Un sogno lungo un giorno
A osservare il percorso che da qualche anno Bi Gan, regista cinese neppure trentenne, sta compiendo nel cinema, sarebbe riduttivo considerarlo mosso soltanto da un’idea di pura sperimentazione, dal desiderio di sovvertire le regole con qualcosa di mai visto prima, anche se, in particolare, il suo ultimo film, Long Day’s Journey Into Night, un incrocio ibrido di formati, fitto di continui rimandi poetici e letterari, la cui seconda parte è interamente girata in piano sequenza e poi tradotta in 3D, paradossalmente, sembra fare proprio questo. Davanti a Long Day’s Journey Into Night, così come al precedente Kaili Blues, è comunque impossibile non farsi trascinare dalle acrobazie della mdp e dalla sfida mossa continuamente allo sguardo dello spettatore, che proviene soprattutto da un uso sistematico e prolungato dei piani-sequenza, forma fluida, che scorre come un fiume, praticata da Bi Gan per accogliere la vita dentro il passo del cinema, e da lui rimodulata con uno stile talmente personale e azzardato che non si può fare a meno di domandarsi, di fronte a certi passaggi, letteralmente impossibili, come siano stati girati.
Non è un caso che Bi Gan scelga ripetutamente il piano-sequenza, sia in Long Day’s Journey Into Night che in Kaili Blues, in primo luogo per metterlo in questione, servendosene come mezzo di esplorazione e di sistematica deriva nella profondità di campo, per usarlo, poi, sul serio, nel passo preciso e leggero della steadycam, come chiave d’accesso e di sprofondamento nel tempo, dove la scansione del tempo reale si trasforma, a vista, in una misteriosa presenza-fantasma, in cui le immagini del presente, sembrano sempre provenire da altrove, da una memoria remota e da un altro tempo, che le lascia in sospeso e in attesa, in un’atmosfera sfumata di incertezza e di malinconia.
Bi Gan, cineasta fuoriclasse, arruolato alla contro-scuola di Jean-Luc Godard - cui rimanda esplicitamente in Kaili Blues, in cui all’inizio del film i nomi degli attori vengono elencati a voce, come nell’incipit di Le Mépris -, gioca molto con il piano sequenza, a metà strada tra disegno teorico e istinto, fino a farne l’elemento più significativo del suo lavoro, prendendo a sua volta posizione su una delle figure-chiave più controverse della teoria del cinema, quello che per André Bazin era l’alfa e l’omega della libertà stessa dello spettatore, mentre da altri veniva considerato soltanto come un’illusione di libertà, che in realtà avrebbe limitato lo spettatore, rinchiudendolo in un mondo finito, invece di liberarlo. Per Bi Gan, almeno nei due lungometraggi finora realizzati, il piano-sequenza sembra prendere corpo e senso come apertura al viaggio, come flusso di pura gioia infantile di fronte a un giro di giostra: di qui, la presenza cruciale e continua dei mezzi di trasporto, compresi quelli più insoliti, che, sempre, del piano-sequenza sono parte integrante: per Kaili Blues i vari scooter, che sfrecciano leggeri nel paesaggio di campagna, per Long Day’s Journey Into Night, ancora uno scooter, una piccola teleferica, perfino una racchetta da ping pong, magica; per entrambi i film, infine, il modo più veloce per raggiungere una zona remota e segreta, sperduta molto più nel tempo che nello spazio. In Kaili Blues questa zona, straordinariamente intima, si chiama Dangmai e prende la forma di un piccolo villaggio lungo il fiume, che come Brigadoon sembra uscire dal nulla, mentre in Long Day’s Journey Into Night, a essere filmato in piano sequenza e in 3D è uno spazio industriale abbandonato, alla periferia di Kaili - la città dove Bi Gan è nato -, costruito dai russi quando la vicina miniera era ancora in funzione e in seguito trasformato in una prigione, un reperto diroccato di archeologia industriale, che Andrej Tarkovskij, uno degli autori-guida per Bi Gan, avrebbe adorato, e che diventa, infatti, la pietra angolare che ispira l’intera storia e il film, il set dolcemente allucinatorio, dove reale e immaginario si possono incontrare in una reinvenzione inedita, onirica e malinconica, della stereoscopia, che domina la parte più folle e poetica del film.
L’idea di cinema, secondo Bi Gan, implica, comunque, fin dall’inizio anche un confronto e uno sconfinamento continuo con la letteratura e la poesia, che intercetta le immagini con un gioco complicato di sovrapposizioni, di rimandi e di successivi slittamenti, se si pensa ad esempio che il titolo originale di Kaili Blues avrebbe infatti dovuto essere Libro dell’inquietudine, da Pessoa, ma, dopo essere stato respinto dalla censura, era diventato Picnic sul ciglio della strada, dal romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij, già usato da Tarkovskij per Stalker, mentre il titolo di Long Day’s Journey Into Night (incidentalmente lo stesso di un dramma di Eugene O’Neill), nell’originale cinese risulta invece essere la traduzione di Last Evenings On Earth, il titolo di una raccolta di racconti brevi di Roberto Bolaño.
Di questa rete complicata di incastri e di richiami che si accompagna sempre alle immagini come una segnaletica invisibile, costituendone anche in gran parte il fascino e la ricchezza, Bi Gan, in diverse interviste, minimizza il senso, dicendo di aver usato spesso titoli di libri o di essersi ispirato a dipinti, come ad esempio, per Long Day’s Journey Into Night, il magnifico La Promenade, realizzato da Marc Chagall nel 1918, senza particolari motivi, soltanto perchè gli piacevano. Eppure, davanti ai suoi film, capita invece di avvertire un’intenzione precisa e una conoscenza tutt’altro che superficiale, per esempio, dei mondi che Bolaño ha descritto nei suoi libri e che probabilmente hanno permesso a Bi Gan di filmare in un certo modo certe stanze dimesse, con i libri accanto al letto, o i bar scalcinati, dove si fuma in silenzio e si gioca a biliardo, o i miseri negozi di parrucchiere senza acqua corrente, dei luoghi, insomma, dove, come avviene nei testi di Bolaño, a prendersi il centro della scena sono piccole vite marginali, che altrimenti non potrebbero mai essere viste o considerate. Per inciso, anche Bi Gan, come Bolaño, ha fatto i mestieri più vari: addetto a una pompa di benzina, un corso per adoperare il martello pneumatico in miniera, il video-operatore ai matrimoni, tutte esperienze di lavoro molto reali e dure, che fa comunque scivolare obliquamente nel suo stesso modo di pensare il cinema e di immaginare le sequenze, così come era avvenuto per Bolaño con la letteratura. Anche per questo, forse, i luoghi e i personaggi di Bi Gan, così come quelli di Bolaño, finiscono per restare dentro a lungo, per questa spinta comune a confrontarsi con la realtà, forzandola fino al limite, tra sogno e allucinazione, senza paura di mostrare i lati più miserabili e opachi della vita, segnati dalla delusione e dal destino, dove rimane tuttavia la presenza di una forza oscura che resiste, una vitalità sotterranea che non abbandona la lotta.
Per questo, la poesia, come i libri, entrano sempre nel suo cinema con forza, anche per sovvertirlo internamente. In Kaili Blues, sono le stesse poesie di Bi Gan, poeta prima ancora che filmmaker, a venire pronunciate dal protagonista, Chen, medico in un piccolo ambulatorio, con un passato in prigione, mentre altre volte semplicemente emergono in off, come delle presenze fantasma, e la loro speciale intermittenza, prima ancora di prestare un ritmo sotterraneo e ipnotico alle immagini, segnala la presenza di un altro mondo parallelo, altrettanto esigente, che cerca un contatto. In fondo anche i piani-sequenza hanno questa funzione, così come l’uso così sperimentale del 3D in Long Day’s Journey Into Night: sono altri mo(n)di, altre forme di narrazione, in conflitto, che cercano di aprirsi una strada nel tessuto del film, per sovvertirlo radicalmente. Per questo, ad esempio, la seconda parte in 3D di Long Day’s Journey Into Night può arrivare a prevalere con un potere quasi ipnotico sulla prima parte, che viene infatti sussunta e fatta precipitare in uno spazio-tempo del tutto diverso, stranamente rallentato e denso, che, nel rilievo morbido, quasi dopato, della stereoscopia, assume i contorni indefiniti e i colori di un sogno. Quando la donna amata dal protagonista che, nel film, come in Vertigo, sembra vivere due volte, gli dice a un certo punto che "...in tv hanno detto che i sogni sono ricordi perduti", non fa che indicare in questo modo il limite incerto tra memoria, vita e sogni, che costituisce una zona essenziale, molto profonda e fisica, nel cinema erratico e in continuo divenire di Bi Gan, che, paradossalmente, proprio per l’acuta attenzione che conferisce al singolo frammento di memoria o di vita, quasi sempre legato a degli oggetti: orologi rotti, libri, fotografie, specchi, girandole di carta, bastoncini accesi di stelline scintillanti, che continuano ossessivamente a ritornare, mutati, da un film all’altro, deve necessariamente servirsi di una figura così singolare e unica - one shot - come il piano-sequenza, in quanto la sola in grado di accogliere nel suo pacato fluire questa costellazione di frammenti dispersi, altrimenti impossibili da ricomporre.
Probabilmente è ancora attraverso un sogno che si può accedere alla seconda parte di Long Day’s Journey Into Night e al suo diverso formato in 3D, il protagonista, infatti, dopo aver inforcato gli occhialetti necessari, si addormenta in sala. Del resto i personaggi di Bi Gan molto spesso si addormentano e sognano, anzi, il fascino particolare di certe sequenze è proprio dato da questa indiscernibilità tra i due stati, portata continuamente al limite, da questa assenza di confini tra sogno e realtà, e quindi da un riconoscimento potente della realtà dell’inconscio, l’inesauribile, selvaggia miniera dove si producono in continuazione immagini e fantasmi, che non smettono ossessivamente di ritornare. Capita così che la seconda parte del film possa largamente risarcire qualche mancanza della prima, a tratti fin troppo soggiogata, a sua volta, dai fantasmi del noir e da certe atmosfere alla Wong Kar-wai un po' inutili e di maniera, mentre è proprio attraverso un uso del tutto personale e decisamente sperimentale della stereoscopia, che Bi Gan arriva a dare un rilievo e uno spessore sorprendente all’immagine, fino al punto da rendere visibile ciò che, come i sentimenti, non si può vedere, aprendo squarci di puro melò, come, ad esempio, l’incontro fra il protagonista e - forse - la madre che lo ha abbandonato da bambino, riuniti da un dialogo breve e straziante, incerto e senza risoluzione, appena riscaldato dal fuoco di una torcia che brucia per poco nel buio circostante. Anche solo per l’intensità e per il dolore trattenuto e non convenzionale di questa sequenza, insieme al magnifico nobody’s shot con cui finisce il film, materializzazione pura del dispositivo, con cui Bi Gan si spinge a riformulare l’eterna domanda: "che cos’è il cinema?", vale la pena di continuare a seguire il lavoro di questo giovane regista, dotato di un vero talento, che ha preso lezioni prolungate da Andrej Tarkovskij, Hou Hsiao-hsien, Alfred Hitchcock, Tsai Ming liang, Jean-Luc Godard, David Lynch, ecc, sulle cui immagini continua a riflettere, incontrandole e sfidandole soprattutto nella dimensione del sogno, il non luogo, che appartiene a tutti, dove sempre si osano cose che da svegli non si farebbero mai.