Cronache dalla zona rossa 2
Non vi/ci basta? In tal caso c'è già l’eredità, massiccia e contingente, di questi giorni ciechi. Basterebbe considerare alcuni momenti. Straub e Bernanos (La France contre les ROBOTS), la rivoluzione e la tecnica, una passeggiata sul lago sdoppiata nella distruzione di tempi e di spazi, espansa a tutto ciò che oramai non è più conciliabile. Godard (e la sua diretta Instagram con l’Ecal di Losanna) nella sua improbabile tenerezza, con il suo sigaro spuntato, tra le mura della sua Rolle. Ancora immagine e parola (e musica) spaiate nell’impossibilità della riscrittura come nelle curve di questo contagio; gli strumenti della tecnologia a contatto con il virus della comunicazione, l’oblio dei nuovi schermi e i ricordi che furono del cinema. Il problema, della riproduzione fallace di questa realtà e la necessità così di affiancare e unire ciò che è distante. E poi Dylan, le sue nuove tracce dopo anni di silenzio. La seconda (I Contain Multitudes) una piccola gemma di sublime whitmaniano sull’essere moltitudine (Pessoa?) visionaria e sfuggente; la prima (Murder Most Foul) una torrenziale ballata/riflessione che parte dall’omicidio di John Kennedy come da Shakespeare per sbocciare in un grande affresco codificato dell’America (passando proprio per la Summer of Love e Woodstock, il crollo degli ideali - e - di una generazione) per concludersi probabilmente proprio sulle forme di cecità della storia (e, perché no, dell’oggi). Infine - come controcampo necessario - un ultimo frammento, soffice e sussurrato. Il ritorno solitario di Stipe (No time for Love like now) che ci invita in qualche modo a guardare avanti (“whatever waiting means in this new place / i am waiting for you”). Qualcosa dunque rimarrà, un qualcosa che oggi non può ancora essere di nostra conoscenza, un qualcosa che possa andare oltre alle ansie e alle paure di un orizzonte degli eventi mai così frastagliato. Lo si trova già su un sentiero che abbandona il paesello dove i fiori del maggio son trafitti dal sole e vegliano sulla valle. Lo si trova in ciò che vorremmo vicino, in chi abita le nostre memorie e le nostre metafore, in chi scuote i pensieri come un soffio di vento che annuncia l’estate. Ecco forse la radice di questa quarantena, lo scoprire di tendere a qualcosa e/o qualcuno, la mancanza e la distanza; aspettare per tornare ad amare, come mai fatto prima, l’evocazione continua che si concede prima al sogno che alla vista. Insomma, in qualche modo, torneremo a vederci; e pure a vedere la luce (anche se non sarà più quella di una volta, nel bene e/o nel male che sia). E verrà l’immagine.