Incontrare l’immagine originaria
Giuseppe Gariazzo
Cinema dello scrostamento, quello di Ghassan Halwani. Opera prima che narra lo sradicamento, l’esilio, l’assenza e la tenacia della memoria, Tirss, rihlat alsoo’oud ila almar’i (Erased, Ascent of the Invisible). Un cineasta, il libanese Halwani, che incarna un fare cinema r/esistenziale seguendo un percorso d’avanguardia nel quale abitano inestricabili la fissità e il movimento, le riprese dal vero e l’animazione, la parola e l’immagine che, entrambe, non sono mai una ma plurali, contenendo in sé una stratificazione senza fine di altre parole e immagini da far ri-emergere nella loro fragilità e, al tempo stesso, solidità. Tirss è un testo estremamente fisico proprio nell’urgenza di ri-portare in primo piano, con ostinazione, una materia (il corpo dell’Uomo, i corpi di una moltitudine di persone massacrate, disperse in fosse comuni, fatte sparire) strategicamente occultata da una politica di sterminio. Libano. 1975-1991. La guerra civile. 1982. Il massacro dei profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila alla periferia di Beirut. Episodi che ormai fanno parte della Storia. Eppure. Una fotografia in bianconero scattata nel 1985 o 1986 può ri-attivare il pensiero e l’azione per scendere in profondità, immergersi nel corpo del rimosso nel tentativo di incontrare l’immagine originaria, di a-scendere per osservare, ri-trovare, quello che, più che cancellato, è stato coperto dalla stratificazione su di esso del tempo e dello spazio.
Halwani parte da un indizio e attorno a esso vi costruisce un poema lancinante che stordisce lucidamente. Un ricordo (dieci anni fa gli sembrò di scorgere per strada una persona che conosceva e che vide rapire 35 anni prima, non essendo però sicuro che fosse la stessa). La decisione di mettersi alla ricerca di quel volto sepolto sotto chissà quanti strati di manifesti appiccicati sui muri di Beirut. E quella fotografia in bianconero, sulla quale il film si sofferma a lungo e più volte, che gli fu data da un fotografo; fotografia modificata dall’autore che cancellò le persone coinvolte nel rapimento lasciandovi comunque delle tracce. Sono gli elementi che ricorrono in Tirss, cartografia urbana e politica elaborata da un filmaker che effettua un lavoro da archeologo, con le sue mani munite di pennello, scalpello, raschietto, forbici, impegnate a scrostare la carta indurita dai muri lungo le strade, a scorrere con una matita e individuare su una lavagna luminosa dei volti da una massa di foto formato tessera, a ritagliare quelli di un uomo e una donna per poi disegnarli su una carta come si trattasse di un identikit.
Crea linee di memoria, Halwani, e compie una sorta di autopsia espansa: sulle fotografie accartocciate che si trovano sui muri, su quelle pulite e ordinate sul tavolo, sui materiali d’archivio (le pagine dei giornali e le immagini televisive che riportano le notizie del ritrovamento di fosse comuni), sulle mappe aeree delle zone di Beirut (viste ieri e oggi) usate per seppellire i cadaveri, sull’immensa discarica accanto al mare mostrata in dettaglio da immagini del 1991, sul registro delle persone scomparse (migliaia di ‘non-morti’, di ‘immortali’). Un’autopsia della quale sentiamo gli odori, e che Halwani conduce spingendo il suo occhio fino e oltre la distanza più ravvicinata possibile. L’occhio di Halwani, come quello di Brakhage, vuole vedere, e toccare, con i propri occhi - the act of seeing with one’s own eyes (a proposito di autopsie…). Scrostare, entrare, addentrarsi, penetrare, sporcarsi le mani. I suoni della carta strappata dai muri, del suo scollamento, ci restituiscono, altrove, il lavoro meticoloso, infaticabile, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Pellicola-carta da srotolare davanti agli occhi, come una pelle millenaria, un sudario-mummia, una pergamena di cui rivelarne la carne (come non pensare alla sigla che Yervant e Angela regalarono ad alcune edizioni, ormai lontane e anch’esse, come i corpi e i volti di Tirss, svanite e nonostante ciò indelebili, del Torino Film Festival…). Altrove, ma dialogante, l’occhio di Halwani e quello di Gianikian e Ricci Lucchi. In funzione, ben aperto, là dove nel mondo sono esistiti ed esistono luoghi devastati dalla guerra per dare loro voce, e voce agli anonimi costretti a subirla, andandoli a cercare quegli anonimi dentro le inquadrature, proprie o altrui, o le fotografie, per restituirli alla visione. Per una durata che va ben oltre quella del film che quelle immagini e quei corpi contiene.