Chi vivrà vedrà
Arturo Lima
Sembra che Jim Cummings nella sua giovinezza abbia letto a più non posso William Faulkner. Non che questo ci dia un particolare indirizzo di lettura su questa strana creatura borderline che comincia a dirigere film per caso, per vedere se è capace, e a esserne il protagonista per gioco mentre nel frattempo si ostina a infestare l’Internet (area letterbox/reddit) con feroce bulimia. Certo, c’è il masochismo delle dichiarazioni, l’isolamento, la schizofrenia del suo alter ego… Diciamo che, per uno ossessivamente collegato alla rete, il fatto che poi diriga film duri e omogenei, dove la crepa della follia non riguarda la messa in scena (adrenalinica e grottesca, mai cool) ma la caduta nell’abisso di un personaggio, rende più coerente, nel lavoro di questo grande incosciente, l’amore per Faulkner. The Wolf of Snow Hollow prosegue (dopo la sorpresa Thunder Road e in attesa di The Beta Test) la lista di mad cops cui Cummings presta il volto. Più che mad, psycho però, nevrotici assoluti che assorbono come spugne le nevrosi che li circondano (luoghi sull’orlo di una crisi cosmica: Texas, Utah, Hollywood…). I film stessi ne risentono, fuori controllo e disarticolati, nascono giusto prima dell’urlo liberatorio (che peraltro non porterà a nulla se non a cadere ancora più in basso e a perpetuare il dolore). Si ride? Si. Ma di una risata ghiacciata, maledetta. Cummings ha questa perversione voyeurista di osservare qualcuno andare in pezzi, all’improvviso, e poi di rincorrerlo in una escalation senza vie d’uscita. Con un piccolo stadio di perversione in più però, costringere lo spettatore a fare il voyeur del voyeur (anche qui senza vie d’uscita). E, come sa chi passa il suo tempo in rete, se fai troppo a lungo l’esperienza del vuoto il vuoto ti appartiene. Alla fine, che ci sia un serial killer travestito da lupo o un lupo mannaro che per davvero uccide le donne del paesino, è più rassicurante. Certo più rassicurante del poliziotto di provincia forse misogino forse no (ma neanche seriamente, così, per nevrosi, si è detto) che perde la testa. Eppure come non provare simpatia per Cummings che lo interpreta così com’è, instabile e perennemente vicino a esplodere; o per il fatto che fa recitare un’ultima volta l’immenso Robert Forster con fattezze simili agli altri due ruoli finali in Breaking Bad e Twin Peaks: The Return (è suo padre, l’anziano saggio sceriffo, verso cui ovviamente ha un mostruoso complesso di Edipo). C’è anche un omaggio agli anni ’80 (John Landis, Stephen King), ma non è importantissimo. Più interessante come non ci si possa ritrarre dall’ammirare tanta rabbia non incanalata o incanalata male, poco ironica e molto schizoide. Questa frontalità è la sua marca filmica, o qualcuno potrebbe dire la sua ottusità. Entrambe le verità vanno a comporre l’ipotesi di uno sguardo, che sembra crescere con tensione non usuale. Chi vivrà vedrà.