"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Come si conviene a una confessione, scrivo questo articolo sul libro di Daniela Turco - Vincente Minnelli. La materialità del sogno1 - con qualche senso di colpa. Più di una volta nell’ultimo anno sono stato incalzato per sapere cosa ne pensassi. Non per narcisismo (che non le appartiene), ma sicuramente per devozione e rispetto alle passeggiate letterarie (e non solo) cui sottoponiamo la nostra amicizia. A tali sollecitazioni ho risposto con silenzi imbarazzati e scuse balbettate, temo perfino di essermi difeso dietro quella che la mia coscienza ha derubricrato sotto la voce bugia bianca, ossia la quantità di lavoro che non mi aveva ancora permesso di terminare la lettura. Cosa mi impediva di cominciare la discussione?
A dire il vero, mi piacerebbe che la reciprocità sulle nostre scritture fosse del tipo di quella fra Joseph Conrad e Stephen Crane2. Mi piacerebbe per esempio poterle dire mi piace la tua idea di cinema come “metamorfosi permanente” e venire subito e a tal punto compreso da non necessitare risposta né approfondimento. Con sconforto tuttavia so che, trattandosi di Minnelli, questo non può bastare.
La verità è che, data la mia idiosincrasia nei confronti delle monografie (specialmente per quel loro pretendere di voler dire tutto su un autore), del libro di Daniela mi sconvolge la pazienza certosina, il piglio didattico (in senso rosselliniano), la fiducia che, in qualche modo e nonostante tutto, ci si possa lavorare. Da una parte il cineasta forse più rischioso della storia del cinema, che dispone l’immagine su livelli sempre più complessi di messa in scena, una spirale che unisce autobiografia pittura psicoanalisi architettura tempo spazio sogno; dall’altra una scrittura, anzi uno sguardo, che fa emergere l’opacità e il mistero connaturati al tocco minnelliano con un’attenzione e una limpidezza di percorso che onestamente non ha rivali (senza parlare poi, per citare un minnelliano vero che giustamente ricorre nel libro, della bella lingua italiana che contraddistingue il fraseggiare della Turco3).
Succede così che anche la prima sezione del libro (quella che, per esigenze editoriali di questa collana di monografie, dovrebbe servire da introduzione bio-filmografica), viene affrontata dalla Turco come vera e propria occasione rosselliniana: non solo pone le basi per gli affondi successivi, ma è di per sé uno scavo in profondità in cui vengono continuamente tracciate linee sotterranee che si stratificano e si intrecciano una dopo l’altra. L’arrivo in superficie, a sua volta frastagliatissimo, fa emergere alcuni momenti cruciali (spesso inconsci) della biografia minnelliana e li usa come dei ponti gettati verso la complessa articolazione di snodi che percorrono poi i film. Tutto è molto semplice, cronologico, eppure tutto è traslato, ha un “doppio fondo” che già richiama quella ricerca del “rovescio dell’immagine” che è uno dei segreti, o meglio delle ossessioni di Minnelli.
La potenza dell’intuizione della Turco è seconda solo alla gentilezza e al rigore con cui viene svolta cercando di restare dalla parte del non detto. Il passaggio ininterrotto in Minnelli fra vita e film da cui si genera un sistema pluridimensionale che danza tra sogno e realtà guizzando avvolgendo e mutando senza fine, è forse la cosa più vicina alla natura stessa del cinema che sia mai stata detta e fatta. La cosa è talmente abnorme, che lo stesso Minnelli ne rifugge (salvo dichiarare che i suoi amori cinematografici - Mamoulian a parte - non erano i musical ma “Buñuel, Cocteau, Dreyer, Ejzenštejn”). La Turco, che ne è consapevole, costruisce un orizzonte bellissimo di compagni di viaggio che lo espongono a una minore solitudine: cineasti altrettanto travolgenti eccentrici e visionari come Max Ophüls e Eric Von Stroheim da un lato; ossessionati e obliqui interpreti come Deleuze, ghezzi, Douchet, Turroni dall’altro (la Turco non si ferma qui, apre strade ancora più impervie e avventurose che portano Minnelli di volta in volta fra le braccia di Warburg, Freud, Borges, Blixen, Eliot, Montale...).
1 edizioni fondazione ente dello spettacolo, Roma 2021.
2 Nel suo “Ritratto dell’autore” a introduzione del capolavoro di Crane Il segno rosso del coraggio, Conrad ricorda come l’unica cosa che si sentì di dirgli fu: “Mi piace il vostro generale”, e che Crane “Capì immediatamente a che cosa alludevo, ma non disse parola”. Poi, mentre continuavano a passeggiare “gomito a gomito”, Crane “pronunciò con il suo quieto fervore le parole: “Mi piace il vostro giovane, riesco proprio a vederlo” (Crane si riferisce a Negro del “Narcissus”). Conrad commenta: “Nulla poteva caratterizzare la profondità di un’intimità nata da appena tre ore come il fatto che ciascuno di noi avesse scelto di lodare il più irrilevante bozzetto di un personaggio minore” (v. la traduzione recentissima per Einaudi di Michele Mari).
3 Non mi crederà mai che in quello che sto per dire non c’è sadismo alcuno e davvero non ho alcuna intenzione di farla arrabbiare, ma tutte le volte che leggo un testo di Daniela mi viene in mente Elsa Morante.
Tra i film presentati alla Quinzaine, mai forse come quest’anno autentico contro-canto del Festival di Cannes, per densità dei materiali, a fronte di una selezione ufficiale alquanto sbiadita, il film portoghese di Pedro Pinho, A Fábrica de Nada, sembra più di una promessa per la libertà di linguaggio e per il campo di ricerca, che, come era già accaduto nel 2015 con As Mil e Uma Noites di Miguel Gomes, si confronta, con rara concentrazione in tre ore di durata, con la realtà violenta e diffusa della crisi economica contemporanea, che ovunque in Europa e nel mondo produce macerie e che viene qui inventariata, con immaginazione e rigore, nella particolare prospettiva di una fabbrica di ascensori in crisi, situata nel bacino industriale di Lisbona.
Quali sono i materiali che si incontrano in questo film, ellittici, familiari e nello stesso tempo inconsueti, per la carica teorico-discorsiva che li muove da una zona remota del tempo, rimettendoli in gioco come in un ritorno del rimosso? Parola, lavoro, corpi, amore, lotta, desiderio, disoccupazione, paura, sono alcuni degli elementi che si combinano tra loro in un’armonia dissonante nel ritmo cadenzato di un film che si prende il suo tempo senza fretta, riuscendo ad assemblare insieme stralci in off dalle pagine di Ai nostri amici (2014), pamphlet antagonista del Comitato Invisibile, con il pensiero filosofico di Simone Weil; il proto-punk dei Death con i lunghi detour in barca sotto la pioggia nella waste land che costeggia il Tago; Tout va bien e Passion come doppia matrice originaria del set, con la riappropriazione liberatoria, alla fine, dei lunghi piani-sequenza straubiani e del canto dell’arrotino in Sicilia!.
Sembra che l’idea originale di Jorge Silva Melo da cui proviene il film, fosse quella di convertire la storia di una fabbrica e degli operai in lotta in un musical, ma poi, tra le mani di Pedro Pinho il film prende un’altra strada, nonostante qualcosa rimanga di quel progetto iniziale, anche se l’irruzione improvvisa di un genere in un altro non costituisce probabilmente il maggior interesse del film. Dell’autogestione di una fabbrica si era anche occupato nel 1979 il cineasta spagnolo Joaquim Jordà, che con il folgorante Numax presenta... aveva esplorato la potenziale flessibilità del documentario, realizzando un’opera militante e atipica su una fabbrica occupata e sugli operai in lotta, su cui, a distanza di venticinque anni, era poi ritornato, con Veinte anos no es nada, riprendendo i fili interrotti di quell’esperienza e di quelle persone. Forse qualcosa del coraggio e della sperimentazione politica di Jordà è consapevolmente passato dentro A Fábrica de Nada, che del resto emoziona proprio per quel continuo va e vem, che ne sostiene la struttura, quel cortocircuito che rischiosamente implica continuamente la vita, l’amore, con il lavoro, che si materializza anche come segno nel paesaggio e scena dominante e primaria, a partire dalle strutture industriali che si vedono profilarsi fuori dalle finestre della casa di Zè, uno degli operai, per proseguire oltre nel defilè di capannoni, container, ciminiere delle fabbriche che penetrano fin dentro la città, con il loro carico ambivalente di lavoro e di morte. Quanti paesaggi sfigurati come questi, dove i prati sconfinano con le case e con i fabbricati industriali, esistono ancora come presenze spettrali e in dismissione, non solo in Portogallo, ma anche a Taranto, a Piombino, a Porto Marghera, e oltre? Uno dei punti di forza di A Fábrica de Nada consiste proprio nel dare spazio a queste immagini mute che si concatenano e confluiscono in un inventario impressionante e brutale delle mutazioni dei luoghi e, conseguentemente, delle persone, osservate nel tempo fermo del capitalismo estrattivo, dell’apocalisse sostenibile e della crisi permanente. All’inizio del film, a casa di Zè, l’unico degli operai ad essere seguito e filmato fin dentro la sua intimità personale e perciò politica, una telefonata dalla fabbrica, che sollecita la sua presenza immediata, interrompe la coppia mentre sta facendo l’amore, e lungo tutto il film, come già avveniva in Passion e in Sauve qui peut (la vie) di Jean-Luc Godard, viene ampiamente indagato questo nodo misterioso e molto stretto, già osservato da Simone Weil nel primo volume dei suoi Quaderni, tra amore e lavoro, e più in particolare, tra i gesti dell’amore e quelli del lavoro, che, come sosteneva Isabelle Huppert in Passion, sono, in fondo, gli stessi, anche se non hanno necessariamente la stessa intensità.
A Fábrica de Nada, non ha solo il merito di portare alla luce e a un’analisi critica pezzi di realtà distopiche in atto, ma anche quello di liberare ancora una volta la potenza della parola operaia (gran parte dei non-attori del film sono lavoratori industriali), tanto nelle lunghe sequenze in cui i singoli raccontano la propria esperienza di lavoro e di vita, tanto per dare una esemplificazione istantanea e plastica di ciò che significa biopolitica, quanto nei discorsi più analitici sulla condizione operaia nell’era della globalizzazione, sulla situazione sociale oggi in Portogallo, in un rapido avvitamento su sparizione del lavoro, povertà, alienazione, merce. Di colpo ci si ritrova spiazzati di fronte a un lessico troppo in fretta derubricato come obsoleto, che chiede invece con urgenza di essere rimesso in questione e in circolo, perchè ne va delle nostre vite.
Meno seducente e sensuale rispetto al pastiche polimorfo declinato da Miguel Gomes in As Mil e Uma Noites, A Fabrica de Nada, si muove però in quella stessa direzione, che prevede il tempo lungo di una lotta continua contro la paura, per una sistematica riappropriazione della gioia, che, come l’amore, è una parola politica. Ce n’est qu’un début....