci ri-guardano, e su quel sentiero terrestre-celeste i cineasti sciamani ci levano in volo, ci depositano, ci attribuiscono il filo e la cifra (del labirinto).
1J.Rivette in Montage n.210, marzo 1969