Paura e desiderio
Dalla distanza solo apparente, tra Lo and Behold e Into The Inferno, ultime tappe dell’esplorazione spaziale, temporale, epistemologica che Werner Herzog sta svolgendo da tempo con una modalità molto prossima a quella già praticata da Michel Foucault - soprattutto, in L’archeologia del sapere e in Le parole e le cose -, ciò che emerge come tratto comune, oltre alla presenza-fantasma della voce di Herzog che a volte insorge tra le immagini, straniera a se stessa, è il consolidarsi sempre più preciso di un metodo e di una pratica di analisi dettagliata, differenziale, condotta trasversalmente tra materiali e campi fra loro lontani. Ghiaccio e lava incandescente, discorso scientifico e pensiero magico, reperto archeologico e leggenda, sono soltanto alcuni degli elementi eterogenei e discontinui, delle forze contrapposte che si vanno stratificando in Into The Inferno, mentre la ricerca di Lo and Behold, concentrata in dieci, densi capitoli, si muove su Internet e sulla sua espansione immateriale, irrefrenabile e imprevedibile, dagli albori di “The Early Days” all’oggi e oltre di “The future”.
Se nel film è il discorso scientifico a prevalere, Herzog, ne fa emergere, sistematicamente, anche il sottosuolo, il groviglio dei materiali inconsci; si può incontrare così in “The Glory of the Net”, la capacità delle macchine autoguidate di imparare dai propri errori e di correggerli automaticamente, mentre in “Internet on Mars” si arriva a immaginare una rete che, forse, nella sua crescente espansione ha già cominciato a sognare se stessa (una delle domande più belle formulate da Herzog) e in un altro ancora si scopre, attraverso la risonanza magnetica, l’esistenza di un’universalità dell’alfabeto dei pensieri umani, un vero e proprio vocabolario del cervello, comune al genere umano, dove ogni differenza tra le lingue sembrerebbe annullarsi.
In questo viaggio verticale dentro e intorno alla rete, comprese le zone d’ombra - hacker e addicted da videogiochi, anonimato, infamia, lutto -, come mostra morbosamente il lato oscuro, anche Herzog, come Foucault, si comporterebbe come un archivista-archeologo, che si occupa con i mezzi del cinema di ridefinire le serie, compiere nuovi tagli, predisporre altri riconcatenamenti, nuove stratificazioni? Quello che appare, è che da tempo il suo lavoro ha preso a muoversi verso una forma di recupero poetico e sistematico di materiali di provenienza eterogenea, come avveniva in The Wild Blue Yonder con le immagini della Nasa risemantizzate in una nuova forma ibrida e aliena che marcava una sostanziale distanza sia dal cinema documentario che da quello di finzione, in una pura deriva di immagini di selvaggia bellezza, come staccate e lasciate libere dal loro stesso referente, già spinte in un’altra dimensione. Ma sono soprattutto i fili sottili, tirati da un film all’altro che, come linee invisibili delineano la strategia e i paradossi di questo cineasta, così ostinatamente solitario da un lato, e dall’altro così ossessionato e soggiogato dagli incontri: persone come Henry Kaiser, musicista e ricercatore, le cui riprese subacquee in Antartide sono state incluse da Herzog in The Wild Blue Yonder e in Encounters at the end of the world, o come il vulcanologo Clive Oppenheimer che dalle pendici del monte Erebus in Antartide, sempre in Encounters at the end of the world, ritorna a distanza di dieci anni in Into the Inferno. Herzog avvia anche in questo film un processo di riutilizzo e di riaggregazione dei materiali, tra cui diversi frammenti prelevati da La Soufrière, da lui girato nell’isola di Guadalupa nel 1977, che si vanno a comporre in una nuova stratificazione, insieme alle immagini di altri vulcani dall’Indonesia, all’Islanda, all’Africa, inclusa una tappa sconcertante e fuori dal tempo in Corea del Nord, sempre filmati nel loro impressionante intreccio di realtà fisica, scientificamente rilevabile, e di rinnovata produzione di pensiero magico.
Una parte del film è dedicata ai vulcanologi francesi Katia e Maurice Krafft, che avevano passato una vita a osservare i vulcani e alla fine erano morti, cancellati insieme ad altri da una violenta eruzione improvvisa, in Giappone. L’immagine delle loro figurine, chiuse nelle tute di amianto, totalmente assurde mentre si stagliano contro i fiumi scarlatti di lava in tumulto, è tanto struggente e inquietante quanto le immagini nitide e come sospese nel tempo, filmate da Herzog in Corea del Nord, dove si avverte un senso di spaesamento e di disagio davanti agli spazi nitidi e freddi della metropolitana, in totale assenza di giornali, pubblicità, telefonini, disordine o immagini che non siano i pannelli celebrativi del regime, oppure nello stadio, dove si dispiega a tutto campo, come già nell'opera di Leni Riefensthal, la macchina della propaganda: enormi tableaux vivants, realizzati da centinaia di figuranti, per Herzog veri e propri pixel umani, che nascosti dietro frammenti di carta colorata compongono, disfano e poi ricompongono disegni sempre diversi a soggetto patriottico.
In chiusura di un suo testo leggendario, Foucault aveva definito l’uomo un’invenzione recente, e ne aveva annunciato, forse, una fine prossima, “come sull’orlo del mare un volto di sabbia”. Herzog, nel mosaico di incontri, organici e inorganici, che si costruisce in Lo and Behold e Into the Inferno, ci mostra che prima delle nuove forze che sono già al lavoro, nel comporre qualcosa di diverso dall’uomo, una nuova razza, informatica e cibernetica, forse è sufficiente un frammento di osso temporale di 100.000 anni fa per trasmettere ancora, riaffiorando dalla terra, la forza dell’inatteso, insieme alla testimonianza dell’infinita contraddizione umana, stretta tra tenacia e impermanenza, senso di collaborazione e spinta distruttiva, paura e desiderio, finitezza, sogni.