À rebours
Lorenzo Esposito
Il corpo dell’immagine. Ecco qualcosa che tutti cercano (o si immaginano, o sognano), ma che sfugge a qualsiasi defiinizione non supportata da esempi specifici. Eccone ben tre. Corti e cortissimi. Che, anzi, proprio nella forma breve individuano il piano inclinato in cui far convivere quel movimento compresso ed elastico, imploso e deflagrato che forse costituisce il misterioso corpo dell’immagine.
Insomma, si tratta di tracciare i confini di una nervatura invisibile, convogliare l’elettricità di un mutamento sussultorio e continuo, esporsi a una sovraesposizione accecante, ma allo stesso tempo tentare l’inserimento nella piega che scivola fra due ombre, in cerca della zona opaca, del margine insepolto dell’immagine.
Filmare l’infilmabile, ecco di che si tratta. Curiosamente, per tutti e tre i film, il punto di partenza di questa operazione impossibile restano i corpi veri e propri, un bilico necessario al ritrovamento di fisicità, flagranza, possessione. Per questo, come in Yolo di Ben Russell, quel che si pensa essere il proprio film, si scopre essere opera collettiva (filmata nel lontano Sudafrica con il collettivo Eat My Dust), un mash-up capovolto, dettaglio di un dettaglio filmato da altri e visto all’incontrario, a testa in giù. Il cielo al posto dei volti, facce al posto delle nuvole, dialoghi spezzati presi alla fine e in cerca dell’inizio, il centro celato di questa regione sconosciuta (ancora e sempre Michael Snow docet). E tutto come se fosse la prima e ultima volta, l’immagine dipanata in filigrana e insieme distorta, deragliata, un lampo filmato da uno, nessuno e centomila cineasti. “Oh humanity, You Only Live Once!”, così chiosa Russell.
Se poi i corpi sono nudi, allora l’astrazione avverrà sul corpo stesso della pellicola, lavorata in modo che perforazioni e penetrazioni, pelle nuda e pelle di celluloide, diventino un corpo unico, altrettanto insondabile, sonoro, eccitato e sovraesposto frame by frame, incollato e strappato, appunto surrealisticamente squisito (e qui Maya Deren docet). The Exquisite Corpus monta, ma sarebbe meglio dire cerca un ritmo, una sequenza inconsueta, nelle variazioni hard e soft core o di semplici film nudisti di cui viene estratto e manipolato il footage. Procede per immersione, comincia con un semplice film nudista e lentamente si avvolge su se stesso, fluido e vertiginoso insieme, riavvolto nella sua stessa grana, fino a filmare una sorta di erotismo della pellicola più ancora che i lampeggiamenti hard che si sovrappongono con veemenza fino all’accecamento (non so se Tscherkassky conosce Piero Bargellini, ma il riferimento non può non essere il capolavoro Trasferimento di modulazione).
Allora, cos’è più vero, il corpo umano o il corpo dell’immagine? Everson con It Seems to Hang On si avvicina al nucleo della questione facendo slittare il ritmo sovraeccitato e psicotico di due famosi serial killer (la cui storia è dunque vera) direttamente sulla struttura del film: singultante, asimmetrica, continuamente interrotta e raddoppiata, smarrita nell’ossessione, nella ripetizione, nel ghigno senza costrutto, rabbioso e impersonale. Loro uccidono, ma non vedono che così spazio e tempo prima si annullano e poi si incrinano, e alla fine non resta che un grido rivolto al vuoto. L’immagine è il suo stesso corpo separato, la ballata atonale di una spossessione.