La caduta degli dei
Arturo Lima
Non è tanto la conta dei caduti a colpire, questa sorta di auto-rivoluzione dark cupissima che conduce alla sconfitta apocalittica e mai vista dei supereroi (l’Uomo ragno?! Muore l’Uomo ragno?!): ma l’immagine subito successiva, uno dei più insostenibili finali di sempre, col vincitore finalmente libero di sedersi e godersi il meritato riposo per aver salvato l’umanità decimandola, anzi proprio dimezzandola secondo un calcolo ben preciso che comprende il suo contrario: morte uguale sopravvivenza. Necessario taglio della specie, su cui il possente mostro violaceo riflette rimirando l’orizzonte e facendosi accarezzare le membra da un dolce pallido sole. In un sol colpo viene spazzato via l’immancabile armamentario di vocaboli di genere, compresa l’ovvietà post-fumettistica dell’intento editoriale che polverizza un intero ciclo narrativo in realtà confermandone l’imperituro (questo sí) crossover.
L’unica cosa interessante dell’attuale dittatura del plot nella narrativa seriale (limitiamoci ai prodotti Marvel per ora), sono le sacche di resistenza che, nel moltiplicare a dismisura ciò che già è bi e tri dimensionale (il fumetto), riagganciano l’immagine in un luogo dove parla una lingua tutta sua e inaspettata. Il fascino assoluto di Avengers: Infinity War non è nella morte degli amati personaggi, ma nello sguardo fisso sull’immagine che si sgretola dall’interno, che si curva al punto su se stessa da arrivare ad auto-intercettarsi altrove, freddamente sinusoidale, scelleratamente impropria e impersonale (visto con i miei occhi un bambino farsi venire in mente, serissimo, di dover fare la pipì proprio durante la battaglia finale, quando gli è diventato insopportabile il puzzo di morte). Troppo cinema laddove non ne è quasi prevista presenza, questa è la vera apocalisse - l’amore per la fine - architettata da Anthony e Joe Russo per sfuggire al loro destino di shooters: ogni supereroe che sparisce o che si immalinconisce per la perdita di un suo compagno è un tassello che li conduce sulla strada della regia.
Di qui anche l’aspetto politico. Rischiare tutto nel procurare traumi e rivalse non fra i protagonisti ma fra un’immagine e l’altra, con l’idea che il conflitto sia l’unica sponda filmica (e non solo) possibile. Perciò non pù solo splendide coreografie, ironia ridotta all’osso, cupo senso di impotenza: e l’impatto annichilente con un altro orizzonte che letteralmente rompe con la verticalità e torna al corpo a corpo, all’irrisolvibile problema morale. Ossimori, contraddizioni in termini: genocidi eticamente necessari, godimento assoluto dell’hybris che, negando ogni tragica tradizione, conduce finalmente alla vittoria.
Curiosamente allora, laddove è sovraccarico il film e troppo potente il nemico, progressivamente Avengers: Infinity War assume un’aria di funerea elegia, diventa quasi sottile, si inventa un cimitero marino che ricorda i colori dell’aurora, in cui le tombe non portano dolore ma diffondono una luce necessaria e inaccettabile insieme. Vita e morte, rese indistinguibili, producono una strana forma di accecamento che coincide con una diversa possibilità per il visibile, finalmente libero (che lo si creda o no, che se ne sia consci o meno) dal business seriale.