"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Donatello Fumarola

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Divinità schiave

Donatello Fumarola

Lucido. Preciso nel suo essere sbilenco. Rigoroso. Questo strano film realizzato da un artista, Carlo Gabriele Tribbioli e da un giovane filosofo e documentarista, Federico Lodoli, ha un’idea di partenza semplice: il frammento 53 di Eraclito - Pòlemos [la guerra] è padre di tutto e re di tutti: alcuni fa divinità, altri uomini; alcuni liberi, altri schiavi. La guerra. Considerata nella sua necessità e nella sua dimensione universale, dove ogni punto è inizio e fine della stessa circonferenza (per rimanere a Eraclito) e ogni combattente carnefice e vittima della stessa guerra. Qui, in particolare, è quella che da molti anni (dagli anni ‘90 almeno, quasi continuativamente) è stata combattuta a suon di macete e di massacri in Liberia, dove i due autori del film sono andati a più riprese per incontrare il "Generale" Rambo, Joshua M. Blahyi, Carl Darlington, Aron O. Kennedy, e gli altri guerriglieri che hanno offerto la loro testimonianza raccontando quanto hanno vissuto, da una parte e dall’altra, durante il periodo 2011-2014. Tanto è particolare la natura del conflitto raccontato da chi ha tagliato teste, teso imboscate, bruciato villaggi, combattuto in quel lembo di terra, tanto svanisce il peso della particolarità dissolvendosi e espandendosi in ogni altra particolarità, nel racconto filosofico (di stile platonico), nel mito. Polemos...

Qui non si tratta di andare a cercare l’esotismo del Cattivo (o il suo facile paradosso), come per esempio nei film di Joshua Oppenheimer, che non rischiano nulla e capitalizzano al massimo la forza (esotica - esogena) del soggetto scelto, facendo il loro spettacolino grazie al sangue versato e soprattutto grazie a chi lo ha fatto versare. In Frammento 53, al contrario, non c’è nessuna prurigine morale (né in un senso, né nel suo contrario), talmente è dentro la cosa, e al di là di ogni esotismo, davanti o dietro la camera. Frammento 53 fa sua l’astrazione che è propria delle immagini, e a suo modo tratta le parole (presenti quasi in forma aforistica) come immagini. Fa capire che lo sono senza ambiguità. E non volendo persuadere rinuncia alla retorica. È un film piuttosto neutro, in questo senso. Quel Neutro che manca alla lingua italiana, ad esempio, svanito col Latino, che ha fatto sí che restasse una opposizione binaria (quindi chiusa) a dominare tutto. Le sue qualità comunque (quelle del Neutro) muovono questo film dal profondo, dando l’idea che lo spazio dietro la camera sia molto più grande di quello davanti. È un film ossessivo, in cui si sente la forza dell’ossessione. Ed è bello quando si lascia andare, quando la tensione si spegne nei fuochi della festa, quando a un tratto il cinema si libera delle parole, divinità schiave. Lì, forse, inizia un altro film.

 

 

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FESTIVAL/Nitrate Picture Show 2015

Sunday, 19 July 2015 10:44

Donatello Fumarola

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Donatello Fumarola, Alberto Momo

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Antropologhia (Malastrada)

Monday, 13 April 2015 15:07

Ritratto di una catastrofe

Donatello Fumarola

Antropologhia non ha futuro perchè innanzitutto è fuori dalle mode culturali e dai modi imprenditoriali dello spettacolo dominante e della sua economia (a partire da quella festivaliera). Perchè è scomodo a vedersi, non produce bellezza, è il ritratto di una catastrofe (la nostra) senza alcuna consolazione (a partire da quella estetica). Perchè Malastrada, il collettivo che lo ha realizzato, non si vuole far digerire come un qualsiasi fast food e non si offre al pret-à.porter. E a ragione. In qualche modo pratica il motto debordiano: il futuro sarà un rovesciamento di situazioni o niente. E in questo senso il futuro del film gli è esterno, legato a quanto il film può spostare, provocare, rivoltare (nel presente). Per questo riescono a farsi cacciare dalle mostre d’arte contemporanea a cui sono spesso invitati in giro per l’Europa. Malastrada produce conflitto. E lo produce in senso politico, non solo ‘estetico’, e non solo a parole. Il film non ha nulla di feticistico, nemmeno in senso negativo. Piuttosto il contrario.

Antropologhia è un film che non solo non ha futuro, ma non ha nemmeno un passato. Proiettato solo una volta a Roma al Teatro Valle Occupato senza la bellissima ora finale, La scomparsa dell'ombra. Finì lì in malomodo. E nulla più. E invece è un film prodigioso, che ha la pretesa di raccontare un popolo - il logos di un luogo (la Sicilia che c’è attorno a Paternò e lo Stato a Palermo e nei vuoti di Montecitorio) - attraverso le sue stesse immagini, autoprodotte, autoritratte (ovali, come le foto al cimitero), in epoca pre-smartphone (già lì, anzi qui, antropologicamente, a segnare quel futuro perpetuo che è questo presente). E forse non è nemmeno più un film, non lo è in senso più o meno classico né in quello ‘sperimentale’. Non appartiene a nulla di già visto, retoricamente. La cosa che gli va più vicino è il flusso televisivo da una parte, una sorta di montaggio automatico, per schegge, di durata variabilissima, letteralmente fuoritempo (anche e soprattutto quando filma il presente), e Lumière dall’altra, appunto: "l’invenzione senza futuro".

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