"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.

Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.

Tra le sue opere più importanti

  • bla bla bla
  • bla bla
  • bla bla bla bla

 

Bruno Roberti

Lorenzo Esposito

Thursday, 30 March 2017 08:07

INTERZONE – David Bowie

  

 

 

Demented Burrocacao

Mariuccia Ciotta

Giona A. Nazzaro

Thursday, 30 March 2017 07:50

Cover

filmparlato #07

Monday, 21 November 2016 10:16

Beduino (Julio Bressane)

L’anima (non) ci appartiene

Erik Negro 

Spesso, pur nell’aridità continua in cui siamo (auto)confinati, sorge l’interrogativo sul senso dell’amore, sulla sua declinazione e la sua sintassi oggi, senza preoccuparsi del suo possibile contenuto. Definire una mappatura permanente dell’amare, lo spazio del far convergere elementi in un tempo infinito, dove solo la durata possa scorrere ad alienare le nostre ossessioni. Julio Bressane è, di tutto questo, esploratore estremo ed ultimo, dall’abisso delle emozioni del farsi di un set, alla deriva cosmica della genesi di un’immagine. Ben consapevole che ora, più che mai, per poter amare dobbiamo aver il coraggio di mettere in gioco tutto, compreso il contrappasso possibile dell’oblio.

Siamo tutti navigatori, sì, sempre più legati al voler continuamente riferire il fremito caldo della luce alla fenomenologia di una lingua sconosciuta, alla radice di un sentimento. L’educazione sentimentale ora diventa la modulazione della diseducazione di coordinate perse, di etica dell’esercizio di una passione, di esperienza sensibile dell’appartenersi oscillante tra soggetto e oggetto, come tra autore e spettatore. L’esperienza degli abitanti di quel set continuo in costruzione (o distruzione?) in cui il cinema trova il suo farsi, culla di visione, embrione di carne viva che riflette il battito cardiaco e i nervi scoperti. Il gioco è flusso continuo, dove il montaggio si fa struttura liquida e impavida della scoperta e del sentimento come della loro rappresentazione. Uomo e donna, nessuno può sapere se si vedano, ma sicuramente non possono appartenersi. Rimane l’istante, l’attimo in cui si scontrano liberato da quel tempo. Poi, lo stacco, il teatro domestico in cui l’uno vive nell’altra, attraverso la passione che può detonare qualsiasi coscienza individuale.

La prima voce del film, il primo dialogo, i fonemi iniziali sono: amor / humor. È una poesia di Oswald de Andrade, essenziale ed esistenziale, come il primo sorriso di lei a cui lui non sa rispondere, flusso vitale e liberatorio. Il resto è la continua e indefinita reiterazione di un’impressione, dualismi di letteratura (da Machado de Assis ad António Vieira), filosofia (la roccia di Surley che ispirò a Nietzsche la teoria dell’eterno ritorno, il pendolo di Foucault che rimbalza nell’anima), storia (l’attrice che rappresenta la difficile scena della civetta di Atena, l’epopea del Brasile), di maschile e di femminile. Ogni nuova parola è scoperta, ogni svolta, ogni sogno che ritorna e che si evolve, ogni battaglia casalinga si fa ludica comprensione di suoni e luci, tra un’ebbrezza e una metamorfosi, ed ogni scoperta sottolinea l’incompletezza di corpo e anima. Poi l’erotismo di un trenino giocattolo su paesaggio femminile, di un sensuale spruzzo d’acqua, di un’orgasmica borsetta, di una piramide americana dal senso magico, e addirittura di una guerra in cartapesta. Ogni oggetto si fa specchio di noi stessi, ogni lettera si fa pantomima e desiderio di una fantasia, la sensualità che si impone all’oblio, o all’immaginazione della sola domanda “Quem somos nós?”

Un altro lui, un’altra lei, altri noi. In principio fu l’uomo, e l’idea che il suo amore non potesse finire, ma solamente trasformarsi. Prima venne l’immagine e poi la parola, prima venne il montaggio e poi il cinema, sarà solo l’oggetto dell’amore a cambiare, e la radice di ciò non può che essere la ferita scavata nella necessità del rinnovarsi di un altro frammento di poesia strappato alla vita, il cinema. Nella pratica del ripensare e riscrivere dello stesso Bressane, riemergono A Fada do Oriente e soprattutto Memórias de um estrangulador de loiras, che sopravvivono nella finzione di un’altra finzione, e quindi nel reale. Sarà lei ad esser strangolata, o forse no. Saranno le corde, saranno le sue stesse mani, sarà lo stesso cinema di amore e di morte. La resistenza di questa mappatura non è altro che la reiterazione continua dello svelamento della rappresentazione in una manifestazione più pura dell’esistere attraverso gesti, ombre, elementi, materie, forme e traduzioni di tutti questi significanti nel senso comune ed intimo dello scoprirsi al mondo. Il dispositivo così ancora una volta crolla nella tensione di uno sguardo uditivo ed un ascolto visivo, nell’esigenza di allontanamento e vicinanza, nella proiezione dalle infinite prospettive di una materia viva e flagrante, nell’identità sempre più libera della suggestione condivisa. Beduino (da badw, abitante) è cinema locale quanto universale del desiderio e del dono, che trova nella compenetrazione di infinite traiettorie disegnate dai corpi (come dai linguaggi) un amore arcaico e folle, moderno ed ininterrotto nello sperimentare la vita. Atto di disperatissima, e mai così dolce, tensione del conoscere e del conoscersi. Un invito a tutti coloro che abitiamo e alle anime che ci abitano.

 

 

Monday, 21 November 2016 10:14

Vejo Calavera (Kiro Russo)

Operai ubriachi nella caverna

Edipo Massi

Kiro Russo è uno di quei casi di filmmakers non giudicabili solo sul piano dei risultati – potenti quanto l’oscurità da cui traggono ispirazione – visibili, ma da inquadrare in una sorta di istantanea biografica che precede il film. L’idea stessa di cinema non è separabile dal punto in cui Kiro Russo giunge quasi casualmente in un luogo e ne viene travolto, risucchiato, per cui l’intenzione di cambiare le sorti del mondo o di fare un film coincidono fra loro e col tema principale dell’essere in lotta con la realtà prima ancora e indipendentemente dal filmarla. Ancor di più poi se la realtà in questione è una sua versione alcolica stordita fluttuante avvelenata fra altipiani stellati e tunnel minerari. Russo, insieme al suo operatore (e co-montatore e co-produttore) Pablo Paniagua, va dunque considerato a partire dal momento in cui, per questo suo esordio al lungometraggio, giunge in una lontana zona della Bolivia operaia (la pericolosa città di Huanuni) con l’unica intenzione di esplorare in prima persona l’endemico problema dell’alcolismo che affligge la madrepatria, e tra i fumi e fiumi d’alcol scorge d’improvviso i suoi personaggi, gli operai in carne e ossa, geniali attori non professionisti del film futuro, e si decide a guardarli con i loro stessi occhi, come li guarderebbe un giovane alcolizzato cui viene chiesto di prendere il posto in miniera del padre appena scomparso, assegnandosi (e assegnandoci) così la soggettiva disperata, fatta di dedizione violenza alterazione, che pure scova umanità fra le macerie. Solo a questo punto ha senso parlare di Vejo calavera (grido onomatopeico deflagrato nelle profondità della terra con cui gli operai si chiamano l’un l’altro), che di tale richiamo degli abissi è solo la scivolosa superficie, lo specchio che dall’alto invita al tuffo (banalmente, il film). Laggiù invece la vista offuscata dall’eterea e continua assunzione alcolica, genera il viaggio dark nelle viscere del pianeta (Russo ha l’intelligenza e lo spunto per fare anche della tipicità del film minerario – macchine che pompano, labirinti di tunnel, voragini senza fondo - un terminale visionario dell’assuefazione generalizzata), inventando l’inedita forma di una resistenza liquida, nichilista che sembra tuttavia indicare una nuova strada per dignità e solidarietà perdute (risalendo ancora più in superficie ci sarebbe la realtà – quella che comunemente chiamiamo realtà – delle rivolte operaie boliviane viste nei mesi passati sugli schermi). Propriamente e impropriamente si è parlato di neorealismo, e ovviamente l’appropriatezza vale solo per il discorso liquido e di notturna distorsione con cui Russo fa della luce delle tenebre una conquista rivoluzionaria, generando uno spazio politico che a sua volta fa coincidere la mappa del territorio con l’estrazione di ciò che resta dell’umano, goccia dopo goccia, barcollio dopo barcollio. I margini si piegano, ma è nella piega che raschiano umanità e alzano barricate per battaglie future. Certo, nessuna soluzione all’orizzonte, gli operai entrando in miniera offrono un sacrifico alcolico al male che si annida nei buchi della terra ostile, consci forse solo dell’immane vacuità (fatica e morti sul campo comprese) dello scavo. E la notte avanza ininterrotta e diffusa, come un secondo tremendo allagamento dell’occhio, varcando la soglia di qualche bellezza nel buio della caverna, dove anche il cinema è appena l’ultima cosa.

 

 

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