"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
A di là della prospettiva ludica che ormai accompagna ogni film di Zahler al suo annuncio - tutto quell’apparato plastico, splatter, come una fermentazione della materia cinematografica secreta, spruzzata, esplosa fuori dalla sua forma (come dimenticare il trascinarsi e consumarsi delle teste di pupazzo sul pavimento in Brawl In Cell Block 99 o lo svuotarsi del corpo, lo spreco così posticcio delle viscere gommose del vicesceriffo in Bone Tomehawk?), e l’avventura dentro gli spazi del genere, il consumo immediato che se ne possa fare - il cinema di questo onnivoro modulatore di trame (comprendendo anche i romanzi, le sceneggiature per altri registi e le musiche per i suoi film), a uno sguardo più attento, mostra una tensione spiccata verso delle resistenti strutture di immaginazione, delle forme di rappresentazione durature che si organizzano intorno al concetto, alla percezione del tempo e fungono da contrappeso (oltre che da contenitore) a quella pratica di consumo tutto intestino, in nome di un equilibrio del film che, ora che è passato anche Dragged Across Concrete a Venezia, si può considerare propriamente zahleriano. Cioè quel bilanciamento tra azione (così immediatamente consumabile, ludica) e pervicace dilatazione del tempo - atta ad assorbire proprio quell’attività, quella violenza delle sagome e il loro deteriorarsi alla fine (spesso fervendo, sbottando di sangue), quello sfarinarsi dei personaggi - che rende possibile la variazione tutta zahleriana sul cinema di genere: dal western, al film carcerario, fino all’ultimo poliziesco, che è un’Arma letale ricomposta, anzi forse ripresa da dove si era interrotta, usando come perno, come addentellato un Mel Gibson-Martin Riggs stanco, invecchiato, incanaglito. Una variazione sul tema, sul genere, che si rivela dissertazione sul tempo (tra le più serie e sorprendenti del cinema contemporaneo), nel tentativo di mostrarne l’essenza, il corpo nudo, cioè un suo materiale spessore, e la sua concreta applicazione nella narrazione per immagini, che allora diviene una qualche slegata (dal filo del racconto), slargata, contemplazione dell’immagine. Si tratta di guardare il tempo, la sua durata, nel corso di un film di genere: Dragged Across Concrete è forse il dispositivo di scandaglio del tempo più trasparente dei tre film di Zahler, in cui l’azione è frammezzata da ampie sequenze di mero brulicamento cronologico; tutto un vagare lento, denso, un girare a vuoto del furgone che poi sarà una cella, un abitacolo di compimento, di concentrazione immaginifica; tutta un’attesa dell’azione che poi giunge, ultraviolenta a disperdere, dissipare corpi, materia cinematografica sacrificata per gioco, un gioco anche crudele, sadico, se si pensa al sacrificio organizzato per Kelly (Jennifer Carpenter), l’attesa appunto, i preparativi della cui uccisione sembrano essere gli stessi per quella, scioccante, della bambina in Distretto 13. Eppure, a conferma di un cinema profondamente polarizzato (tra gioco e serietà, azione e tempo, consumo e resistenza) c’è un senso definitivo, doloroso di perdita intorno alle morti cinematografiche di Zahler, direttamente proporzionale alla disillusione da cui sono abitati tutti i suoi personaggi: un offrirsi consapevole e stoico al loro destino di scomparsa, di cui è perfetto compimento Ridgeman, così amaramente conscio della propria identità di personaggio, e di dover soccombere alla macchina filmica. Che del resto procede inveterata, prendendosi il suo tempo (anche Dragged supera le due ore di durata), declinandolo in continuazione, e mostrandolo, all’interno di un diagramma filmico che prevede dei posti di sosta, le varie, dense tappe che il film segue già dai tempi di Bone: una vera e propria topografia, una mappa del tempo (che ovviamente ha bisogno dello spazio per essere, quindi di queste soste), fino al luogo di sedimentazione finale, la meta di tanto peregrinare, in cui la vicenda si risolve, cioè trova la propria condensazione, consacrazione plastica. In Bone, dopo il lungo percorso nel deserto, nell’alternanza spossante di giorno e notte in cui il tempo si cristallizzava in sfondi di polvere, era la grotta con al centro la brace dove i personaggi venivano macellati; in Brawl, seguendo la cartografia minuziosa di un mondo progressivamente claustrofobico, ctonio, da una prigione all’altra, loculi accavallati l’uno sull'altro, si configurava come la cella 99, forse il più puro di questi spazi di culmine zahleriani, galleggiante non si sa dove nell’edificio di massima sorveglianza: qui, in Across, da strada a strada, tra appostamenti, irruzioni, inseguimenti inconcludenti e per questo appunto rivelatori di tempo, è lo spiazzo davanti a un deposito in cui si ordinano - in una coreografia specifica, di proiettili, sventramenti, sacrificio di corpi - l’auto di Ridgeman e il furgone blindato, capovolto, a definire proprio una prossemica di questo topos zahleriano, luogo di compimento, di addensamento dell’immaginazione, così in balia del tempo.
Al secondo film S. Craig Zahler tiene duro e resta considerabile una scoperta assoluta. Non c’è da stupirsi che sembri muoversi con velocità e come in preda a un vero e proprio fuoco realizzativo (in arrivo già il film successivo, un poliziesco con Mel Gibson, Jennifer Carpenter, Don Johnson..), né che certa compattezza e addirittura simmetria nella coppia di film diretti finora (l’esordio luminoso Bone Tomahawk e questo corrusco livido Brawl in Cell Block 99) venga scambiata per arte mimetica o, peggio, per ritorno omaggiante all’arte di genere (grindhouse). È d’altra parte l’unico modo per spiegare l’altrimenti inspiegabile. Intanto il trasporto addirittura fisico con cui Zahler sembra aver interiorizzato – nel fraseggio, nel posizionamento dell’occhio, nel modo in cui costruisce tempi e spazi – una linea che va da Howard Hawks a Don Siegel a John Carpenter (forse anche a Hill, forse anche a Joseph H. Lewis). E come lo faccia senza ergerli a funzioni filmiche esplicite (come farebbe, peraltro sicuramente con sapienza e splendore, un Tarantino, da cui, ripetiamolo, differisce completamente). No, per Zahler questi nomi e numi sono ariose e spesso violentissime circolazioni amorose che lui riduce all’osso, agendole per quello che sono, ossia la base, il fondamento, la radice del cinema americano. Non c’è bisogno per esempio di spiegare o dire più di quel che già si vede perché il mondo in cui si dipana il trapasso sacrificale di Vince Vaughn (completamente trasformato rispetto al passato – True Detective e Hacksaw Ridge a parte: calvo, con una croce tatuata sul cranio, glaciale, fatalista, malinconico, uno che ne ha viste troppe, uno che quasi implora il resto del mondo di non provocarlo perché sa cosa sarebbe capace di fare, perché sa cos’è il luogo impossibile in cui l’amore coincide con la psicosi) è chiaramente lo stesso mondo attonito e posto sotto il giogo di qualcosa di imponderabile del Carpenter di They Live (e d’altra parte all’inizio il West filmato in Bone Tomahawk mostra le medesime caratteristiche), crisi economica e disoccupazione comprese. Ecco allora questi tempi sfilacciati, sospesi, questi sguardi misteriosi da un finestrino all’altro dell’automobile, lanciati distrattamente su un junkie seduto alla fermata dell’autobus.. Sono inquadrature e nulla più, magari più lunghe del necessario, spazio vuoto e tempo svuotato, deriva interna all’immagine stessa, mentre tutto intorno il cielo illividisce e le crepe nel corso apparentemente segnato della narrazione la conducono invece e segretamente (con quale maestria) verso l’esito più grandguignolesco e insieme fatto della fredda materia d’ogni destino fatale. In questo Zahler è l’esatto contrario del grindhouse anni settanta. L’ultraviolenza del finale è nient’altro più di quel che significa narrativamente – ossia la scelta estrema di un uomo messo in una situazione estrema – senza alcun compiacimento o gratuità, rispondendo unicamente a un fattore etico. Ovviamente un’etica costretta a ripensarsi come segno fisico dell’eccesso: ma, per capirne le ragioni, basterebbe ricordare l’eloquente scena iniziale quando Vaughn/Bradley scopre il tradimento della moglie (Jennifer Carpenter) e, cosciente della rabbia che lo sta per far esplodere, la fa rientrare in casa e sfoga tutto il suo dolore distruggendo l’automobile di famiglia, scegliendo responsabilmente di non toccare la donna nemmeno con un dito; sequenza che fra l’altro permette allo spettatore di accettare la follia del medico coreano che più tardi, quando la moglie di Bradley incinta verrà fatta prigioniera, si dirà capace (è Udo Kier, grandissimo, a recapitare pazientemente il messaggio) di mutilare il feto delle braccia mentre ancora è nell’utero lasciandolo in vita e dunque di farlo nascere così, con due moncherini. L’architettura dell’immagine è a sua volta secca, plumbea, grandangolare (qualcuno, non lontano dalla verità, ha parlato di cura o istinto kubrickiani), attenta a non falsificare i fatti col montaggio, pochissimi tagli e solo quelli necessari a ricordarci che un film (o che il cinema americano che amiamo) non è fatto di cuts ma di piani (plans).
Quattro uomini a piedi punteggiano i grigi bruni di un deserto sassoso. Le camice bianche inamidate sempre più sporche di polvere. Uno di loro zoppica pesantemente, ferito a una gamba. Un altro, la stella da sceriffo appuntata sul panciotto scuro e un’elaborata barba grigiastra, sa di aver intrapreso una missione ingrata. Il suo vice è un vecchio che parla troppo. L’ultimo è un pistolero con la pelle alabastrina striata da baffi nerissimi, che ha giurato morte a qualunque indiano incontri sui suoi passi.
Bone Tomahawk, un western che apre in un paese sonnolento, da cui vengono rapiti una donna, un carcerato e un secondino, e culmina, più di due ore dopo, in una caverna di cannibali, decorati e armati di ossa umane (si rivelano taglientissime) - come i marchingegni che si inseriscono nella trachea per produrre ululati metallici che gelano il sangue. Ma di che tribù fanno parte? “Trogloditi, anche se per voi bianchi saranno indiani come tutti gli altri”.
Tra la frontiera boriosa e inutile del revenant di Inarritu e quella archetipa, repackaged via Agatha Christie, di Quentin Tarantino, è arrivato a sorpresa, a rinvigorire il genere, questo piccolo film - un’alchimia di splatterpunk e Howard Hawks, Sentieri selvaggi e Le colline hanno gli occhi.
Scritto, diretto e musicato (insieme a Jeff Herriott) da S. Craig Zahler, Bone Tomahawk (1.8 milioni di dollari, girato in 21 giorni) è un primo film ma non arriva “dal nulla”. Zahler (1973, Miami), infatti, ha già scritto parecchie sceneggiature (opzionate ma non ancora prodotte, ad eccezione di Asylum Blackout, una coproduzione USA/Francia/Belgio) e alcuni romanzi, tra cui un noir molto bello e sadico, con un indimenticabile finale nella neve Mean Business on North Ganson Street (sarà un film WB) e due western, A Congregation of Jackals e Wraiths of the Broken Land.
Allucinata, cruentissima, cronaca della missione oltre il confine di Peckinpah e Aldrich, per salvare due sorelle vendute a un bordello messicano (nelle primissime pagine del libro, una, incatenata a un letto è già senza un piede, l’altra schiava del laudano), Wraiths è la matrice da cui Zahler ha tratto la sceneggiatura di Bone Tomahawak. Un’analoga rescue mission, ma più contenuta, adatta a un film a piccolo budget.
Abile nelle descrizioni, tratteggiate a pennellate sicure e molto vivide (tra i suoi fan anche Joe Lansdale e Walter Hill), quasi già distillate per il cinema, sulla pagina Zahler è forte soprattutto con personaggi, che prende e riprende nel racconto, scavandoli a forza di dettagli e piccole scene che li rendono indimenticabili. È con la stessa cura, in una progressione naturale, che si entra nel mondo di Bone Tomahawk .
Un cimitero dissacrato da due criminali vagabondi (David Arquette e Sid Haig) è l’elemento scatenante. Kurt Russell (qui molto più carpenteriano che in The Hateful Eight) è lo sceriffo Hunt, Patrick Wilson il marito zoppo della donna rapita. Matthew Fox il pistolero dandy e Richard Jenkins l’anziano “deputy”. Per farci trascorrere più tempo con loro (senza sforare con il budget) Zahler escogita un furto dei cavalli. E il film diventa ancora più minimal - quattro uomini appiedati, costretti insieme dalle circostanze, i loro fantasmi, e il pericolo che li attende. “C’è qualcosa di molto americano in questo film, che amo”, aveva detto John Carpenter, a Torino, anni fa, presentando Rio Bravo. È quella stessa “americanità”, priva di orpelli, antieroica, quasi malinconicamente matter of fact, tarata su un comune senso del dovere, dell’onore, della decency e dello humor, che attraversa questo film e i suoi personaggi. Diversamente dagli odiosi otto di Tarantino, gli uomini e la donna di Bone Tomahawk non portano sulle loro spalle il peso della storia, del mondo e del cinema. Sono solo se stessi. È la stupenda fragilità di questa loro leggerezza che li rende vicini. Che fa sì che i loro destini ci tocchino quando Zahler (povero di mezzi ma non di idee: “The Revenant è il peggior film che ho visto negli ultimi cinque anni - vuoto, tremendo e didattico”), inscena l’incontro con i trogloditi. Violento, scioccante e matter of fact anche quello.