"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Ancora una volta è Jean-Marie Straub, giustamente duro e giustamente caustico, a ricordarci che dopo l’era della riproducibilità tecnica, l’unico modo per avvicinare ciò che chiamiamo arte è nella non-riproducibilità (Renoir, sempre Renoir), cioè forse in uno spazio, tanto resistente quanto misterioso che si installa fra parola e immagine e il cui nome è lingua. Nuovo titolo: l’opera d’arte nell’epoca della sua ricerca di una lingua. Lingua significa qualcosa impossibile a dirsi diversamente se non come tale, la quale anzi, se fosse o se ambisse a diventare un linguaggio, se avesse intenzioni rappresentative (o, peggio, artistiche), sarebbe una lingua (e infatti oggi lo è sempre più) già del tutto compromessa.
Ecco allora le forze in campo: sceneggiatura come colata grafica, l’immagine come partitura della partitura, memoria puntigliosa del lavoro quotidiano, il cineasta che diventa pittore e musicista, il film come campo di battaglia che include due, tre, quattro versioni del film stesso (perché “Il n’y a pas une meilleure prise”). Oppure, semplicemente, il film installerà parte di sé. Come? Chiedendo a uno come Amir Naderi, che di scenari multiversi se ne intende, di andare a rifilmare ciò che rimane dell’ultimo rullo di una copia del MoMA di Lezioni di storia (con il dialogo da Gli affari del Signor Giulio Cesare di Bertold Brecht, quello dove risulta chiara non solo la natura truffaldina delle italiane genti, ma forse proprio la truffa insita, o il rischio di tradimento connesso all’intenzione artistica in sé). Dove? In una casupola, che sembra una cosa a metà fra una cappella e una cabina di proiezione, posta all’entrata del padiglione italiano della Biennale Arte 2015, aperta da ogni lato (perché in una sala cinematografica si può entrare, ma anche uscire), e in cui al loop del rullo in fin di vita o vivo per miracolo, fra salti della pellicola e definitivi scioglimenti del colore, risponde la recinzione sonora dei materiali (il dialogo brechtiano nell’originale tedesco) e quella visiva delle riproduzioni del testo lavorato alla loro maniera da Straub e Huillet.
Il problema, è chiaro, di questo Omaggio all’arte italiana! (prodotto dalla neonata Zomia di Donatello Fumarola e Alberto Momo insieme a Belva Film e Atelier Impopulaire) non è disquisire su cosa sia arte e cosa no, ma di ricostruire la nervatura del lavoro materiale e testuale del cineasta (compresa la successiva possibile degradazione, la quale ha a sua volta a che fare col supporto e col supporto del pubblico), ricostruirla fino a ridarne la cadenza profonda, conquistandogli quello spazio che, d’altra parte, ne è il carattere.
Allora, questo spazio, è ancora lo spazio del testo, o qualcosa di completamente inedito? E cosa rimane del cinema? Può addirittura partecipare al rischio atmosferico connaturato al filmare stesso? Può essere ancora come la nuvola, come il colpo di vento, come il sole? Può essere il colpo di dadi? Non è in fondo il testo, una volta, per così dire, estratto e ridotto all’essenziale, il luogo verso cui si deve ritornare, certo molto cambiati, ma sempre tesi al reperimento della materia all’origine? Come diceva Danièle Huillet: “È un dettaglio… ma non ci sono dettagli!”.
Nel 1902, dopo diversi viaggi in loco, Maurice Barrès pubblica La mort de Venise. Nel 2014 Jean-Marie Straub isola nove pagine e ne fa un film, À propos de Venise, con un lago al posto dei canali. Per entrambi, la Serenissima è già perduta nel '700, quando due “cariatidi” come Goethe e Chateaubriand la frequentano.
Tre punti nello spazio, ciò che resta di un movimento che immagino da sinistra a destra. Tre inquadrature fisse. 1) Un tronco d’albero sulla riva del lago. 2) Un grosso ramo che posa sull’acqua. 3) Una donna seduta, un microfono, un prato e il lago alle spalle. Il testo re-citato, le pause, le cesure: gli a capo corrispondono a precisi stacchi sull’asse. È un moto ondoso testuale, tipografico, che si lega a quello lacustre. Idea di ritmo e contrappunto: la massa d’acqua, la luce, le anatre, gli insetti, il testo. Tre inquadrature. Poi uno stacco, un blocco di nero, ci catapulta davanti agli occhi un’inquadratura di Chronik der Anna Magdalena Bach (1967): BWV 205, Zerreißet, zersprenget, zertrümmert die Gruft (Lacerate, devastate e distruggete la tomba). Con un ghigno selvaggio, Bach aveva composto il suo “dramma per musica” pensando a Virgilio e a Eolo, con i suoi venti distruttori. Sono loro che creano le onde? E cosa distruggono? (Trop tôt trop tard – 1982, due grattacieli gemelli riflessi nel Nilo si sfaldano nello sciabordio dell’acqua.)
Il recitato e l’aria di Bach sono posti in posizione inedita – dialettica. Si pensi a Proposta in quattro parti, Cézanne o al recente Kommunisten: è la stessa rigidezza del concetto di filmografia ad entrare in crisi. Logica dell’essai – non si tratta di trasgredire una forma, quanto di testarne i limiti, coglierne la dimesione prismatica verificandone le variabili.
Giocare la partita coi flutti, direbbe Mallarmé. Creare correnti sotterranee tra i film. Forse la storia del cinema non è altro che il processo interminabile di una “ricaduta” filmica simile al moto ondoso. Nulla è fisso.