"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

The human voice (Pedro Almodóvar)

Saturday, 27 March 2021 18:14

Differenza e ripetizione di una dramma troppo umano

Lucrezia Ercolani

L’attrice Berth Bovy, un letto, un telefono. Questo fu il primo allestimento de La voix humaine, monologo di Jean Cocteau presentato alla Comédie-Française nel 1930. L’idea dell’autore era quella di mostrare una donna completamente devota al proprio compagno nel corso della loro ultima telefonata, in seguito alla scelta di lui di rinunciare a quella relazione clandestina. È una scena da sempre presente nei meandri della nostra psiche, tanto che non udiamo mai le parole dell’uomo ma sono estremamente semplici da immaginare. Lo sono anche quelle di Elle in effetti, perché come scrive Barthes, «il testo amoroso (un testo e niente di più) è fatto di piccoli narcisismi, di meschinità psicologiche; esso non ha grandiosità: oppure la sua grandiosità (ma chi è che, socialmente, può ravvisarla?) sta appunto nel non poter raggiungere nessuna grandezza, neppure quella del “materialismo spicciolo”». Insomma la grandezza sta nel girare intorno a qualcosa di enorme, misterioso, che viene avvicinato attraverso balbettii e frasi di circostanza. Frammenti di un discorso amoroso è un libro in sintonia con il monologo di Cocteau perché ci mostra il carattere archetipico e sovrapersonale dei discorsi d’amore, è in questi casi più che mai che siamo parlati da parole che ci precedono, immagini che ci sfuggono, divinità che si perdono nel tempo.

La forza del testo risiede quindi unicamente nell’interpretazione, nella voce appunto. In tutte quelle sottili sfumature che si concretizzano in un timbro unico. Nelle numerosissime messe in scena de La voix humaine da novant’anni a questa parte si manifestano allora altrettante variazioni su tema di un copione invisibile, andrebbero osservate in controluce per carpire la filigrana di un dramma universale che continua a parlarci.

Dal 1930 passano diciotto anni e una guerra fino a al momento in cui Rossellini recupera il testo e lo fa interpretare alla Magnani ne L’amore. Rispetto al lungo vestito bianco e ai capelli raccolti di Bovy, la grande attrice romana porta con sé un’altra immagine. La disperazione amorosa abbrutisce perché se non si mangia più, non si dorme più e si ingeriscono delle pillole per giocare con la morte, sarà difficile apparire come ninfe leggiadre. Il dolore è brutto, è sporco, è animalesco. Non c’è nessuna redenzione nel soffrire ma solo un toccare il fondo. Questa interpretazione magistrale della Magnani portò ad una vera e propria esplosione, il monologo negli anni ’50 e ’60 verrà proposto un’infinità di volte a teatro, al cinema, in tv e su dischi 33 giri. Uno strano scherzo del destino (?) fa sì che nel ’66 anche Ingrid Bergman interpreta The human voice in un adattamento televisivo diretto da Ted Kotcheff. La versione operistica di Francis Poulenc per soprano e orchestra del 1958, con il libretto curato sempre da Cocteau, inaugura un percorso parallelo anch’esso molto fortunato (che giunge fino all’allestimento di Emma Dante ai giorni nostri).

Almodóvar aveva già preso ispirazione da La voix humaine per Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Tanti anni dopo ha scelto di tornare sul testo, riscrivendo lui stesso le parole di Cocteau in spagnolo per poi tradurle in inglese, operazione indolore proprio per il carattere universale del discorso amoroso. La scelta di fondo è sostanzialmente opposta a quella di Rossellini: il film è ambientato in una casa estremamente curata, con quadri e mobili di classe, Tilda Swinton indossa vestiti eleganti e alla moda, utilizza profumi costosi mentre la cornetta del telefono è sostituita da dei modernissimi airpods. Un richiamo alla frivolezza del mondo cinematografico dichiara il regista, ma sembra anche un’allusione al fatto che qualsiasi donna, non importa quanto agiata e cultivée, possa trovarsi in questo ruolo. Nella sua compostezza British, l’attrice trasmette un dolore sordo e profondo. Un elemento importante è il ruolo di primo piano affidato al cane, già evocato nel testo. Il padrone dell’animale è sempre l’uomo in fuga, che l’ha lasciato alla donna senza fare complimenti, contro la sua volontà. Entrambi sono stati abbandonati ma il cane rappresenta una sorta di ancora per Elle, un appiglio alla realtà e alla vita, a qualcosa che esiste al di fuori del dolore lancinante. Naturalmente è anche un essere non colpevole, rispetto alle turpitudini tra cui si destreggia l’amante-essere umano. Swinton ha dichiarato che, lei lo sa per certo, la vita di una donna sola con un cane è una bella vita. Ad ogni modo, l’animale potrebbe essere una chiave importante per il finale, in cui Almodóvar ha inserito la nota più originale. Laddove la Magnani terminava con un lungo pianto, il regista spagnolo ha ritenuto necessario un momento di riscatto: Swinton esce dalla casa (insieme al quadrupede) che viene mostrata per quella che è - un set costruito all’interno di un ambiente molto più grande - e le dà fuoco. Un epilogo totalmente diverso dall’originale. Il momento di vendetta, con tanto di esplosione ed effetti speciali, potrebbe apparire un po’ forzato, è interessante però l’idea di abbandonare o distruggere il teatro mentale: la casa non è una prigione, anzi, non ha neppure le pareti. Il punto è riconoscere la finzione, capire che si può sfuggire al ricatto. È chiaro che, senza voler cavalcare nessuna onda, The human voice pone la questione delle specificità ataviche dei sessi - è possibile immaginarci una versione al maschile? Perché sembra così difficile (tanto che nessuno ci ha mai provato)? Le parole dall’altro capo della cornetta, potrebbe pronunciarle una donna? Sono ancora quelle immagini antiche che vanno interrogate, o quei frammenti di discorso; intanto nel corso degli anni nuove sfumature sono state aggiunte al ruolo, sempre più distante dalla vittima sacrificale di Cocteau, fino al fuoco di Almodòvar.

 

 

Carlo Levi, Paura della libertà

Thursday, 06 December 2018 00:34

Quel sottile crinale chiamato libertà

Lucrezia Ercolani

L’uomo è l’essere socchiuso.

Gaston Bachelard, La poetica dello spazio

 

 

Paura della libertà fu scritto da Carlo Levi nel ’39, quando la guerra era ormai alle porte. È uno di quei “libri dell’anno zero”, come lì definì Carlo Ginzburg: «Proporrei una piccola costellazione di libri, alquanto eterogenea, se non addirittura stravagante, che comprende, oltre alla Dialettica dell’illuminismo e al Mondo Magico, Paura della libertà di Carlo Levi, l’Apologia della storia di Marc Bloch, e perfino Une histoire modèle di Raymond Queneau. Che cosa hanno in comune questi libri? Io li chiamerei i libri dell’anno zero: sono tutti scritti tra il 1939 e il 1944, secondo prospettive completamente diverse, che però presuppongono tutte il crollo, la fine di un mondo (e in un certo senso del mondo) provocati dall’avanzata, che a un certo punto potè parere inarrestabile, degli eserciti nazisti. In questa situazione sorgeva la domanda: com’è stato possibile arrivare a questo? E se la storia ha portato a questo, quali sono le condizioni di pensabilità della storia?».

 

Già, come si è potuti arrivare alla rinuncia e se possibile anche allo svilimento della libertà? Innanzitutto bisogna intendersi su cosa significhi questa parola, quanto mai atta ad essere manipolata da politicanti di ogni risma o ad essere usata come slogan ideale per le pubblicità di automobili (insieme a “rivoluzione”). E se questi significati poveri e imbarazzanti non vengono messi in discussione non è probabilmente un caso. Come dice Levi, nei tempi bui vietare la libertà di parola è giusto una formalità, perché le discussioni e i luoghi che le permettono si spengono da soli, di morte naturale.

 

La libertà, dunque. Colpisce come in questo libretto venga espressa una concezione che sbaraglia in un colpo solo le lotte di rivendicazione insieme alla fiducia nelle leggi, così come gran parte della filosofia precedente e di quella successiva.

La libertà è prima un fatto individuale che sociale: non è una questione di contratti, di accordi o di una rappresentanza che garantisca che “la mia libertà finisce dove inizia la tua”. Ci vogliono persone che pratichino la libertà, e solo in questo modo la comunità potrà farsene espressione e luogo privilegiato. I movimenti “spartachisti”, nonostante possano suscitare un’umana simpatia, non fanno che riconfermare la divisione tra schiavi e privilegiati che costituisce lo Stato. Per questo sono destinati al fallimento, ovvero a non cambiare nulla.

 

Ma questa libertà dell’individuo non si compra al mercato, non è già data. Non è l’autodeterminazione del soggetto cara a Kant e razionalisti vari, ma neanche il suo completo venir meno, foglia trascinata dal vento debole del ‘900.

Queste tendenze equivalgono a due degenerazioni indicate da Levi. La prima è l’arida ragione calcolante, dimentica di ogni passione, dove ogni autentico rapporto umano è ormai impossibile. La seconda è il confondersi con l’indeterminato, che è anche bestialità e paura, fonte delle peggiori dittature.

Dov’è allora la libertà? È esattamente nel mezzo. Appartiene a quell’essere umano determinato che riesce ad accogliere in sé un po’ di indeterminato. Significa convivere con l’animale in noi senza esserne fagocitati, diventare adulti rimanendo un po’ bambini. Come dice Levi: «Non serve essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni. Poiché la passione è il luogo del contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato, è il fecondo sonno immortale, l’eterno ritorno a un indistinto anteriore - e il problema è essere se stessi, essere liberi, in questo ritorno necessario».

 

Curiosamente, diversi di quei “libri dell’anno zero” parlano del dramma epocale che segnò la nascita della coscienza, dell’identità, del soggetto, al costo di un doloroso distacco da quel magma indistinto, da quella realtà dove l’io e l’altro non si distinguevano. Un percorso storico che ogni bambino ripercorre nella sua crescita.

Forse perché arrivati alla “fine del mondo” c’era bisogno di ripensarne anche l’inizio. E Levi ci dice che è proprio lì che bisogna sciogliere il nodo della libertà. Distaccarsi completamente da quel caos primigenio è condannarsi ad una lenta morte, stanco nichilismo che sopprime ogni differenza. Ma confondersi con esso è una paurosa schiavitù, foriera di idoli religiosi o statali che siano.

 

Essere liberi è allora camminare su uno stretto crinale, arte del funambolo. Precario equilibrio tra ragione e istinto, tra un ordine asfissiante e un disordine che distrugge.

Bisogna essere forti e allo stesso tempo aperti per accogliere l’illimitato e gioirne, senza esserne sopraffatti. Per accettare che non ci sono regole prestabilite e che il limite siamo solo noi stessi. Solo così è possibile la vera creazione, quella che “strappa” qualcosa al caos e che apre invece di chiudere. L’unico luogo da cui può sprigionarsi la pace, l’amore, l’arte e la poesia, autentiche espressioni di libertà. Perché il caos, oltre a trascinare nel disfacimento e nella perdita, è anche la fonte della creatività, della vita. Ma se invece di affrontarlo e accoglierlo se ne ha paura, ecco l’invenzione di tutta una serie di limiti - idoli, religioni, leggi, regole - per tenerlo a distanza e condannarsi alla perdita della libertà, alla schiavitù di sé e dell’altro.

 

L’analisi di Levi è preziosa perché non cerca risposte facili, e scava in quei meccanismi che rendono la nostra vita servitù volontaria. Ma cosa farcene? Giorgio Agamben, nell’introduzione alla nuova edizione del libro emerso dopo tanti anni di oblio, suggerisce che il “programma” di Levi fosse l’autonomia, intesa come autogestione di piccole comunità dove la schiavitù dell’animo potesse essere abolita, per essere liberi di esprimersi autenticamente e così creare. Oggi, senza sorprese, vediamo minacciati e distrutti i piccoli esperimenti di questo tipo che restano ancora in piedi, con un accanimento che dà da pensare. Forse che, oltre a generare paura, la libertà genera anche invidia? Schiavi tutti o nessuno, e il momento attuale ha scelto la prima possibilità.

Nelle pagine di Levi discorso storico e vicenda del singolo vanno a braccetto, ognuno di noi così come ogni epoca è posta di fronte a queste scelte ripetutamente. Niente è perduto, tutto tornerà, nel bene e nel male: così come non c’è la salvezza una volta per tutte, non c’è una sconfitta definitiva. La libertà e la repressione sono due poli indistruttibili che non cesseranno di risorgere, l’uno conquistando spazio a scapito dell’altro, per poi riperderlo. Le rivoluzioni falliscono, ma ci saranno sempre dei divenire-rivoluzionari, diceva Deleuze.

 

 

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