Spirali-forme
Luigi Abiusi
Il sistema di permuta, di concentrica, spire a sostanza variabile che procedono nel tempo e fermano ogni volta combinazioni di senso, spazi nel falso movimento cinematografico, si accende nel niente delle tenebre; ed è rumore e bagliore di temporale, di materia neutra in ebollizione, da cui nasce Inyan, prima pietra in atto di modellarsi, e poi si scompone negli elementi per configurare il mondo, e in combinazione con il precipitare delle stelle, gli uomini usciti dalle caverne e disseminati sulla terra. E dal racconto indiano intorno a un fuoco, Spira mirabilis passa alla constatazione del filmico, delle sequenze a brulicamento spinto, alla libera associazione delle immagini, dei luoghi, che è prerogativa tanto più del documentario, svincolato dalla sanzione narrativa e appunto libero di presentare, presentificare le cose e il proprio essere rappresentativo, quello che Heidegger chiama un “asserire conforme”, al referente, ammesso che ci sia, la cosa, e non sia invece tutto a-referenziale.
È tutto qui il film, nel suo essere una rappresentazione del tutto (visto, ripreso in quanto infinita apertura alle eventualità, anche e soprattutto a quella di cadere nel nulla): cioè la verifica della convertibilità dell’essere e del nulla che scandisce la libertà di ogni ente (una singola unità di mondo considerata nella possibilità, nella sua aspettativa di vita), di ciò che è manifesto e quindi di ciò che si può dire (estetizzare) a proposito delle cose manifeste. Là dove (magari in un intermezzo posto tra una conversione e l’altra, spira appunto, che è il centro, cioè il transito, del film) il tutto è un concatenamento spirali-forme, legate imprescindibilmente tra loro (derivate da loro) da aperture sulla materia comune che di volta in volta prende fattezze diverse. Le forme sono griglie di contenimento di sostanza e senso che si aprono, si liberano alle altre forme attraverso un’infinita catena di sema (di cui le meduse scarlatte, disfacentisi e passanti all’infinito nell’altro sé, sono esemplari) che presenta ogni volta nuove sedimentazioni, combinazioni, sequenze recanti in sé il seme del mondo. Ma il concatenamento è stratificato, profondo: coinvolge le cose e le immagini che se ne hanno, e le immagini delle immagini che si hanno sulla scorta delle cose, in una concentricità anche sinottica, cartografica, se si vedono sullo schermo gli altri schermi, le altre cornici: i quadri di una lingua misteriosa che esprime la libertà dell’essere e il pericolo del nulla.
Perciò la materia oscura, Inyan, in transito metonimico (tra i sinonimi e le ripetizioni del tutto), e di tropi infiniti, passa alla terra, al marmo; e da un’apertura sui blocchi marmorei caduti al suolo, sostanza del rigenerarsi delle statue del duomo di Milano, si arriva all’abbattimento degli alberi aperti all’essenza longilinea del marmo e delle statue, nella densità dell’atmosfera, che è un imbrunire, cielo terso, un canto di sola voce, la monodia indiana transitata ora nei boschi intorno alle officine, cioè prima occorrenza di quello che poi si sgranerà in ospedale, davanti alle incubatrici (“soffi il vento; acqua profonda; li sento nella mia anima; alberi alti, caldo fuoco...”) o nel finale di Kubota, il ricercatore che aveva straziato tre meduse scarlatte per verificarne la rigenerazione. E proprio il canto aveva officiato il rito dello strazio, perchè in effetti non scempio ma gioiosa celebrazione della ri-nascita nelle incubatrici dell’acquaio. Il suono era stato percussione su lamiera; poi, con le bacchette e i dispositivi di misurazione, inveterata riprova tonale della materia appena forgiata, soffio sui tamburi, e subito fusa con il fruscio del vento fuori, del fumo fuori dai fumaioli, con lo sferragliare del treno, il fischio dai vetri della sera, che inizia il sottofondo di elettronica ambientale, ciò che era stato nei bip degli strumenti di misurazione cardiaca e ora torna impronta sulla neve, volto statuale, roccia, scrosciare d’acqua corrente.