"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SMASH CAPITALISM! - Uncut Gems (Josh & Bennie Safdie)

Monday, 03 February 2020 20:57

Arturo Lima

Diamanti grezzi del cinema USA

È sempre molto istruttivo il modo in cui Josh e Benny Safdie si divertono a citare film nelle interviste. Da un lato perché i titoli che affiorano dal mare magnum sono il sintomo di una cinefilia di quasi ultima generazione (non ancora quella totalmente distorta e frammentaria di oggi) formatasi dagli anni novanta in poi (in pieno passaggio), che si mostra certo già compulsiva, eppure ancora capace di certi tratti obliqui e ossessivi che le permettono, forse per prima, di non avere pregiudizi o sovrastrutture, e soprattutto di riguardare, ossia di vedere con occhi diversi testi considerati minori o assodati, e dunque di mettersi sull’onda mutante che appartiene o dovrebbe appartenere a qualunque film. I film sono soggetti mutanti. Da un lato. Dall’altro queste liste curiose e sghembe permettono di scavare sotto la superficie delle citazioni maggiori, che invece sono lampanti nel film finito, proprio come delle uncut gems, incastonate da anni nel ricordo e tagliate e sgrezzate solo al momento di fare il film (parleremo anche di queste). Ma gli altri film, quelli che escono fuori quasi per caso durante una chiacchierata con una rivista, quelli sono i veri amori, una tela segreta che, neppure troppo inconsciamente, i due fratelli vorrebbero condividere come una forma di rispetto per i lunghi anni di lavoro attorno a un film, e che si tesse prima ancora di girarlo, forse prima ancora di pensarlo.

Ecco la lista (senza ordine), facilmente ricostruibile leggendo alcune interviste su Uncut Gems, che appunto è il film che, come dichiarano, volevano fare da sempre e per cui non si sentivano mai abbastanza pronti, quasi al punto da considerare tutti i precedenti come necessari passi di avvicinamento. Medium Cool (Haskell Wexler, 1969), David Holzmans Diary (Jim McBride, 1967), Ladri di biciclette (De Sica, 1949), Punch-Drunk Love (Paul Thomas Anderson, 2002), Rocky (Stallone, 1976), Jackie Brown (Tarantino, 1997), Straight Time (Ulu Grosbard, 1978). Sono film citati in discorsi lontani tra loro e spesso solo indicativi di un percorso personale e non strettamente legati ad Uncut Gems, eppure tutti portatori di una qualità immersiva che, a partire dall’ossessione per un personaggio unico e centrifugo, procede rapidamente a stressare l’idea stessa di fiction, costringendola - anche se sottoposta a procedure collaudate come thriller e action - a violente iniezioni di iper-realismo, fatti veri, persone vere, set ricostruiti solo a metà nel corpo stesso di porzioni di città attuali in modo che lo scontro provochi continue vibrazioni, collisioni, implosioni, salti nel vuoto, pugni in faccia, slittamenti visionari (Uncut Gems è retrodatato al 2012, ma i Safdie hanno volutamente fatto muovere gli attori nel vero distretto dei diamanti newyorkese, senza chiudere strade o negozi).

Insomma una linea che va da Friedkin a Ferrara (passando, ovviamente, per Scorsese, che qui non a caso è produttore esecutivo). Anzi Uncut Gems inizia con delle riprese - completamente inusuali per i Safdie - in una zona mineraria in Etiopia dove viene ritrovato un rarissimo opale (geniale mcguffin su cui si basa il film), che richiamano direttamente, anche per freddezza documentaria, l’inizio in Iraq di The Exorcist (e ora, mentre scrivo, mi balza alla memoria il finale col diamante di Snake Eyes di Brian De Palma, un lungo zoom sui titoli di coda, di nuovo su degli operai che stanno mettendo su delle impalcature, che stringe fino a individuare la pietra preziosa inglobata in una delle colonne di sostegno - per inciso, quel Nicholas Cage sarebbe un perfetto elemento Safdie). E continua col riferimento più che cristallino, anche se di diversa natura, a Bad Lieutenant, di cui riprende e porta alle estreme conseguenze il rapporto insieme distruttivo ed erotico col gioco d’azzardo e con il suo contesto sonoro metropolitano: come Harvey Keitel nel film di Abel Ferrara in Uncut Gems Adam Sandler è continuamente trascinato nell’abisso rutilante dei risultati delle partite di basket su cui ha scommesso e che sembrano essere l’unica trasmissione televisiva (in Bad Lieutenant radiofonica) in città.

Dunque ecco i primi due elementi. Prima di tutto la violenza del Capitale. Uncut Gems, al di là degli elementi di genere legati alla traiettoria adrenalinica del protagonista gioielliere che sembra di fatto godere a rischiare tutto quello che possiede (i soldi che scommette, la famiglia che lo disprezza, l’amante bellissima e la suite dove la incontra, i creditori che lo minacciano), è in realtà una corsa stordente in un vortice di strozzinaggio e cinismo che viene scandagliato con furia e chiara conoscenza dei luoghi e delle persone (nessuna paura per i Safdie a mostrare senza ipocrisie e una buona dose di autoironia l’aria fetida che tira in questa specie di aleph cieco e marcio, a cui loro stessi appartengono, della comunità ebraica di New York: Ferrara fa lo stesso con quella italiana). È forse la cosa più interessante del film. Quanto più si stringe la morsa inesorabile di eventi specifici e a ben vedere di per sé minimi e molto poco rilevanti, tanto più si ha questa inquietante e molto poco rasserenante sensazione di qualcosa che marcisce universalmente, e che la ragione di questo collasso risieda nel fatto stesso che quell’angolo di mondo sembra avulso e indifferente a qualsiasi cosa accada su questo pianeta (a parte il basket e i soldi). Come hanno spiegato bene i due registi, il fatto che un canestro venga realizzato o meno, e che un rimbalzo in più possa stabilire un record, sono eventi del tutto ininfluenti, ma che al tempo stesso possono essere talmente importanti per una singola persona, da incarnare il punto di sutura e incandescenza di ogni cosa. La metafora, anche cinematografica, è evidente.

Poi c’è Adam Sandler. Questa voce comica anti-capitalista, che negli anni ha stabilito una capacità di resistenza unica (tutto è cominciato con un film che con onestà ammetto di aver capito solo ora, Punch-Drunk Love di PTA, proprio uno di quelli citati dai Safdie), e che porta in Uncut Gems quel dato iper-realista di cui si diceva prima. Non è solo un essere se stesso, cosa abbastanza banale. Ciò che Sandler rende più reale del reale è la fiction stessa, quella rara capacità (Jerry Lewis?) di far sembrare l’assurdo e l’inverosimile qualcosa che sta davvero accadendo a qualcuno sullo schermo, una sorta di avveramento fisico e metafisico insieme del film, che è esattamente il cuore della proposta di questi due giovani cineasti. E lo fa mantenendosi in equilibrio sulla posizione più instabile, quella del metafilmico puro, in questo caso meta-attoriale. Sandler non solo sembra portare nel personaggio di Howard Ratner tutti i personaggi più importanti che ha recitato finora (da Paul Thomas Andreson a James L. Brooks a Judd Apatow), ma è anche il Sandler persona pubblica che tutti sanno appassionatissimo di NBA e presenza costante al Madison Square Garden. Ecco perché i titoli di testa subito dopo il ritrovamento della gemma in Etiopia, transitano dalla nebulosa stellare delle pietre preziose direttamente nelle viscere di Howard sottoposto a un esame del colon in cerca di un tumore. C’è poco da dire, è subito lui la vera uncut gem. Sandler inoltre, che come detto è elemento centrifugo se preso come vettore della struttura filmica, riesce anche ad assorbire il movimento di reazione centripeta, per cui tutte le altre gemme grezze del film impattano a velocità supersonica su di lui. Su tutte Kevin Garnett, nella parte di se stesso e che incarna di nuovo la realtà dura e pura, la dinamica locale/globale che fa esplodere il film (bisogna essere appassionati di NBA per capire a fondo certi passaggi di Uncut Gems, ma si può anche letteralmente non saperne nulla). Questo campione del rimbalzo, questo giocatore mostruoso che, con ulteriore pericoloso sberleffo politicamente scorretto, i Safdie mostrano anche come il black convinto dei poteri ancestrali di un opale africano…

Ora, tutto questo precipitato convulso e tesissimo, ha questa duplice ambizione: lavorare in maniera maniacale sui dettagli e condurre progressivamente il film all’apoteosi di alcune scene madri. L’etichetta sul retro della camicia, il gioco di sms con l’amante, i due vecchi del banco dei pegni per classi agiate (veri, anche loro), i due misteriosi gemelli (verissimi), le persone (vere! vere!) che passano sul set per caso e guardano Sandler correre o litigare furiosamente con la bellissima Julia Fox. Dettagli che stratificano ulteriormente il film, che lo scolpiscono con precisione. E poi la doppia porta della gioielleria. Questo spazio minimo che diventa miracolosamente gigantesco, che si allarga a dismisura, in cui si resta intrappolati ma in una posizione di voyeurismo estremo, Sandler è lì, in piena apnea erotica, ha scommesso tutto su Garnett, che è lì anche lui, sullo schermo della tv, e fa il record, un canestro in più, un rimbalzo per entrare nella Storia, e Sandler vince, vince e incassa, si rotola per terra, salta, urla, l’amore per lo sport, la follia della scommessa, e quello che vince gli deve salvare la vita, può ripagare il debito, e i suoi creditori sono chiusi tra le due porte, sono lì per ammazzarlo, e guardano la scena di questo pazzo scommettitore, e a un certo punto lo prendono sul serio, non capiscono nulla di basket, capiscono solo che quello schermo tv è una slot machine, che lì ci sono i loro soldi, come finirà tutto questo, avrà mai fine tutto questo?

Facciamo anche l’ultima domanda. I Safdie sono dei grandi cineasti? Non c’è ancora risposta. Sono, questo è certo, film dopo film sempre più bravi a fare quello che gli piace fare, o che li guida per puro istinto, o che li riguarda per provenienza familiare (si ricordi la prima tappa della loro filmografia, che andrebbe forse rivista oggi con più attenzione, Daddy Longlegs) e per amori personali e generazionali. Va considerata sicuramente, nel mix ansiogeno fatto di pulsazioni a cuore aperto e anche di una certa confusione del loro filmare, una sorprendente lucidità, un’idea di sacrificio di se stessi che è, tra alti e bassi, unica e di rara intensità. À suivre.

 

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