"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Saul Fia (László Nemes)

Tuesday, 23 February 2016 11:01

L’immagine inadeguata

Lorenzo Esposito

C’era una volta la questione del rapporto fra realtà e sua messa in scena, fra enormità del reale e praticabilità fiction del documento, fra visibile e invisibile. In discussione erano due imperfezioni: la realtà stessa e l’occhio umano: l’umano e il disumano. C’erano, conseguenti, i concetti di memoria, testimonianza, storia. C’era (come si sa, ma è sempre meglio ricordarlo) prima di Auschwitz e dopo Auschwitz.

È probabile che nel luogo dove più crudamente si è posto il problema del rapporto fra immagine e verità, vi sia un indice storico (nel senso benjaminiano) che permetta di far luce sull’oscura matassa del presente, e viceversa qualcosa di troppo oscuro allora che potrebbe risultarlo un po’ meno adesso.

È quello che fa László Nemes, ungherese classe 1977, col suo primo lungometraggio Son of Saul (Saul Fia, 2015). Nemes prende di petto la questione mettendo in scena, proprio immaginando, uno dei più turpi, forse il più turpe, fra i crimini nazisti, ossia la creazione del Sonderkommando, squadra di ebrei addetta a portare altri ebrei direttamente nelle camere a gas, alla pulizia di quel che restava dei loro corpi, al trasporto delle carcasse nei crematori e pronta, a sua volta, a essere gasata e sostituita ogni quattro mesi. Nemes sceglie l’estate del 1944, quando ad Auschwitz si dovette ‘far fronte’ all’arrivo di 450.000 ebrei ungheresi ammazzandoli il più velocemente possibile, e quando alcuni membri del Sonderkommando ebbero il coraggio di scattare delle foto del genocidio e di farle arrivare alla resistenza polacca e, infine, di organizzare una rivolta.

La prima immagine è una sfocatura del famigerato bosco di betulle antistante le camere della morte. Dopo la messa a fuoco, appare Saul Aslander, un membro del Sonderkommando, intento a fare quello che fa tutti i giorni, portare a morire un convoglio di nuovi arrivati. Da qui, togliendoci il fiato, si diramano una lunga serie di piani sequenza che ne seguono le operazioni attorno ai morti, l’incredibile evento di un ragazzo sopravvissuto alla camera a gas (subito strangolato dal medico di turno), l’ossessione di Saul di seppellirlo secondo il rituale kaddish, i rischi enormi che corre, la sua partecipazione agli scatti delle famose fotografie e alla rivolta finale.

Nemes si posiziona alle spalle del suo personaggio, si attacca alla nuca di Saul e lo tallona nel suo disumano andirivieni nei meandri del dispositivo di morte. Tutto quello che vediamo è un frammento (spesso fuori fuoco), scorci di corpi nudi accatastati o trascinati via, violenze di ogni tipo, i prigionieri al lavoro, l’arrivo continuo di nuovi deportati. Fuori campo il terribile manto sonoro di cui tante volte abbiamo letto (la babele di lingue yiddish ungherese polacco greco e gli ordini continuamente urlati in tedesco). Il girone infernale di Auschwitz, perfettamente ricostruito, ci viene tuttavia restituito per irruzioni, lampi, squarci che si imprimono come ferite. Nemes insiste su ciò che nell’immagine, e dunque nell’occhio che osserva, è inadeguato. La questione è capire in quale punto è in grado di ritrarsi dalla sua stessa assuefazione e addirittura trovare la forza per ritrarla (non solo foto, i membri del Sonderkommando scrissero e riscrissero diari che nascosero fra le ceneri dei morti). Nemes allora interroga il rapporto fra la forma stessa dell’occhio (attenzione, il film è girato in 35mm) e il processo di selezione intrinseco all’immagine, per cui non tutto può essere visto e mostrato, ma proprio su questo non si fonda l’atto del vedere (sto dicendo che nello statuto stesso del fondo del fondo più nero c’è una luce? Si, i nazisti, stupide bestie, non se lo immaginavano). È la doppia situazione visiva dei membri del Sonderkommando: resi ciechi, spogliati di tutto, anche dell’anima, gli viene chiesto di lavorare a cancellare le tracce dell’orrore cui partecipano. Può nascere uno sguardo dalla somma di due diversi accecamenti? Quel che il cinema può fare, sembra dire Nemes, è di usare la propria parzialità, e diremmo proprio, impotenza, per restituire quella condizione di spoliazione e di non-sapere che fondava il processo di disumanizzazione nazista.

 

 

Una versione più lunga e leggermente diversa di questo articolo è apparsa sulla rivista Alfabeta2 il 27 gennaio 2016 e si può trovare qui http://www.alfabeta2.it/2016/01/27/laszlo-nemes-limmagine-inadeguata/

 

 

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