"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
In millequattrocento si muovono tra l’azzurro del cielo e il giallo dei campi di granturco, nello spazio limitato di un set ideale, beati ed estranei al mondo di fuori. Tutto inizia e finisce a Monrovia, Indiana, lo stato della Corn Belt, la fascia agricola del Midwest dove il mais scorre a fiumi e “l’invasione degli ultracorpi” sembra riuscita. “Prima i monroviani” ? No, “solo i monroviani”, slogan della piccola città, dependance dell’America First. Il 65% degli abitanti ha votato Trump, mai nominato, fantasma che si aggira nelle casette ridenti adorne di fiori. Monrovia sembra un disegno di Norman Rockwell, ma dietro la macchina da presa c’è Frederick Wiseman il documentarista americano che vede al di là delle immagini e affonda lo sguardo nella realtà come in Titicut Follies, Art Berkeley, Ex Libris. “Il leggendario documentarista volge la sua camera verso una città pro-gun, pro-God Midwestern e ci offre una visione storica di come si vive nell’America di Trump” (Peter Travers - Rolling Stone).
La chiesa, la bottega di tattoo, il barbiere, il supermercato, la palestra disposti in fila lungo la strada che attraversa il paese distante 40 chilometri da Minneapolis nei confini dell’Indiana che vuol dire Terra degli indiani, abitata al 90% da bianchi. I nativi sono lo 0,63%, gli afroamericani il 9,42%. Una ragazza black, l’unica in giro, voce da usignolo, bellissima, canta a un matrimonio composto da una coppia oversize, in linea con la stazza dei monroviani, golosi di cibo non commestibile. Wiseman, il perfido innocente, curiosa nelle stalle pullulanti di maiali rosa e poi ci porta nelle cucine esalanti odore di “pepperoni” e insaccati destinati a imbottire rotoli di pasta fritta, hamburger di carne scura, un impasto di macinato e polvere di aglio. La pizza va forte, cosparsa di salsa e salsicce. L’obiettivo affonda nella poltiglia tritata, curiosa nei macchinari che mescolano, impastano, friggono, sfornano. Le macchine sono i veri idoli di Monrovia, la festa cult è un’asta di trebbiatrici.
Dal parrucchiere le matrone gigantesche cercano invano di migliore l’aspetto, gli uomini lo stesso con il ricorso a birra e fucili, venduti per ammazzare i cervi che rosicchiano l’insalata. Visita a una armeria, i clienti si inebriano di fronte a un pistolone con la canna lunghissima, ma Wiseman inquadra sullo sfondo una donna non più giovane - i giovani scarseggiano - che analizza una rastrelliera di fucili e accarezza le canne. Qui non ci sono i suprematisti bianchi della Louisiana di Roberto Minervini eppure l’estatico sguardo della signora a caccia di un passatempo è da brividi. In caso di noia o di infelicità, preti e predicatori informano, durante cerimonie estenuanti di nozze e funerali, che dio ha destinato a Monrovia una dimora speciale nell’alto dei cieli. Lunga predica da venditore di paradisi con il rito di due croci che dovrebbero incastrarsi per assicurare l’eterna unione tra gli sposi, ma non ne vogliono sapere, simulacri sghembi, più vicini agli attrezzi di una cerimonia voodoo. In controcampo, l’arringa interminabile di fronte alla bara, controllo minuzioso dei presenti, la pioggia cade.
Wiseman si infila dovunque, come al solito, anche nella seduta del consiglio comune che discute su una panchina - o meglio due? - da collocare davanti alla biblioteca. L’argomento è scottante perché a Monrovia non c’è spazio pubblico. Non c’è un mall né una piazza né un parco. C’è il supermercato, però, che espone scatole di cibo, buste di nachos e patatine, pareti di dolciumi e litri di bevande colorate. Il serbatoio di voti trumpisti è gonfio di calorie. Oltre alle panchine, mancano gli idranti e un incendio potrebbe, dice qualcuno, mandare a fuoco l’intero paese. Visti con sospetto, gli idranti, prefigurano forse un aumento della popolazione? I monroviani non gradiscono. Bastano quei 1.400 che contano il doppio per corporatura e per età, tanto che la cerimonia massonica sembra la ricreazione di una casa di riposo. Si conferisce la medaglia d’oro a un uomo incerto sulle gambe, tremolante, insignito per meriti passati, tutto in una stanza spoglia, tra grandi dichiarazioni di fedeltà alla Loggia. Twin Peaks. Ecco la donna del ceppo, l’indiano stralunato in cerca delle sue origini, lo sceriffo, Dale Cooper sonnabambulo, spettri elettrici, mostri dell’aldilà. David Lynch è passato da Monrovia.
Questo Midwest, però, non è miserabile, Monrovia è florida e si vede dalle trebbiatrici splendenti, i mega-trattori, le macchine per innaffiare i campi, per imballare il fieno e per ogni cosa... è un’alacre fabbrica che sforna prodotti seriali, dalle polpette ai quintali di chicchi dorati. Tutti sorridono, arricchiti, l’occhio a Wall Street per le quotazioni in borsa del mais. Monrovia è uno stato mentale, dove non si parla di politica, almeno nelle dieci settimane di riprese. Un luogo privilegiato un po’ come Ebbing, Missouri. Il paesaggio gioisce sotto il sole per 143’, le pannocchie riflettono i raggi, tutto è perfetto a Monrovia. Se non fosse per l’ultima visita nello studio di un veterinario che decreta il genere horror del film, finito nel sangue di un cane boxer al quale amputano la coda in diretta. Non c’è modo di ripetere la scena, questo è “cinema del reale”? È come una partita di basket, lo sport cittadino? Ma no, è Frederick Wiseman, mai cosi emotivo e sarcastico, che - come faceva Rossellini - dalle indagini sulla realtà azzarda qualche risposta e ha chiesto al boxer di posare per lui, di farsi interprete degli orrori della città pro-gun e pro-God Midwestern. E ci manda una cartolina magnifica della provincia americana accompagnata idealmente dalla musica di Angelo Badalamenti.
Clint Eastwood profana il set con corpi reali in una replica vertiginosa della Storia. Tre soldatiamanti del selfie raddoppiano lo sguardo del regista e riprendono se stessi in quel momento e altrove, alle 15:17 sul treno Amsterdam-Parigi, 21 agosto 2015. C’è chi non vede la magnifica distrazione della macchina da presa, quell’andarsene di sbieco a inquadrare i gelati sontuosi di piazza San Marco, e si aspetta John Ford. Eastwood sperimenta invece l’estremo contrasto tra il reale e il suo riflesso, questione all’ordine del cinema, saggio teorico di Spielberg in Ready Player One.
Metamorfosi dell’evento eroico. Gli eroi sono in vacanza. Clint scarta l’immagine-movimento, l’azione è ai margini del campo. Un bighellonare alla ricerca di sé, detour e assenze, contemplazione di città invisibili come se fosse l’ultima visione. Un film flaneur. La recitazione dei tre marines nell’originale svela l’autenticità dei soggetti “presi dalla strada” e doppiati da se stessi, più veri del neorealismo. Il protagonista, Spencer Stone, è chiamato a trasferire sullo schermo l’autobiografia scritta con gli altri due commilitoni, Anthony Sadler e Alek Skarlatos, che quel giorno viaggiavano sul treno Thalis 9364. Sulla strada della memoria, la macchina del tempo risucchia il passato e lo riconsegna brillante e fresco per fiancheggiare i vivi.
Via la 44 magnum, si viaggia in giro per l’Europa, capitale della storia, Roma, Venezia, Berlino, Vienna... esterni giorno e interni notte nelle piazze e nei musei, nei pub e negli ostelli. Tre americani a Parigi. Divagazioni e premonizioni sull’esistenza che avrà pure un senso. Flash-back di Spencer & Co. scolari indisciplinati, banda a parte e nessun segno di eccellenza. Anzi. Spencer, il ragazzone di Sacramento, non passa l’esame per entrare nel reparto di soccorso aereo perché non ha il senso della profondità. Non ha prospettive. Non sa calcolare la distanza tra sé e il mitra impugnato dal terrorista, e il mirino di Eastwood misura campo lungo e piano americano per stabilire il giusto spazio, mentre la realtà fa inceppare il fucile d’assalto di Ayoub El-Khazzani.
Copia fantasmatica di sé, Spencer si muove nel labirinto temporale del film, e come il sergente Will James in The Hurt Locker smonta i dispositivi di morte e tampona con due dita l’arteria del ferito che zampilla sangue. I marines guardano scorrere il flusso dei paesaggi indifferenti inquadrati nel finestrino, ma non è tempo di osservare la realtà che passa. Movimento per cambiare fatti e cervelli, The 15:17 to Paris interviene per deviare l’inevitabile, per sistemare i fatti come nel West marcio di Unforgiven o a Iwo Jima grondante lacrime nemiche o nelle parate patriottiche dei “nostri padri”. Cavalieri pallidi e solitari, individualisti democratici entrano in azione. È il cinema che si rifiuta di starsene a guardare e ingaggia un corpo a corpo con quel che accadde, si sovrappone, immagine su immagine, alla verità.
Stupefacente Clint, repubblicano, che a mo’ d’esempio scrive sulla lavagna scolastica di Spencer, Anthony e Alek bambini, il nome di Franklin Delano Roosevelt, l’uomo del New Deal, quello che sapeva “aggiustare le cose”. E se necessario violare le leggi. Come Lincoln che comprò qualche congressista pur di abolire la schiavitù, come Spencer Stone armato di una penna biro contro i terroristi, e come Dirty Harry, convinto che la giustizia sostanziale valga più della legge.
Vive nel mondo postgenere, non ha un sé originale né una storia, non ha un Eden da ricordare né memoria del cosmo, non rimpiange la famiglia organica, l’oikos... è Okja.
Sintesi di un’epoca e di un cinema “disumani”, la creatura di Bong Joon-ho è il meraviglioso atlas della geografia interconnessa di corpi inessenziali, fantasmatici, eppure pieni di desiderio. Forse inconsapevole, il regista di Taegu ha messo in scena il sogno di Donna Haraway, filosofa, e il suo manifesto cyborg. Corpo materico, corazza prodotta in serie, modello ippopotamo/maiale/cane, sguardo adorabile, Okja è una femmina di superpig, prodotto da una immaginaria multinazionale sudcoreana, la Mirando Corporation (alias Monsanto), boss una Tilda Swinton estremamente pop e crudele, figlia dell’inventore del napalm, memorabile per aver imbrattato le pareti della sua fabbrica di sangue operaio. Più che metafora, cronaca.
Alterata l’alchimia cellulare della bestia ogm, che come il mostro di Mary Shelley, chiede di essere amato e non di “sfamare il mondo”, Bong Joon Ho ha voluto Okja come risultato benefico di una manipolazione malefica, al contrario dell’anfibio mangia-uomini di The Host.
Gli incroci di senso si infittiscono nella relazione simbiotica tra la ragazzina Mija (Ahn Seo-hyun) e la bestiona cresciuta libera tra le montagne verdi, esperimento che genera non solo un magnifico esemplare da esposizione, ma il mix inscindibile animale/essere umano/macchina. Okja è un super maiale senziente nato due volte, nei laboratori Mirando e Netflix. L’azienda via internet, produttrice del film, ha negato al regista il 35mm e imposto il 4K, giustamente. Cos’è Okja se non l’avamposto dell’immateriale che pretende di scorrazzare tra i boschi, “pesare” (tonnellate) sul mondo analogico, e ritagliarsi un posto tra i viventi? Non c’è più frontiera ormai tra natura, umana e animale, e artificio. “Le nostre macchine sono stranamente viventi - scrive la filosofa americana - e noi, noi siamo spaventosamente inerti”. Vivacità del non-essere, del robot intelligente senza padri e dal sesso cangiante. L’aberrazione estrema sta nel fatto che il bestione di pixel si può riprodurre, e li vedremo i piccoli nati da genitori senza carne né sangue ammassati nel tetro mattatoio dove il superpig verrà macellato, sequenze conturbanti nel buio dei recinti, in attesa che la pistola spari nel cervello di tanti Okja. Visioni perverse da Alberto Grifi con le sue mucche sacrificate e da John Berger con il suo abisso che separa noi dall’animale, improvvisamente vanificato da Bong Joon-ho in quell’intimità transumana che fa strofinare la piccola Mija al “drago riluttante” disneyano.
C’è una promessa d’immortalità nel film in concorso a Cannes 70 e accolto da una selva di fischi per la perfetta distorsione con il quale è stato proiettato per 8’ prima che il proiezionista si accorgesse del formato sbagliato. Segno di una confusione concettuale, non solo tecnica - dallo schermino web al grande schermo - e di una indecisione sul come trattare l’ibrido assoluto Okja, un po’ il Totoro della Ghibli, simbolo del cinema Netflix, al centro di polemiche per la destinazione on line del film e la mancata anticipazione nelle sale francesi. Non che meritasse la Palma d’oro, ma l’anatema del presidente della giuria Almodovar ha confermato l’eccezionalità culturale del superpig, lasciato correre a travolgere ogni cosa nei vicoli antichi della moderna Seoul e poi nell’aeroporto tra cacciatori metropolitani e ineffabili animalisti, a testimonianza della sua esistenza. Mastodontico virtuale, “creatura da compagnia”, destinato a fare spettacolo sul palcoscenico di New York, in memoria di King Kong. Vittima la bellezza selvaggia e libera ai tempi di Cooper e Schoedsack, e ora specie da proteggere, specchio della metamorfosi che ci accompagna.
Fluidi notturni plasmano persone che vengono da Marte, su una barca che trasporta migranti, anzi clandestini, tanti senza nome e senza faccia, ed ecco nascere Ayiva come se fosse un corpo scavato nei fotogrammi. Il vero sbarco, la vera paura si rivelano lontano dallo spazio-tempo di Rosarno. Succede che la realtà storica si allontani, non siamo in un documentario e neppure in un docu-drama, ma nell’emozionante e favolosa storia di un burkinabé sintonizzato per immagini con Jonas Carpignano, trentenne debuttante con i capelli rasta, un po’ delle Barbados un po’ calabrese. Il regista venuto dal Bronx (e da un illustre padre potop, Paolo) si è sdoppiato nel ruolo dell’ospite e dell’ospitante, si è mimetizzato con Ayiva, ma anche opposto allo straniero in un gioco di controcampi.
Sarà questo che fa di Mediterranea un genere speciale di indagine su quelli dell’altra sponda, le sagome nere che scendono sul molo in ogni tg, sconosciuti, gente senza vita se non nel tremolio delle telecamere e nei bagliori luminescenti delle onde tombali. E invece è qui Ayiva, e si muove in equilibrio perfetto dentro lo specchio visivo che Carpignano ha creato in mesi, anni di condivisione con quelli di Rosarno.
Il film è passato alla Semaine de la critique di Cannes 2015, primo lungometraggio dopo i corti premiati a Venezia e a Cannes, e segue l’esperimento di A Chjàna, diciannove minuti sempre con Ayiva, che insieme all’amico Abas viene dal deserto, a piedi, sotto il sole e il gelo della notte, ombre in cammino verso la Libia. Saranno aggrediti da uno squadrone di uomini armati prima di approdare sulla costa e imbarcarsi sul gommone pericolante senza nemmeno il famigerato scafista. Nessuno vuol rischiare di andare a picco, tranne Ayiva, “ma in Burkina non c’è il mare”, e che importa, il marinaio di terra va.
Carpignano non spreca fotogrammi, fiancheggia i due, gli sta addosso fino a Rosarno nei campi di arance. Attenti a tagliare corto il gambo, li avvertono, altrimenti il tronchetto buca i frutti nella cassetta, e non ti pagano la giornata. Sembra di stare in quelle pubblicità radiose dove i contadini saltellano felici tra i filari e riempiono i cesti... E dove il “padrone” è un tipo comprensivo, accogliente, come quello di Ayiva, “gran lavoratore”, invitato a cena insieme alla famiglia, dove una bambina punzecchia l’ “uomo nero”, e sembra di stare alla tavola di Django, prima del massacro. Niente permesso di soggiorno, papà Ayiva non potrà vedere la sua piccola che balla in diretta skipe... Il compassionevole datore di lavoro glielo nega e gli dà lezioni su come fare fortuna con l’aiuto dei goodfellas, della “famiglia”, al pari di suo nonno emigrato in America. Già. I bravi ragazzi di Rosarno hanno le spranghe e ci portano fin dentro il Distretto 13, le brigate della morte, carpenteriana tensione che lievita nei labirinti fantasma, contro i fari accecanti delle grosse auto, ragazzi incappucciati, sprangatori, sessualmente rapaci, e non siamo a Colonia. Addio a “mamma Africa”, ottantatreenne signora della Caritas, la 'ndrangheta scatenerà la “caccia all'immigrato”, fuoco ai rifugi, pestaggi, pallottole ad aria compressa. Due saranno uccisi. Accadde nel 2010. Carpignano riprende la rivolta degli immigrati, la furia dell’amico venuto da Ougadougou, il sangue dell’altro. E ancora tutto sembra ripetersi in un loop infinito, oggi Ayiva è sceso dalla barca e domani scenderà ancora, e qualcuno lo ucciderà un’altra volta.
Forme di acquarello in dissolvenza incise su carta di riso, fluttuanti e irrequiete, La storia della principessa splendente (Kaguya-hime no monogatari) cattura i fantasmi della favola millenaria (Il tagliatore di bambù) e li sospende in una spazialità senza limiti, i contorni in continua fuga nella zona bianca del non-essere. Un limbo candido dove l’immobilità del segno è scosso da vibrazioni acustiche e sensoriali. Ideogrammi del X secolo macinati al computer da Isao Takahata.
Evoluzione di un germoglio di canna e di una bambina in miniatura coperta di broccato rosso che cresce miracolosamente nel palpitare delle linee aperte. Un Voyage dans la Lune in senso inverso. Kaguya scende dal globo luminescente per sottrarsi al cerimoniale divino, svincolarsi dal tempo eterno e provare l’ebrezza del vento e delle stagioni, per vivere. Ma tra cielo e terra, irrealtà e materia, c’è solo un’esile barriera. Né l’aldilà né l’aldiqua garantiranno felicità alla principessa caduta dalle nuvole, circondata da bramosie sessuali, rapacità e aspiranti mariti insulsi e coronati ai quali chiede pegni d’amore introvabili: la sacra ciotola di Buddha, il ramo di un albero d’oro, la pelle di un topo di fuoco cinese, il ciondolo di un drago, la conchiglia nascosta nel ventre di una rondine.
L’inchiostro di china torna a recintare l’immagine, la zona bianca si restringe. E alla ricerca della frattura tra sogno e il suo rovescio, flebile passaggio di libertà, fuori dalla tradizione e dal presente, Takahata si allontana dalle tante versioni della fiaba ispiratrice di manga, videogiochi e serie tv.
Il film si inchioda nello sguardo perduto di Kaguya che esita a salire sul carro sontuoso venuto a riportarla nell'astro natale, quando nel testo originale, delusa dagli uomini, aspettava con trepidazione gli esseri celesti. Ed è in questo fermo immagine che l’animatore giapponese trova - sequenza spumeggiante di trasparenze e scintillii d'oro – la via per demolire il mito, e le principesse smorfiose di Frozen. L’incanto dell’impossibile che avrà luogo.