Lo spettro e lo spettatore
Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito
Per Tsukamoto l’erotismo – più volte dichiarato e sempre anelato – nasce e rinasce da un eccesso anatomico che è al tempo stesso un’apocalisse di spettri, forse il loro affollamento definitivo. Tutto è metallico certo, ma solo se e in quanto rivolto all’interno, con una foga paurosa si guarda dentro se stessi scavando nell’anima, anzi alla ricerca dell’anima. Non potendo o non volendo sapere se si muove nell’ombra o nella luce, lo spettro (e il fuori fuoco) coincidono con la mutazione stessa, e coinvolgono tutto: corpo umano e cinepresa. Perciò in Hokage tutta la prima parte del film è chiusa in un antro sordido sudato violento, l’interno prelude all’uscita nella luce abbacinante e agghiacciante del Giappone ridotto in macerie. L’aria sembra fatta di una materia sottilissima che strozza: Pioggia nera + Germania anno zero, Imamura + Rossellini, senza giri di parole. La bomba è ormai parte dell’atmosfera, ma in qualche modo viene generata da altre profondità, forse è l’anima stessa dell’immagine. Così il bambino di Tsukamoto, la sua versione dell’Edmund di Rossellini, invece di lasciarsi cadere da un palazzo sventrato, svanisce nel fuori fuoco, risucchiato nel vociare sordo di un mercato post-atomico. La ragazza e il soldato invece, sono davvero la prostituta e il fantasma, e lo spettro assume un’ultima carnalità in quanto probabilmente pura proiezione dell’inconscio o lucida follia della ragazza. Ma ciò che crede e ha bisogno di vedere lei è di fatto ciò che crede e ha bisogno di vedere lo spettatore: questo è il vero sogno di Tsukamoto, appiccare il fuoco alle ombre e trasformare tutti gli spettatori in spettri.