"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

THE LAST THINGS BEFORE THE LAST (4) - The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin) (C W. Winter, Anders Edström)

Sunday, 07 June 2020 12:41

Edipo Massi, Erik Negro

La magnifica omissione

Il titolo di questo numero di film parlato - The Last Things Before The Last - è il titolo, bello e dimenticato, di una raccolta postuma di saggi (l’ultima cosa a cui stava lavorando prima di morire) di Siegfried Kracauer (titolo versione italiana: Prima delle cose ultime). Quel “fanfarone” di Kracauer, come si espresse una volta in una lettera a Scholem, in realtà non con disprezzo, ma con diabolica precisione, Walter Benjamin. Giunto alla fine del suo cammino, Kracauer si accorge che tutto il suo impegno sull’immagine e sul film non è altro che un capitolo - il capitolo fondamentale - del concetto di storia. Senza peraltro avvedersi (o facendo mostra di non avvedersene, anche se è costretto a citare il saggio su Baudelaire e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) dell’insuperata riflessione di Benjamin su questo (e altro), accorpa alcune intuizioni essenziali seguendo una strada tutta personale, che in fondo lo stesso Benjamin, con qualche bonarietà certo, gli riconosceva. Già in un testo, neanche tanto classico (ma è questo il pregio di Kracauer: non è mai tanto classico), come Film: ritorno alla realtà fisica (Theory of Film. The Redemption of Physical Reality), che andrebbe riletto oggi senza le battaglie ideologiche tra contenutisti tout court e contenutisti dello specifico filmico di allora, in verità si registravano premonizioni. Attese invisibili di quei ritorni della storia che, proprio nel momento di caduta collettiva, procurano le apocalissi dell’occhio necessarie a estrarre il significato perduto. L’intuizione di Kracauer, che facciamo nostra oggi, è di lavorare sull’unico vero dato ontologico (per usare un altro termine di allora) del film: l’omissione continua, le lacune connesse allo sguardo. Non solo la storia dell’immagine, ma la storia vera e propria, è una storia di indebolimenti e omissioni, che sono tuttavia il centro del suo continuo processo di autorigenerazione. Un piano sdrucciolevole che fa a meno finanche della tecnica per cui Kracauer, che dichiara di non essere interessato a parlare dell’animazione del colore delle nuove lenti panoramiche ecc., in realtà può con qualche giustificazione dire: “Il terreno così esplorato è poi davvero tanto ristretto?” (e cita i Lumière, Fellini, Griffith, Satiajit Ray, Ejzenštejn, Rossellini..). No, non lo è, perché è proprio in questo autodivorarsi della memoria che agisce la storia legandosi alla macchina morbida dell’occhio, sfruttando le lacune come principio del movimento stesso, come mutamento e rinascita del significato (l’ambizione o la convinzione è che le cose ultime di cui parliamo in questo numero della rivista siano in questo senso tutte esemplari: Jean-Marie Straub, Abel Ferrara, Bob Dylan…).

La lucidità di alcuni passaggi di The Last Things Before The Last (ricordiamo che il libro esce nel 1969) è impressionante:

 

“Strano potere del subconscio di tenere nascosto qualcosa che appare così evidente e cristallino quando viene casualmente alla luce”.

“È diventato difficile non pensare in termini globali, e la visione dell’umanità nella sua totalità ha cessato di essere una visione elevata. Ma mentre il mondo si viene restringendo (non siamo virtualmente onnipresenti?), esso si espande anche oltre ogni controllo”

“(Talvolta mi chiedo se il passare degli anni non accresca in noi la sensibilità per la muta implorazione dei morti; più un uomo diventa vecchio, più si sente costretto a rendersi conto che il suo futuro è il futuro del passato: la storia)” (scritto così, tra parentesi)

 

Il faro - per noi certo, ma crediamo segretamente anche per Kracauer - è sempre Benjamin. Un anno prima della pubblicazione postuma di Kracauer, tra gli altri che velocemente e con sempre più insistenza apparivano, esce il saggio che Hannah Arendt dedica a Benjamin. Qui viene detto con grande precisione: il fatto minimo, l’evento laterale, un pensiero invisibile, formano tutti, nella loro inappariscenza, l’immagine della storia, il filo nascosto che unisce le rovine dell’umanità e la sua esistenza. Ed è su questo panorama di rovine che ci addentriamo in cerca di fili nascosti. L’intreccio, il montaggio, sono la magnifica omissione che li sostanzia. Dunque ci occupiamo prima di tutto di un film di più di quasi nove ore che ha richiesto tre anni di riprese e tre anni di montaggio e che ha già segnato con forza questo apocalittico 2020. Una vita intera, con le sue voragini e le sue inezie, tutte così a portata di mano e tutte così vicine a sparire. Una cosa molto difficile da fare e da filmare, la cosa prima della cosa ultima: The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin) di C.W. Winter e Anders Edström.

“Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.” Da queste parole con cui Cesare Pavese apriva La Casa in Collina potrebbero partire un’infinita serie di traiettorie e riflessioni, anche su questi nostri giorni. Il naturalismo e la ciclicità, l’inevitabile forma del destino che si manifesta come corporeità materica del mito, gli sguardi e gli atti, ciò che resta e una dinamica possibile di futuro. Nel torrenziale film di C.W. Winter e Anders Edström tutto ciò prende forma lentamente, proprio come in un romanzo corposo e denso che scava nella profondità e che dal particolare sboccia come visione dell’universale. Dovremmo anzitutto partite dal titolo, come sempre si dovrebbe fare con i grandi film. Lavori (o forse opere, chi può saperlo) e giorni, declinazione plurale di una quotidianità che trova la sua essenza nel movimento minimo e impercettibile delle cose, degli oggetti, degli affetti. Come una (micro) cosmogonia di famiglia che pian piano si svela, pacatamente, minimamente, dove l’atto precede la parola e nel momento stesso la amplifica. Così ogni sguardo prende la prospettiva di chi osserva ciò che si compone, una trama parallela alla vita che vi aderisce costantemente per poi spaiarsi nel buio, negli intermezzi di puro suono. Un uomo, una donna, un piccolo villaggio in una valle, le loro opere, i loro giorni. L’uomo è Junji Shiojiri, di cui il film racconta l’ultima stagione la malattia e la morte. La donna è Tayoko Shiojiri, la sua compagna di vita, la vera protagonista come piano piano diventa chiaro, o meglio la sopravvissuta che può raccontare (attraverso diari da lei stessa scritti) e - ecco la sublime complicazione - rivivere, visto che nella parte del marito c’è un attore (ma non sempre, altra complicazione; e ci sarebbe anche qualcosa da dire sul coinvolgimento personale dei due registi con membri della famiglia Shiojiri).

Sarebbe fin troppo logico declinare il rapporto stesso di questo film con il reale, nella sua forma d’azione (e di dispersione) di ciò che accade (dell’accadere come dell’accaduto), del ruolo possibile di uno spettatore come del senso di attraversamento che ciò ci porta ad affrontare. Ma la radice, se così si può dire, rimane essenzialmente nella sua forma spaziale. Le montagne sopra a Kyoto, la loro dimensione quasi invisibile in campo lungo, soffocata dalla nebbia, dalla distanza schiudono questo villaggio che non conta nemmeno cinquanta abitanti. È lì che abita Tayoko. Un giorno dopo l’altro anche la vita pare andarsene, la semina e la raccolta, nelle cinque stagioni che passano fluidamente sotto i nostri occhi, si compiono come cicli nella loro inesorabile naturalità. Un rituale antropologico e metafisico, sullo scorrere delle cose senza mai aver l’impressione di poterle toccare e fermare, forse nemmeno di farle voltare verso lo spettatore. Un atto di realismo magico dove i suoni diventano essi stessi spazio di evocazione e cambio di prospettiva continua su ciò che si mostra, senza alcun contrappunto di pura estetica (il suono, elemento decisivo, è preso da C.W. Winter e gli interventi musicali contano fra gli altri: Bill Evans, Anton Webern, Bill Frisell e Tim Berne). Le lunghe intermissioni a nero sono il luogo dell’immersione e della scoperta di tutto ciò che non ci può risultare visibile, dal canto degli uccelli all’acqua che cade sottile aspettando passi gracchiare nel fango; l’esperienza di immaginarsi un immaginario, nel vuoto di ciò che oramai ci appare continuamente esposto. Ecco allora l’apparire di una forma in cui il dramma esistenziale, sia esso anche la morte, appare solo come momento necessario e transitorio, quasi assorbito dalla natura circostante; ciò è lampante nelle accennate forme notturne, strappate al buio dalla sola luce naturale, dove si amplia il silenzio e le distanze pur minime appaiono vorticose al solo suono di ciò che è esterno, superiore, inviolabile all’uomo. Non avrebbe senso nemmeno chiedersi di ciò che sia o meno realmente accaduto nella vita di Tayoko, del documento e della finzione, della messa in scena come dell’espressione di un’esistenza. E va rimandata per ora una’analisi comparata con il libro di fotografie - album gigantesco il cui precipitato è chiaramente visibile nel film - da cui, bisogna saperlo è partito il progetto e da cui si origina il film. Ciò che conta è che il tempo è sempre fermo, scorre per tornare su se stesso, unicamente per definire lo spazio in cui esso si muove prima degli stessi protagonisti. Così, nel bellissimo finale, Tayoko, rimasta sola, fa quello che ha sempre fatto, una passeggiata notturna e rientra a casa. Poi alcune inquadrature plumbee e anonime sul bosco ci accompagnano verso i titoli di coda. L’ultima è semplicemente una carreggiata vista da dentro il bosco con l’erba e le piante che sembrano distrattamente aver preso possesso della strada (la fotografia è di Anders Edström).

La forza di tutto questo affresco resta proprio la sospensione, il non dare una forma precisa a chi abita il romanzo, nel caotico brulicare della vita che si sottrae ad essere ordinata dal pensiero e dalla scrittura. È un fraseggio unico, poetico che sembra voler limare l’intensità della natura (sceneggiatura e montaggio: C.W. Winter). Sono gli oggetti a parlare, a raccontare, a evocare la presenza del passato e l’assenza di un certo presente, il confondere e il confondersi nello spazio immateriale di una natura che pare essere l’unico reale moto necessario dell’azione, che tutti noi non facciamo altro che abitare. La casa, con i suoi interni opachi e le sue stanze stracolme, immote, che tendono al vuoto. La grammatica visiva e associativa di questa mole di immagini, che si pone aldilà della semplice esperienza meditativa, parte essenzialmente da uno spazio e lascia che le storie che esso contiene possano fluire e farsi materiche d’esistenza. Ecco il fantasma di Ozu come evocazione di generazioni e identità, al confronto della parola, in ogni timido accenno apparente ed elegiaco di un passato in falso movimento. Tayoko legge fuori campo, come per caso, dei diari minimi, così simili per inappariscente potenza a quelli famosi di Ozu, con quel tocco leggero e cristallino che scandisce la vita quasi non visto. “Bel tempo, mattino freddo. I fiori sono stati consegnati. È la festa della mamma, quindi la famiglia di Yoshiko li ha spediti da Tokyo. Mi ha reso felice. Abbiamo deciso di mangiare fuori. Perciò abbiamo mangiato al Sakura Diner. Siamo tornati a casa a piedi lentamente. Le gambe di Junji non stavano benissimo, così quando siamo rientrati erano già le tre del pomeriggio. Più tardi in Tv davano Tokyo Story, così l’ho visto. Vedendolo mi ha fatto pensare che è triste diventare vecchi in qualunque periodo della storia. Alla fine del giorno sono i propri sentimenti che restano e contano. Ma il cuore diventa timido. E non si può fare a meno di notare che i corpi si consumano”. Ecco lo sbocciare di dinamiche di vita dove rendere rilevante ciò che è marginale, con l’espressione del momento, anche del più casuale e inavvertito, e la rivelazione di esso. La manifestazione di qualcosa che viene da dentro, l’espressione della durata (compresa e compressa con i propri errori interni, gli scarti e le variabili) tangibile visivamente e percorribile nel suo paesaggio sonoro. Ci sono nel film confessioni e racconti che hanno la fragilità del ricordo e l’impressione che provoca una rivelazione. “Mio padre durante la Seconda Guerra Mondiale combatteva in prima linea. Un giorno si ammalò e non si potè unire ai combattimenti. Quella notte sognò una voce che gli diceva di bere delle erbe prese da piante di melanzane. La mattina si svegliò e così fece. La febbre scese, ma la spossatezza rimase. La febbre non era più così alta da ucciderlo, ma non così bassa da permettergli di combattere. Così quando ci fu la ritirata, lo mandarono via. Mio padre ama ripetere: sono qui grazie a una pianta di melanzana”.

Ed è proprio ancora il montaggio, che sembra in questo film l’opera di un operaio sublime mimetizzato nel paesaggio, a creare un altro spazio impercettibile d’esercizio attraverso lo stupore di ciò che non si attende, riscrittura che ci porta in un provvisorio presente a cui siamo costantemente chiamati. E infine torniamo allora all’estrema, eppur semplicissima, concettualizzazione di quel titolo. A Esiodo ( Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Erga kài Hemérai, Le opere e i giorni) e forse a Rossellini, alla sua Età del ferro, all’ineluttabilità della condizione dell’uomo costretto al lavoro per poter sopravvivere, ma allo stesso tempo virtù e spazio aperto dell’esistere in cui mostrare l’essenza di una dignità. A T.S. Eliot (“...There will be time to murder and create, / And time for all the works and days of hands / That lift and drop a question on your plate; / Time for you and time for me...”) nel monologo vorticoso e strutturale di Prufrock che scolpisce un tempo attorno all’azione. In questo ogni forma spaziale si mostra nel suo aspetto definitivamente temporale; un grande gioco a cui solo il cinema, e forse qualche grande romanzo, può accedere. La voce di Tayoko legge ancora i diari prima della fine: “Stamattina presto Jinsaku-san ha chiamato per dirmi che avrebbe portato il pesce. Sono andata ad Ayabe per un po’ di spesa prima delle 9. Ho deciso di prepararmi per lo Shabu Shabu. Verso le 11 Jinsaku-san è venuto e mi ha dato sugarello, ricciola, sgombro spagnolo. Come al solito mi ha portato troppo pesce. Si è messo subito a cucinare. Hisa-chan, Hiromi-chan, Hiromi-san, Saka-chan, Yoshito-san, e così via… Ho portato il pesce ai vicini. Abbiamo pranzato con calma e abbiamo parlato molto. Ho dato a Jinsaku delle verdure e il riso e lui è andato via verso le 16. È stata una bella giornata”.

 

 

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