Qualcosa è cambiato
In una delle ultime pagine del L’esperienza interiore, Bataille, nel solco di Nietzsche, scriveva che: “ridere è pensare”, ed è proprio questo intreccio del pensiero e del riso, come elementi potenti e sovversivi rivolti verso uno squadernarsi del mondo, a formare il tessuto sorprendente di Toni Erdmann di Maren Ade.
Prima di tutto facciamo chiarezza sul tipo di comicità in atto. Per esempio: Ines decide di dare una festa per i suoi colleghi di lavoro di una grande società tedesca stanziata a Bucarest. Poco prima dell’arrivo degli ospiti è colta da un dubbio e corre a cambiarsi d’abito. Proprio in quel momento bussa alla porta il primo invitato. Incastrata in un limbo di indecisione e stoffe troppo strette, Ines apre la porta in topless. È un’amica, che, una volta superata la sorpresa, cerca di farla rivestire. Secondo invitato, è il boss dell’ufficio. Ines, a questo punto, si sfila anche le mutandine: ormai ha deciso, sarà un naked party. Alcuni scappano, altri scompaiono per le scale e ritornano nudi; la sua giovane segretaria, che spera di fare carriera, è l’unica a rispettare l’improvvisato dress code. A un certo punto si presenta alla festa un essere a metà fra un gigantesco scimmione e l’uomo di Neanderthal: una maschera kuker del folklore locale, entra, spaventa tutti e va via. Ines, l’unica che sembra sapere chi si nasconde sotto quell’ammasso di peli ambulante, si infila veloce una vestaglia bianca, abbandona i suoi ospiti seminudi e lo rincorre nel parco vicino casa. Lo raggiunge: “Papà!”. Lo scimmione e la giovane donna in carriera si abbracciano.
Rispetto a molto cinema contemporaneo (leggi: buona parte dei film di Cannes 2016), imbrigliato nel supposto necessario equilibrio dei piccoli asfittici passaggi di sceneggiatura e anelante lo squilibrio del desiderio connesso al filmare vero e proprio, Toni Erdmann gioca con grazia fra leggerezza di scrittura e sottile immaginazione, tracciando al proprio interno – mentre si scrive - il fuoco cinematografico che lo trascende. Qui, a movimentare la scena sono i fantasmi del comico e del travestimento, degni delle maschere irrefrenabili di un Blake Edwards (insieme all’evocazione formaniana di Tony Clifton, alter ego dello showman Andy Kaufmann), convocati a dare un tono inatteso e malinconico, che parte dal lessico familiare di una relazione padre-figlia, per disegnare con affilata crudezza i tratti della nuova ragione del mondo. Ines è appunto una figlia in carriera, rigida e formale quanto i suoi tailleur, che dalla Germania si è spostata a Bucarest dove il suo ruolo è quello di consulente di grandi compagnie che operano una progressiva eliminazione del personale. Non sorprende che Maren Ade dipinga con tratti così realistici e brutali il mondo del businnes delocalizzato, dato che l’anno scorso ha prodotto per Miguel Gomes As Mil e Uma Noites, impressionante radiografia antropologica e sociale del Portogallo, un paese ricattato dalla troika, in lotta per la sua dignità e per la sua bellezza.
Anche qui, in Toni Erdmann, come nel film di Gomes, si vedono al lavoro gli ingranaggi impersonali del capitalismo finanziario, dai quali anche la bionda Ines è a sua volta inevitabilmente sussunta, fino a quando non la viene a trovare suo padre Winfried, con tanto di parrucca e denti posticci come lo è la sua occasionale identità: Toni Erdmann, consulente-guru e personal trainer, che risponde a chi gli domanda di cosa si occupa: “della vita”, e che decide di portare il fremito e il calore dell’imprevisto nel mondo gelido e ordinato di sua figlia. “Sei felice?”, “Sei realmente umana?”, le chiede Winfried, domande a cui Ines non sa dare una risposta...
La forma stessa del film è fatta di questi strappi, di queste aperture vertiginose del senso, della rottura improvvisa di un codice narrativo per finire in un altro, in altri termini, è la presenza stessa del perturbante che Maren Ade cerca di filmare nel sorgere stesso della sua irrazionale flagranza. Almeno tre le sequenze memorabili: la prima, l’apparizione di Winifried, nei panni di Toni Erdmann, mentre Ines sta sparlando proprio di lui con le amiche (commuove trovare le tracce inconfondibili della folle e corrosiva dolcezza di Blake Edwards); la seconda, il karaoke di Ines, che canta, contro se stessa, The Greatest Love Of All di Witney Houston, introdotta in una festa privata, dal padre che, per l’occasione riveste i panni del console austriaco; infine, la terza, già ricordata (ma non a caso insistiamo a raccontare la stessa scena come tic e coazione a ripetere di una comica infinita): il party organizzato da Ines per il proprio compleanno, che, imprigionata in un abito (come lo è la sua vita) troppo stretto, se ne libera impulsivamente, optando per un all naked party.
E se restare umani è, per tutto il film, la vera posta in gioco, messa continuamente in scena praticando il nonsense divertito e malinconico di una parrucca arruffata e denti finti come la propria identità, alla fine, Ines, suo malgrado, entra nel gioco e prova anche lei, con una parrucca e dei denti non suoi a fare a sua volta un po’ di cinema, ultimo spazio umano, forse, per salvarsi la vita.
Maren Ade studia un ritmo interno che con gesto invisibile si accosta al fuoricampo, forse in maniera meno teorica e più istintiva rispetto ai classici della commedia, ma con lo stesso senso di attesa dell’evento flagrante e la stessa coscienza che il gioco di sovversione non passa per dei colpi netti a sorpresa, ma per la loro dispersione e insieme diffusione nello spazio, partitura segreta che ha il suo nucleo in Ines, di cui viene attaccato da ogni parte, non tanto il suo corpo, ma proprio la sua posizione nel mondo. E questi continui strattoni è come se costringessero lo spettatore non solo a danzare sul bordo scivoloso dei conflitti, ma proprio a identificarsi nell’accumulo di lapsus e ferite impresse sul corpo della realtà stessa. Una sorta di film-specchio Toni Erdmann, dove ciò che accade rivela al tempo stesso una rete di mutazioni possibili e l’impossibilità di cambiare. C’è un doppio movimento: da un lato appunto di pura identificazione con i personaggi (altalenante fra i due poli padre-figlia), dall’altro una forma di crescente disagio di fronte all’elemento che sovverte le convenzioni (i dentoni di Toni, che non a caso continuamente vengono messi e tolti), ma che pure sostiene il fatto filmico: sia che si parteggi per il padre che per la figlia, è la posizione stessa dello spettatore a essere messa in crisi, immesso così nel circuito analitico del perturbante che è la visione e, in una volta sola, per così dire, sedotto e abbandonato.
C’è un’ultima scena, abbastanza inosservata, che in realtà racchiude un po’ tutto questo discorso. È una scena giustamente lunga, dove si ripete (e monta) il meccanismo di messa a disagio dello spettatore. Ines è con un suo collega di lavoro in una stanza d’hotel. Sono lì per scopare, non ci sono dubbi, eppure lentamente l’equivoco serpeggia, il punto di vista si incrina, come sollecitato da forze misteriose che spingono in una direzione sconosciuta. E non è solo una battaglia di potere fra sessi (ovviamente lo è, lo è sempre!), per cui Ines non sembra più essere dell’umore giusto, mentre l’uomo al solito è sempre dell’umore giusto (e questo è il lato sottilmente comico della sequenza). C’è di più. In verità Ines sta segretamente provando a essere Toni, a vedere cosa succede in una classica dinamica maschio-femmina se uno dei due prova ad allentare le cuciture sociali e quelle specifiche della coppia in questione, mettendole in dubbio, oppure illuminandole con una diversa luce, magari rendendole meno seriose, Ines trasformata in Toni sta semplicemente domandando al suo collega “Sei felice?”, “Sei umano?”. E mentre pone queste domande silenziose, dentro di sé, Ines-Toni, ride, ride a crepapelle. Qualcosa è cambiato.