Le mosse innovative
Roberto Silvestri
Quando Gagarin vide la terra da un punto di osservazione inusuale commentò: “È blu, è sempre più blu”. E allora capimmo che c’era del realismo profetico e cosmico, sia in Domenico Modugno che in Yves Klein. Ma si può anche andare indietro o di sbieco per aggiustare la focale di osservazione di una visione. Buñuel e Leonardo da Vinci. Pasolini e Masaccio. Pedro Costa e Cindy Sherman… Chi entra profondamente nella vita dei poveri, dei proletari, dei sottoproletari, non per questo si trasforma in un populista, in un apologeta reazionario del popolo doppiamente intrappolato, e felice di essere bastonato dallo stato o illuminato da dio. Affascinano le forme di resistenza di proletari e sottoproletari, di adolescenti o di “aliens” eccentrici o di “buoni malfattori” che si destreggiano nel loro contesto vitale e creare densità estetica dove bellezza non c’è, come direbbe Italo Calvino.
Impariamo meglio nelle periferie che istigano alla lotta per la sopravvivenza come approdare nella zona intermedia tra i dispositivi concettuali di resistenza all’ambiente sfavorevole e pratiche virtuosistiche di autoaffermazione just in time, quando l’attitudine innovativa prende già una forma poetica, anche se non si è pittori, musici o poeti in senso stretto. Ma malandrini, o inguaribilmente gagni, come si dice a Torino quando si intende maschietti, o boxeur più o meno suonati.
I ragazzi di João Salaviza, intrappolati in stanza perché bloccati ai domiciliari o sul terrazzo per scambiarsi droga o nel condominio (Arena avrebbe deliziato Roberto Farina, periodo Corviale), terrorizzati dal primo amore o dalla prima morte in famiglia, hanno debiti di riconoscenza con Truffaut dei 400 colpi? Con Fernando Lopes di Belarmino? Chi ispira Salaviza il meno dogmatico e cinefilo dei nuovi narratori visivi lusitani? Ora che il cordone ombelicale con il cinema da pesi massimi dei nonni e dei padri, di de Oliveria e Monteiro, che ancora affascinano Gomes e Rodrigues quando aspirano a immagini poderose e ingombranti, qui è proprio reciso, forse bisogna cercare altrove, magari in Don Siegel o in Pablo Trapero o negli urbanisti della scuola portoghese che fanno volare come fosse piuma il postmoderno, i riferimenti spaziali e ludici di Montanha, architettura complessa di movimenti mentali che danzano come in un arabesque di Busby Berkeley e sfondano qualunque stratificazione tettonica domestica. Ma senza esibire troppa bravura. Lasciando l’effetto shock in fuori gioco, nel fuori campo. Occupandosi di atmosfera. Il noir del Portogallo di oggi, prima del governo quadrangolare di sinistra Antonio Costa: un inferno. Lo sentiamo senza neppure vederlo. Pugno indiretto, dentro e sinistro. Come nello slogan di piazza Tahrir, a senso geografico, non ideologico: Destra e sinistra, la Rivoluzione avanza. Ostacoli di qua e di là si scavalcano. La periferia olivalense è stata per 600 anni un gioiello di urbanistica rustica. Negli anni ‘60 del secolo scorso barbari autoctoni salazariani l’hanno resa simile a Cinecittà o alla terrificante suburra della Londra Ken Loach o della Gomorra Matteo Garrone. Poi l’Expo ha fatto il resto, radendola al suolo e mangiando altri ettari del Parco delle Nazioni…Così la parola d’ordine è: rendere sicura l’insicurezza. Non è forse questo movimento d’avvicinamento che fa crescere dal campo lungo infantile al piano americano teenager al primo piano della maturità? Non è questo il piano sequenza fantasmatico che Salaviza controlla nella trilogia e nel suo seguito naturale, Montanha, anche se è costretto a riprendere scene che si svolgono dentro un corpo che balla solitario in discoteca a occhi chiusi o in un cavalcavia a 100 metri di distanza dove si tratta di biciclette rubate?
In una calda estate lisbonese David, 14 anni, terrorizzato dall’imminente morte del nonno, rifiuta di andarlo a trovare in ospedale con la madre, Mónica, e si barrica nel barrio periferico di Olivais, zona nord orientale della capitale, diventa l’uomo di casa, corre dietro a una ragazza della stessa scala e più non vuole crescere e più diventa adulto e responsabile. Entomologo Salaviza non ha mai negato di esserlo. Ma di quale indagine di profondità parla? Della dimestichezza con l’inquietante e con l’imprevedibile che fa di un cineasta un grande cineasta. E di un essere animale umano una macchina estetica. La creatività, lungi dall’essere una parolaccia abusata nel gergo critico dozzinale di oggi, è come spiega Virno e come spiegava Garroni, l’adattamento alla cronica inadeguatezza all’adattamento. E quando saltano le abitudini, dentro e fuori il set ecco che le mosse innovative.