"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Arturo Lima

Sunday, 07 June 2020 20:35

Camera verde per Ōbayashi Nobuhiko

L’idea di labirinto non si limita a depositarsi  nel titolo -  Labyrinth of Cinema - dell’ultimo film di una delle figure più atipiche della storia del cinema giapponese. Ōbayashi Nobuhiko, cui tre anni fa venne diagnosticato un cancro terminale e pochi mesi di vita, ha probabilmente tratto l’energia necessaria a contraddire la ferale previsione dei medici dalla concezione stessa della sua opera -questa sí - tutta contenuta nel progetto con cui da tempo aveva deciso di salutare le nostre rive terrestri altrettanto in cattiva salute. E come sempre accade a chi, non visto, nel labirinto suo proprio ha lasciato negli anni cadere le molliche di pane necessarie a ritrovare la strada, il ritorno a casa non è solo flusso autobiografico né solo ricognizione pirotecnica che mostra l’entrata di molti altri labirinti suoi simili (in questo caso quelli di una storia possibile del cinema giapponese), ma suo malgrado generatore di autentiche profezie. Ōbayashi Nobuhiko torna dunque a casa, in quella piccola città di nome Onomichi in cui per tutti gli anni sessanta aveva girato i suoi primi film, prima secondo un percorso diaristico quasi mekasiano, poi via via esplorando con particolare carica inventiva certe vie underground delle nuove ondate giapponesi e, non contento, gettandosi per qualche tempo a capofitto nella sperimentazione pubblicitaria per arrivare, nel 1977, al celeberrimo fantahorror cui tutti devono qualcosa, quell’House che ancora oggi sembra un misto inspiegabile di Rybczyński e Raimi. L’idea è che a Onomichi sta per chiudere l’unico cinema locale e che lo stia per fare con una maratona di film di guerra giapponesi e che nella sala convergano uno dopo l’altro - anfitrioni e Caronti del pubblico di abitanti di Onomichi presente in sala - la seguente massa di fantasmi fluttuanti: una ragazza adolescente forse già morta, un viaggiatore nel tempo, un fanatico cinefilo, uno yakuza, un ragazzo semplice capitato lì per caso (forse alter ego di Ōbayashi stesso) che guarda caso si innamora della ragazzetta zombie inseguendola dentro lo schermo dove tutti vengono risucchiati, proprio come i giovani protagonisti di Ōbayashi raccontavano i loro primi amori nei corti sperimentali degli inizi. Ōbayashi, scomparso mentre noi tutti eravamo in quarantena, fa un film che potrebbe essere appunto girato la sera prima dell’apocalisse. L’ultima notte è una discesa folle e follemente verticale nella storia del cinema giapponese fino alla deflagrazione dell’atomica. Tutto è permesso, qualunque tecnica cromatica classica digitale e avant-garde. Qualunque addio, qualunque citazione, qualunque dedica. Serie infinita di haiku. Il Giappone imperiale. La Restaurazione Meji. L’invasione della Manciuria. La nascita del cinema. La Seconda Guerra Mondiale. Keisuke Kinoshita, Ozu Yasujiro. Bobine che si accavallano. Muto e sonoro. Una specie di histoire godardiana a-sintattica, convulsa, che  non sceglie nemmeno i film propriamente più belli, in cui a un certo punto Ōbayashi si traveste da John Ford ma solo come ulteriore sberleffo. Il cinema cola a picco mentre vorrebbe essere in una volta sola tutto il cinema possibile. Ed ecco, inesorabile, l’esplosione che spazza via e lancia verso il futuro la storia. Ecco Ōbayashi, come un novello Benjamin, salutare il suo pubblico così: “un film può cambiare il futuro, se non il passato”. 

 

 

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