"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

ANOMALY CINEMA (1) – Silence (Martin Scorsese)

Thursday, 30 March 2017 08:02

Andrea Pastor

L’oro dell’Anomalia e dell’Eccezione

 

Anomaly CinemaÈ disagio quello che si prova vedendo e rivedendo Silence di Martin Scorsese. Un disagio intessuto da frustrazione e impotenza. Come spettatori ci troviamo irrimediabilmente soli. Le interpretazioni sembrano non avere accesso, il sentire è come frastornato. Non si riesce a catturarlo, a farsene catturare. Lo sguardo mostra tutti i suoi limiti e l’atto stesso del guardare è come annebbiato, o irrimediabilmente ferito. Al di là della vita prima del film (in particolare mi riferisco alla preziosa e toccante conversazione col regista  pubblicata su “La Civiltà Cattolica”), al di là delle intenzioni, non si riesce più che mai a Credere fino in fondo, anzi, stanati, toccati da questo Silenzio, a predominare è forse, a malapena, il credere di credere. Scorsese spiazza tutte le attese, ci fa smarrire, come i suoi padri in viaggio alla ricerca di una presunta verità, verso lidi plumbei, catacombali, anche se en plein air, e nel corso delle quasi tre ore di proiezione il nostro pensiero non sembra trovare tempo e modo e luogo per prendere una qualsivoglia forma, per farsi parola, giudizio o più semplicemente nota a piè di pagina. Ho sempre visto l’occhio di Scorsese  barbaramente segnato dall’onnipotenza, dal volersi rifare, a vista, titanico occhio del Novecento e del 2001 primordiale, dalla volontà di accentrare su di sè tutto l’immaginario hollywoodiano per ricrearlo ogni volta, facendolo lievitare ed esplodere, e il suo cinema - tutte  le sue sterminanti filmografie appartenenti a tutte le sue vite di cineasta - mi sono sempre sembrate generate dal morire e risorgere della sua veggenza, dalla volontà, religiosamente iconoclasta, di trascendere continuamente, di film in film, la sua stessa volontà di potenza e di farsi Immagine (comunque e sempre purificatrice, capace di far riemergere, rispettandole, sia pur tradendole, e trasgredendole, al bagliore delle sue ossessioni, tutte le forme e i materiali del mondo, e dell’umano, e non solo quelli dell’universo filmico, più o meno codificato o regolato da Leggi, leggi mai peraltro scritte e definite fino in fondo, nonostante tutte le teorie che ancora oggi tentano di sistematizzare il Film…), dal suo volersi rispecchiare e perdersi in uno specchio afasico, in un Big Shave sempre grondante e riflettente sangue, o più semplicemente e violentemente trasudante rosso, dal suo volersi incarnare in un sempre più allucinato e lancinante specchio della vita, dove il vedere e il sentire sono comunque e sempre mossi, agiti, dalla colpa e dalla redenzione, violati da urla intese come gesti, come inquadrature rigorosamente rimontate e ricomposte, al ritmo di un montaggio serrato, pulsante, dove il reale è di fatto, sempre e comunque materiale psichico, dove la Storia, e le immagini (non solo i personaggi delle sue narrazioni ipercinetiche), sono sempre borderline, psicopatologiche, organismi viventi mostrati come se avessero resistito a un saccheggio, ricostruiti e reimmaginati con algebrica perfezione, ma allo stesso tempo eticamente e ambiguamente malsani, sempre brucianti, incandescenti, pericolosi al tatto, ultrasensibili. E le torture, la violenza, se non addirittura le crocifissioni, che hanno sempre violato e inchiodato  i suoi schermi, e accecato gli occhi e la mente dei suoi poveri o ricchissimi uomini che si fanno cristologici demoni sempre pronti a eccedere il cosiddetto reale, sacrificandosi anche e soprattutto nella violenza, nel crimine, e nella continua infrazione delle regole, salvo poi redimersi e espiare la colpa di averci fatto vedere, di avere troppo messo a nudo le loro nostre pulsioni più sfrenate e incontrollabili, queste torture mi sono sempre apparse come i segnali tangibili di una compulsiva e irrefrenabile e irrealistica martirologia filmica attraverso la quale l’officina, la factory scorsesiana poteva, grazie a una scrittura bruciante, a un montaggio trasudante immagini piagate, rischiare incessantemente, come le sue creature, la dannazione o la resurrezione perpetue, e mettere costantemente a rischio, se non addirittura tradire, la sua lingua, tradire ed eccedere ogni volta la retorica hollywoodiana e la sua propria retorica, la propria inesauribile, vulcanica ricerca di timbri e sonorità inedite. Ed ogni suo film, proprio nella rimessa in scena continua del proprio occhio-mondo, mi è sempre apparso come terminale, come definitivo, parlato, agito, improntato fortemente dall’ansia della sperimentazione continua di nuovi ritmi, di nuove partiture, di nuovi e ultimativi versetti lumièriani mélièsiani, tesi al rigore assoluto, al limite del maniacale, e costeggianti, seppur mantenendo una parvenza di classicismo e nell’assoluto rispetto dei cosiddetti generi, volta a volta reinvestiti da un’energia filmica impetuosa, le zone rosse che delimitano gli abissi del senso, i confini scompaginati tra documentario, finzione filmica e serie televisive, le corrispondenze, le assonanze o le crasi tra le voci over iperen(ann)uncianti e un visivo che sembra sempre quasi, da queste, volersi affrancare, rimettendo ogni volta  in scena i conflitti esplosivi e deflagranti tra soggetti iperparlanti  e immagini iperconnotate, a imitazione di un cristologico reale dai timbri più che ossessivi.

 

Silence - ScorseseDa qui lo sconcerto che si prova alla visione di Silence per un silenzio a cui non eravamo abituati, un silenzio che non è nemmeno assordante, i cui echi faticano a risuonare nell’atto di guardare. Nessuna bulimia scopica, nessun corto circuito feticistico nella dialettica tra il 35 mm e il volto del Cristo di El Greco in digitale, riflesso acqueo di un io ancora una volta patologicamente scisso, nessuna Gloriosa esultanza nell’atto di ricreare a Taiwan i set e gli umori e i tempi e l’aria del cinema di Mizoguchi, di Oshima, di Kurosawa, ma nemmeno nessun ritorno a Rossellini, nessun Viaggio in Giappone, e i padri che viaggiano alla ricerca del loro padre non sono nemmeno erranti giullari di un qualche Dio, lo stesso nulla zen (acutamente visto da Roberto Silvestri nel 'suo condiviso doppio ' blog) sembra impregnare solo minimamente il paesaggio, il cielo fosco e muto, i loro volti, il loro interrogarsi sulla presenza o meno del trascendente, sulla necessità di un sacrificio così violento, fatto di torture narrabili e mostrabili, da parte di uomini ingenui ma di provata fede nel Paradiso. Piuttosto Goto Nagasaki Salò Sade, il girone del sangue. Piuttosto le torture seriali viste spiate da troppo vicino o troppo lontano, provocate in prima persona dagli shogun, ma anche e soprattutto dal tormento senza estasi possibile dei padri protagonisti che fino alla fine non vogliono abiurare limitandosi ad osservare, come noi, tra lo stupefatto e l’inorridito, il tremante e lo sconsolato, preda di un interrogarsi continuo sulla propria fede, sulla esistenza o meno della divinità in nome della quale dovere o non dovere, potere o non potere, abiurare, in nome della vita degli altri, queste torture, così persistentemente eseguite, messe in scena in una coreografia quasi documentaristica, velata dalla nebbia o dai fuochi e colante rosso sangue, senza il benché minimo estetismo o pittoricismo, torture che sono semplicemente inquadrate, come registrate documentaristicamente, in un eterno presente che sembra senza fine, irreale, fuori da qualsivoglia nozione convenzionale di respiro filmico. Il film non fa respirare. Nessun ascetismo bressoniano o dreyeriano, nessun misticismo penetra queste immagini terragne, nonostante le messe o i battesimi, celebrati di nascosto alla fioca luce di un cinema da parrocchia che fu. Nonostante le intenzioni e lo scontro di civiltà cattoliche e buddiste che si sciolgono nelle lacrime e nel sangue, nel fuoco e nell’acqua, o nel dialogo finale col padre non più tale, ritrovato, alla luce del Sole, il cinema presente in Silence è come privo di elementi archetipici o alchemici ed avendo sempre pensato, sostenuto, e forse anche scritto, che l’universo scorsesiano è sempre stato sospeso tra cielo e terra, qui non sento nemmeno questo stato… Siamo nell’Anomalia, nell’Eccezione, in una terra desolata, in un a-cinema, dove i carnefici e le vittime tentano di dare un nome, una parola al loro agire, sia esso l’atto cruento della tortura, sia quello timoroso del guardare e dell’illudersi di dover resistere all’abiura, a un semplice atto di calpestamento. Silence sorprende e lascia sgomenti non solo perchè non ritroviamo la colonna sonora incessante che interagiva, spasmodica, in quasi tutti i film precedenti di Scorsese, perturba perchè è un film al limite dell’Oratorio, in senso musicale, dove sono le voci over, più che i dialoghi in sè,  a far pesare e consistere i corpi, a imprimersi sul paesaggio, a dare luce, anche se fosca, all’immagine, a illuminare e interrogare continuamente l’oscenità della morte violenta al lavoro, su set dove si aspetta l’ultimo respiro, dove le uniche forze che si contendono il campo sono il Resistere l’Abiurare il Tradire il Pentirsi il Confessarsi. Dove Gesù e Giuda, anche sotto altri nomi, sono fino alla fine vicini, l’uno il doppio o l’ombra dell’altro. Nessun confessionalismo, nonostante le intenzioni o la dedica alla fine dei titoli di coda. Scorsese forse abiura (o finge di abiurare) il fragore del suo cinema, finge di sputare sul suo convulso e drogato immaginario, finge di intraprendere un viaggio nel cuore di tenebra del cattolicesimo, ma si tiene come non mai distante anche dalle apocalissi, anche da quelle di Conrad, di Coppola, di Brando. Sfugge la metafora e tenta il poetico politico rimanendo ancorato alla lettera, alla lettera anche del romanzo di Shūsaku Endō da cui il film è tratto. Alla lettera di Padre Pereira, alla prima voce letta e visualizzata, che chiama altri corpi e altre voci ad andare a vedere e sentire l’inaudito, a rifare lo stesso percorso che ha fatto lui. Come in un Big Shave. E sembra un’opera prima Silence, intima, chiusa in sè nonostante la massima apertura all’Altro, nonostante l’alto budget e le parvenze da kolossal, verginale, senza Veri referenti filmici (nonostante il discepolo Tsukamoto, corpo tetsuo qui non a caso martoriato, più che fatto recitare, contro le sue spasmodiche metalliche velocità, fatto morire lentamente), implosa, fatta di orme, di tracce, di movimenti lenti, quasi rituali, di villaggio in villaggio, di cerimonia in cerimonia, di visioni di visioni strazianti, di sguardi e parole dove l’oggettivo e il soggettivo si sciolgono a vista, fino ad approdare all’unico, in tutto il film, scolpito, definitivo, ralenti, quando il padre protagonista quasi Assoluto decide di calpestare l’immagine fumi-e, di farsi apostata, di sposarsi, di cambiare natura e aspetto, anche fisico, di imprimere una serie di vertiginose ellissi alla propria vita e al film, di abiurare anche alla sua voce over, di cedere nel finale il passo a un altro io narrante, quando la fede sembra persa in favore di un’altra identità, tra il mercantile e lo spionistico, quando sembra tornare per pochi minuti l’ultima tentazione. Ma è solo un abbaglio, anche questo, nessuna donna si chiama Maria. E il Padre a cambiare Nome, a farsi semplicemente padre. Fino alla morte. Al ritorno del digitale che coincide col cadaverico, là dove un crocefisso, unico feticcio di una vita, resta, fra le mani, in un’inquadratura questa sì, murnaucoppoliana. Là dove il legno e l’oro (la luce dorata) restano.

 

 

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