Le immagini non si coniugano
Nel suo famoso saggio Il film Béla Balázs, che molti anni prima (1908) si era occupato di redigere il libretto dell’opera di Béla Bartók A kékszákallú herceg vára (conosciuto come The Bluebeard’s Castle, ma letteralmente The Blue-Bearded Duke’s Castle), scrive: “Le immagini non sono coniugabili. Esse riflettono, per così dire, soltanto il presente, solo quanto accade in un certo momento: non possono esprimere né il passato né il futuro”. Non è qui la sede per misurare di quanto si sia sbagliato, ma poiché tale affermazione voleva cogliere un certo tipo di qualità metafisiche che Balázs riferiva inconfondibilmente al cinema muto, sarebbe interessante oggi sapere la sua opinione sul terzo film diretto dall’argentino Gastón Solnicki, Kékszákallú, tratto, o meglio ispirato, all’opera di Bartók. Non un film muto, ma a lungo silenzioso e tutto pensato per trasformare il silenzio di una generazione (e di una classe sociale) in una coniugazione astratta del tempo e dello spazio, dove semmai l’unica cosa che manca da subito – e che incarna l’idea stessa di Barbablù (un Barbablù dunque tutto simbolico e di muta presenza) – è proprio l’idea di presente. La crisi di una certa fascia borghese medio-alta argentina, intrappolata e sospesa fra perdita di privilegi (leggi recessione) e catatonica attesa di un futuro, questo sí, davvero inesistente, viene raccontata per successione di abissi architettonici, piscine estive dai tuffi incerti, avveniristiche ville ferme come cattedrali nel deserto, visite e derive solitarie, colazioni e pranzi e cene discussi e sempre rimandati, bei corpi presi nel tedio di un erotismo possibile ma irrimediabilmente inceppato (come un Rohmer esangue…). Tre, quattro giovani donne cercano forse ancora qualcosa (Barbablù?), invischiate nella ragnatela fatta d’inerzia e torpore, e che Solnicki annoda a sua volta per piani obliqui, che scivolano l’uno nell’altro mantenendosi cupamente e misteriosamente tortuosi e inspiegabili (altrettanto obliqua d’altra parte, anche se sensibilmente più complessa e occulta del precedente Papirosen, è l’attitudine documentaria implicita). In verità bisognerebbe tornare alla citazione di Balázs, che prosegue così: “Nell’immagine in sé non esiste alcun elemento che possa illuminarci con esattezza matematica sulle cause o sulla formazione del contenuto. Nell’immagine cinematografica si vede unicamente ciò che accade dinanzi ai nostri occhi”. Di nuovo c’è ben poco da discutere, se non per la sorpresa di ritrovare nella struttura stessa del film di Solnicki una totale aderenza a tali premesse, ma col risultato opposto di mostrare quel che non si vede, quello che avviene in profondità o, addirittura, alle nostre spalle, e che, a sua volta (e qui Balázs ha le sue ragioni), non ha più nulla a che fare col contenuto o con il pur evidente discorso economico-politico. Cosa avviene dunque alle nostre spalle, anzi alle spalle di queste ragazze (i ragazzi invece sono ancora più fantasmatici e periferici: il maschile è già sparito, a fronte di una neppure tanto velata maggiore capacità di resistenza del femminile) mentre sembrano esitare sul ciglio di un abisso senza accorgersi dell’esile linea che le tiene in equilibrio? Avviene appunto questa esperienza di pura cecità, con cui Solnicki sembra dire la sua su tanto cinema (anche di talento) dei nostri giorni, dove spesso la puntigliosità della forma si dimentica che l’immagine non è una formalità. Anzi, lo è troppo spesso, esattamente come vorrebbero farci credere a proposito delle crisi economiche, tanto cicliche quanto inavvertite. Per cui, come sembra intuire solo l’ultima ragazza, che come la Judith di Bartók/Balázs decide di aprire la settima porta e di lasciarsi alle spalle il castello di Barbablù, quel tuffo dal trampolino, per quanto alto e pericoloso, qualcuno dovrà pur farlo.