"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Si parte dal buio e dal nero, l’impossibilità del vedere è essa stessa un/il vedere. Siamo ciechi, aggrappati al nostro udito, l’audio ci porta alla sottomissione di Michelle, definisce quell’immagine che non c’è (per noi come per lei). Quel fotogramma emerge solo nello sguardo del gatto vuoto/vitreo, e lì sarà incapsulato per sempre. Il campo si apre, ora si vede lei violentata da un uomo mascherato, e noi spettatori lì, inutili e complici come il micio. Un attimo e la sua reiterazione, una ferita insanabile, spina nelle carni di un corpo in trasformazione, riflessa nei comportamenti della sua protagonista. Michelle possiede una società di videogiochi, ludoteca vivente in cui spesso la sfera dell’esposizione sessuale e del potere è un aspetto fondamentale. Allo specchio la ricostruzione di un quadro, l’esigenza di raccontare un’esperienza di vita traslata in un’analisi frammentaria ma estremamente logica dell’alta borghesia di un’Europa che forse non c’è più, o che oramai spicca solo per la sua decadenza.
Sono i fantasmi stessi di un continente a dover trovare il proprio senso, ricontestualizzati in un rapporto perverso con i media, e nello stesso rapporto della protagonista con il proprio io, nel complesso ed auto-imposto tentativo di rimozione di un evento e del suo apparente superamento, proprio attraverso il buio. Ma il limite è debole, come la carne, e la confusione di una ricerca sempre più pericolosa e misteriosa, una passeggiata sul filo del rasoio, una deriva continua di sguardi e sensazioni che attivano un senso del meraviglioso sbalorditivo, quasi impossibile da identificare, ma che a sua volta si verifica con il vivificarsi della narrazione. L’esperimento di Verhoeven allora appare come uno statico atto d’osservazione, legato al cambiare (e cambiarsi) di Michelle in conseguenza dello stupro, soprattutto in relazione con la società che le apparteneva. L’indagine del film diventa il provocatorio delirio di rivendicazione delle ferite che metaforicamente si (ri)presentano nella vita. Azioni corrisposte da un senso di necessario ed inevitabile, come tendenti a un fine spesso oscuro, difficile da intuire, designato e disegnato da un inconscio provvisoriamente inconsapevole e non sempre sotto controllo.
Verhoeven ritorna al suo cinema della fisicità più esposta, terribilmente sensuale, sorprendentemente audace nella sua originale funzionalità. Mai banale, perennemente discontinuo e a tratti sfrontato, che affascina e abbaglia. Definisce la figura della splendida Huppert (si salvi chi può…) sempre all’interno dell’inquadratura come motore unico (e spesso fine) dell’azione. Ed in quella movimentata staticità siamo noi stessa a guardarla con nuovi occhi, perchè in fondo ciò che continua a muoverla, forse anche ossessivamente, è la difesa dei suoi privilegi e l’autoaffermazione doverosa dei propri principi/progetti, nulla per lei probabilmente è cambiato. Questa impossibilità, propria dello spettatore, di ricongiugimento delle due figure di Michelle appartiene allo slittamento continuo di registri e personaggi, definendo il lavoro stesso di Verhoeven, dove il cosiddetto thriller/noir sposa fantasie segrete ai tratti dell’assurdo e a una forte componente analitica. In fondo rimane il solito dilemma, quello tra l’essere autori o attori della propria vita, quello che lei (Elle) continuamente cerca nella fusione totale del proprio Io con la sua diretta espressione ed esposizione sociale. Un’immagine, una vita, un’altra immagine, nel buio.
La séquence d’ouverture se situe vers la fin des années 1960: Clara glisse avec enthousiasme une cassette dans l’autoradio de la voiture immobilisée sur la plage pour faire découvrir à son frère et à sa petite amie Another One Bites the Dust de Queen.
Mais peut-être tout cela a-t-il d’ores et déjà commencé avant au fond, par une montée des marches cannoises venue adéquatement perturber un instant l’univers singulier et parallèle du festival: l’équipe du film, au moment de la classique pose au « sommet », manifeste silencieusement sa désapprobation quant à l’éviction de Dilma Rousseff. « Un coup d’état a eu lieu au Brésil ».
Tourné à Recife, au nord-est du pays, comme l’était déjà le premier film du cinéaste (Les Bruits de Recife, 2012), Aquarius s’inscrit donc dès le départ dans un cadre largement politique: celui d’un Etat actuellement en crise, mais aussi – c’est le récit du film – celui d’un pays plongé comme tant d’autres dans le libéralisme, d’une société et d’un quartier malmenés par des enjeux économiques. Mendonça Filho, dont le cinéma manifeste une clairvoyance et une sensibilité indéniables, poursuit ainsi son exploration du terrain qui lui appartient; la classe moyenne, incarnée ici dans le microcosme évoluant autour du personnage central, et dans les rapports, non dénués d’un certain paternalisme, qu’entretiennent les personnages avec leurs employés de maison. Une démarche plutôt singulière, exacerbée dans sa particularité par le choix d’une protagoniste féminine d’un certain âge. Sous les traits de la bouleversante Sonia Braga, c’est un portrait qui finalement se déploie sous nos yeux: une femme-enfant d’une soixantaine d’années, aussi belle qu’attirante, orgueilleuse qu’aimante, une femme forte, une femme libre.
Ancienne critique musicale, Clara vit depuis toujours dans son appartement de l’immeuble Aquarius, au bord de l’océan; elle y a vu grandir ses enfants, son époux terminer ses jours, la vie couler, tranquillement. Mais l’édifice est désormais isolé, pris d’assaut par les complexes immobiliers modernes, et Clara est la seule habitante qui a résisté aux insistantes sollicitations du promoteur.
Dépeignant les espaces avec grande habileté, que ce soit à l’aide d’élégants panoramiques ou dans la façon même dont il filme les intérieurs, le réalisateur rend compte d’un quartier en mutation, sur le point de s’éteindre. Pourtant l’omniprésence de Sonia Braga, dans chaque plan et sur chaque image, installe incontestablement le propos du côté de la résistance. Celle des lieux, celle de la mémoire – incarnée non seulement par les archives mais aussi par un rapport délicat au son et à la musique –, celle de la vie enfin: Clara, qui a vaincu un cancer du sein, flirte avec le garde-côte sur la plage le matin, joue les complices avec son neveu adoré et parfois invite un gigolo chez elle la nuit.
Le souvenir d’un film toujours est éloquent; est-ce une séquence, une image, un son, une couleur, parfois même une matière. Ce qui persiste ici est avant tout la délicatesse avec laquelle Kleber Mendonça Filho parvient à ménager un espace privilégié pour son actrice, partageant avec elle un objet dont la portée en fin de compte va bien au-delà des quelque 140 minutes de film. Avec finesse, avec modestie, et, pour citer un autre film cannois (Mimosas, Oliver Laxe, présenté à la Semaine de la critique): with love.
Dis-install cinema! dicevamo appena due numeri fa. Quello che fino a poco tempo fa era l’ormai riconosciuto travaso di cinema nei musei e una spinta uguale e contraria da parte delle tendenze arty più disparate a ‘rivedersi’ al cinema (con l’unico vantaggio di finirla con l’equivoco che il cinema sarebbe un’arte - le minuscole sono volute – e non qualcosa d’altro la cui natura prima è che non gli è data possibilità di definizione), comincia a conoscere un’ondata apparentemente indifferente ai due percorsi (perché non ci sono più percorsi, ma solo ramificazioni) e semplicemente, pervicacemente solo concettuale. Non una nuova arte concettuale per carità, ma solo una gioventù impulsivamente attratta dall’esperienza fisica pura del fare cinema, e per questo sinceramente manierista, che si permette pure una certa consistenza narrativa, laddove poi ogni lato romanzesco viene prosciugato (e spesso proprio ‘freddato’) dal desiderio della performance (hanno già pure i loro padri ideali, da Raya Martin a Ben Rivers). Cos’altro è un film come Mimosas di Oliver Laxe se non un’ingorda salita al cielo, una messa a rischio pura, anche del senso (e spesso del montaggio, costretto a delle ellissi siderali – che peraltro salvano il film da se stesso – perché semplicemente la troupe, sottoposta a uno sforzo improbo rinuncia, abbandona, non filma più), cui vorrebbe veder corrisposta nello spettatore un’altrettanto fredda riconoscenza per tanto epico spreco nella peggiore delle ipotesi, e una disfatta ipnotica, un salto telepatico oltre le immagini nella migliore. Ora, non è che con questo ci si voglia limitare alla reprimenda nostalgica di sentieri simili e già ampiamente battuti, ma con ben altro istinto cinematografico, o comunque con una idea di avventura che partiva dal cinema e trovava nel cinema ogni sua ragione d’essere (vedi, che so, Deliverance di John Boorman), ma solo dire che l’indubbia bella follia (che conferma quella dell’esordio You All Are Captains, forse meno ambizioso, ma più diretto, più paradossalmente libero) che guida Laxe a passare mesi fra le montagne più impervie con qualche mulo e un pugno d’uomini ossessi che portano a sepoltura un cadavere dall’altra parte del mondo, sconta l’evidente programmaticità concettuale al punto da non intendere mai come essenziali le peregrinazioni del racconto, la combustione degli elementi (acqua terra fuoco aria), la battaglia spontaneamente ingaggiata nei confronti del mondo, cui pure si affida di continuo. Per paradosso il troppo aver presente che è dell’atto del filmare che il film parla, non permette al film stesso di spersonalizzarsi fino a trovare un’idea di cinema (così come la natura non indifferente che per tutto il film pone ostacoli a essere filmata, subisce a sua volta l’attacco un po’ ingenuo di Laxe che vorrebbe darle un’interpretazione sacral-religiosa fino al divino…). Tutto questo insomma c’è, ma sottovalutato. Esattamente come gli artisti sottovalutano il cinema.
Si può essere convinti della minorità del cinema di Jim Jarmusch (Paterson ne è solo l’ultimo esempio piccolo e fragile), almeno tanto quanto il regista in questione non teme di essere calligrafico, lavorando tuttavia sulla ripetizione e, letteralmente, sulla linea di combustione con cui la parola mangia l’immagine restituendole asciuttezza. Paterson – il famoso paesino americano dove soggiornarono Gaetano Bresci e Allen Ginsberg, e a cui il grande poeta William Carlos Williams ha donato l’eternità di indimenticabili poemi (“A man like a city and a woman like a flower — who are in love. Two women. Three women. Innumerable women, each like a flower. But only one man — like a city”: già qui c’è tutto Jarmusch, con un po’ meno di poesia invero) – diventa il fulcro dell’ineffabile rapporto fra vita quotidiana e sogno, fra materia dell’immagine e metafisica della parola. Anche il protagonista (è quel ragazzone un po’ sexy un po’ stonato perfetto in serial come Girls e un po’ meno nella coda stellare Abrams/Lucas) fa di nome Paterson, è un autista di autobus, si sveglia tutte le mattine alla stessa ora accanto alla sua giovane moglie leggermente border line, va al lavoro, scrive poesie prima del primo giro e durante la pausa pranzo, torna a casa per cena, porta a spasso il cane e si ferma per una birra nel pub del paese prima di andare a letto. Per una settimana. Dove non è che non accada nulla, ma è il nulla che accade sufficientemente misterioso da ispirare poemi anche a una bambina dodicenne, o a puntellare il paese d’una inquietante proliferazione di gemelli, e siccome non c’è speranza, allora c’è speranza (anche quando il simpatico cagnolino si mangia il quaderno con tutti i tuoi poemi, riducendo in briciole anni di accorte e vertiginose linee di parole). Anche per il cinema. È che l’elegiaco apologo, benchè affabile e giusto, manca di sconcerto, in questo d’altronde coincidendo con l’impianto narrativo a voler essere buoni, denunciando altrimenti l’incapacità a scardinare se stessi nel film a voler essere cattivi. (Chissà perché poi Jarmusch sembra prendersi più rischi col documentario su Iggy Pop Gimme Danger, dove genialità a parte dell’artista, l’incursione continua di fasci d’archivio dà finalmente l’impressione di una maggiore veemenza e una certa voglia di liberarsi e librarsi in volo). La verità è che Jarmusch teme l’imperfezione, e se come a Paterson col suo quaderno gli dicessero che una catastrofe ha bruciato tutte le copie di tutti i suoi film, al contrario del grande poeta di provincia, a cui basta la vista su una cascata e l’incontro surreale con un misterioso viaggiatore giapponese per ricominciare a scrivere, si suiciderebbe.
Ci sono corpi letterari di per sé a tal punto filmici, da richiedere al cineasta un puro esercizio di ekphrasis (che, si sa, è altrettanto e a sua volta avventuroso). Lo sa molto bene Paul Schrader, alle prese con l’Edward Bunker di Dog Eat Dog. Nulla da aggiungere a quella corsa a perdifiato volutamente sgraziata e violenta, segnatamente livida, tossica, anti-romantica che segna tutto il romanzo dello scrittore americano. Si fanno rapine e sequestri senza motivo, perché è la vita che è andata così. Si vive (appunto) senza motivo. Si muore per caso (o perché parli troppo e il tuo compare all’improvviso decide che non ce la fa più a starti a sentire e ti spara in bocca). Certo poi Schrader (che a dire il vero negli ultimi anni si è dimostrato il più eclettico sperimentatore di una certa generazione Usa), in perfetta continuità col magnifico precedente The Canyons, ci mette del suo in termini di quel suo peculiare realismo politico che quanto è più realistico e quanto più è politico, tanto più è visionario e sregolato. L’idea è quella di una società sotto zero che osserva se stessa annegare in apnea, graffiata e violentata da lampi e abissi di puro voyeurismo nei confronti dei suoi stessi fantasmi ciondolanti incerti sul da farsi. Non si tratta più tanto di ridefinire il noir (quella è la trita accademia), ma di verificare lo stato dell’immagine in un’epoca di dislivelli inquieti e inquietanti, dove i nostri occhi vengono al contempo svuotati e disseminati. Che fare di fronte a tale gittata emozionale e luminosa incalcolabile e insieme così misera e superficiale da lasciare senza parole? Schrader lavora sulle fratture dell’identità, non temendo di filmare nel punto in cui prevale ormai una sorta di morte in vita, ben poco accordata ai nostri desideri, pronta a fagocitare e non più a sostituire il nostro sguardo. In fondo è di nuovo e sempre in autofocus, interessato più al movimento funereo dell’essersi guardati che al godimento del vedere, perché è lì che si può arrischiare un’immagine di troppo che finalmente acceca e, quando si prova a riaprire gli occhi, si è ormai parte di un gioco perverso, malato, difettoso, che ti mangia l’anima nel momento stesso in cui ti seduce. Perciò c’è poco da compiacersi se all’aspro e freddo realismo di personaggi scritti per provocare ripulsa o indifferenza (tanto quanto essi stessi sembrano psicoticamente indifferenti al mondo che affrontano come cani affamati), si accompagna una tessitura pirotecnica di luci e formati e grane e bianconero/colore (che Schrader prefigurava già nel segmento di Venezia 70 – Future Reloaded andandosene in giro per New York indossando un sistema di braccia meccaniche multi-micro-camerizzate), visto che neppure questo livello è solo giocato come sponda barocca, ma semplicemente dato come corrusco flusso senza senso, anzi proprio rivolto a un al di là del senso, che alla fine, prosciugato lui e scarnificati noi, lascia intravedere, come sempre in Schrader, una scheggia di (corrotta) spiritualità. A pensarci bene è difficile trovare oggi nel cinema americano una tale concentrazione di rabbia e di lucidità (e frustrazione, si vedano tutti gli ultimi saliscendi produttivi di Schrader) definite tuttavia come inesausta possibilità di cinema. Ne riparleremo.
Della sconfitta. Era il 2014, poco prima del Festival di Rotterdam mancò mia nonna. Indeciso sul partire o meno, mi affidai come sempre (almeno allora, quando fui giovane per davvero) alla strada. Al funerale non riuscii a piangere, scappai a casa per fare le valigie, direzione stazione, molte ore di treno mi separavano dall’Olanda ed il festival era già iniziato. Dopo l’IFFR mi trasferii direttamente a Berlino, e quelle lacrime tardavano ancora a scendere, come se mi appartenessero infinitamente, come se non potessi donarle a una realtà che sentivo sempre più fredda intorno a me. E venne l’ultimo giorno della Berlinale, il mio ultimo film, The Little House. Lungo quelle due ore le prime lacrime incominciarono a scorrere, per esplodere nel finale. Corsi alla conferenza stampa, per altro deserta, aspettai il vecchio maestro, lo abbracciai e lui ricambiò con infinita grazia. Mi sentii sconfitto in quel tardo pomeriggio, o forse solamente indegno di quel calore. In giornate come queste, in cui sento che anche mio nonno pian piano pare sfuggire a questo pianeta infame, non potevo che iniziare un piccola e dissennata riflessione su Yamada Yôji così, con quelle lacrime che forse solo lui ha potuto condensare, e di cui solo ora riesco a comprendere a pieno il significato.
Yamada è un ottantaquattrenne sereno e malinconico, un personaggio unico, infinitamente umano e terribilmente distante dal nostro caos, dalla nostra aridità, dalla nostra vacuità. Entrato da giovanissimo nella Shochiku (con Yoshitaro Nomura) se ne ritiene un umile impiegato, un lavoratore onesto ed infaticabile che nella logica infinita dei rapporti di produzione (ed espressione) di un film ricopre il ruolo del capo cantiere, di colui che deve portare a termine il progetto (quasi un centinaio di film al suo attivo come regista ed ancor di più come sceneggiatore) per consegnarlo ad un pubblico. In realtà appare ben chiaro, già dalla monumentale e splendida epopea di Tora-San (48 film, dal 1969 al 1985, tutti con protagonista lo stesso Kiyoshi Atsumi) la straordinarietà dello Yamada autore, operaio ed intellettuale di mezzo tra le epoche di un Giappone che subisce la vorticosa deriva di valori e di linguaggi, confinato in una catarsi etica paralizzata e disumanizzante. Figlio di Ozu e padre di Kore-Eda (se mai potessero valere queste riflessioni) il mite saggio di Toyonaka ancora oggi ci invita a riflettere e ad amare, attraversando il cinema, con una leggerezza sconvolgente e dolcissima, cercando quella sintassi di umanità oramai estirpata da tonnellate di sovrastrutture che noi stessi ci imponiamo. Un uomo, nulla più, cosciente della possibilità sempre più presente della sconfitta e proprio per questo convinto a perseguire la sua strada.
Anche per questi motivi il titolo della serie di Tora-San (Otoko wa Tsurai yo) traducibile in italiano con “è difficile essere uomo” risulta uno dei più completi e sfaccettati ritratti esistenziali mai compiuti al cinema. Il nostro protagonista marinaio e viaggiatore Kuruma Torajirō, è un tenero ed imbranato sbandato eroico che trae la sua origine (e la sua declinazione, in un certo senso) nei racconti dell’antichissima tradizione orale nipponica. Vaga senza una meta (in tutte le regioni del Giappone e non solo), continuamente sconfitto in amore ed incompreso dalla società, tra Don Chisciotte e Charlie Chaplin con quell’espressione eternamente fanciullesca non si arrende, ricomincia la sua lotta nel tentativo irrevocabile di diventare uomo, o almeno esserlo. Lontano dalle norme sociali che si incancreniscono e riducono l’umanità ad una semplicissima accettazione meccanica del proprio ruolo professionale e famigliare, l’antieroe dal cuore d’oro sfugge dall’eredità im-morale del padre e dalla mancata accettazione degli amici, fugge proprio per cercare le proprie radici e le confonde in ogni suo eterno ritorno a cui ogni partire pare ricondurlo. Tora-San è un uomo buono, giusto e libero e proprio e per questo in ogni finale rimane solo e malinconico, ferito nell’anima e spezzato nell’umore, ma mai domo. Riesce a trovare la gioia (apparentemente infantile ed illogica) attraverso la tristezza, giungendo sempre ad una morale di personalissima profondità, di scavo esistenziale dell’esperienza sensibile e istinto comportamentale che definisce la quintessenza dell’eroe tragico classico giapponese, doppiamente battente e battuto da una modernità che avanza con l’impossibilità completa di una sua lettura. Insegue il sentimento ma ne è vittima, aiuta gli altri ma provocherà spesso dolore, dona tutto quello che possiede perseguendo la natura riflessiva ed effimera della vita e per questo è un romantico senza speranza che deride la mancanza di libertà altrui. Mentre la società corre verso un imbarbarimento lui rimane fedele ai suoi valori, alla propria completa mancanza di pretese, a quella tradizione fondata sul rispetto e sulla comprensione, che non appartiene più in alcun modo al Sol Levante contemporaneo. Per lo stesso Yamada doveva simboleggiare colui che rimane ignaro alla modernizzazione dei tempi, colui che in fondo vive esclusivamente per portare la felicità a coloro che ama. Proprio per questi motivi questa serie (unica nell’intera storia dell’immagine e del suo movimento) si conclude solo con la prematura scomparsa di Kyoshi Astumi, il volto e l’espressione di Tora-San, l’unico a cui poteva appartenere, come se mai fosse cresciuto. Un bambino, nulla più.
Sconfitti dall’amore e dalla società come Torajirō, sconfitti dal passato come il protagonista Haruka Naru Yama no yobigoe che attraverso la vergogna di una redenzione dagli errori di impeto e passione compiuti in precedenza cerca la speranza in una vertigine di sensi di colpa. Sconfitti dalla società come lo stesso Takakura in Shiawase no kiiroi hankachi veterano ed ex carcerato, burbero e sbandato, in sintonia con le norme sociali ma spaventato dalla comunità, dedito al viaggio ed alla redenzione in eclatanti gesti di altruismo disinteressato; sconfitti dall’onore e basta, come i soggetti che ruotano intorno alla trilogia dei samurai.
Poi ci sono gli sconfitti dalla storia, proprio quelli di The Little House, un soffio al cuore, un viaggio all’indietro nel tempo, lo spazio di un momento. Basato sul pluripremiato romanzo di Koko Nakajima si incentra su una relazione d’amore che si svolge all’interno di una piccola casa; fino a quando la guerra pian piano si porterà via tutto. Per sessant’anni rimane solo la memoria, poi quella stessa casa, una spiaggia ed una lettera, un trittico (troppo) umano che condensa la genesi ed il crollo di un emozione lunga una esistenza. Davvero non serve nulla d’altro. Il presente, il passato ed il futuro si fondono e si riflettono nella lacrima del ricordo, nella messa in scena dei timidi e nudi sentimenti di un’epoca che non c’è più, metafora di un cinema che non potremo più vedere. Il senso di perdita che accompagna ogni tipo di morte, anche quella di un mondo più cosciente, non ha bisogno di nessun invocazione e può solo essere esorcizzata dall’inchiostro vivo di un ricordo. Nemmeno la speranza può morire, fino a quando ci sarà ancora una spiaggia da attraversare dove potremo riconoscerci e torneremo a raccontarci quello squarcio di durata in cui ci siamo separati. Con quello sguardo che riconcilia alla vita, lo stesso di questo Yamada senile ed infinitamente grande.
Infine gli sconfitti del tempo. Sessantanni dopo uno dei più straordinari capolavori della storia del cinema, di cui fu per altro assistente alla regia, Yamada decide personalmente di ri-girare Tokyo Monogatari, quasi volesse cercarne i risvolti attuali, modularlo sul terzo millennio e sulle spalle di un Giappone appena uscito dalla crisi nucleare (e morale) di Fukushima, e senza direzione. Ne emerge una solitudine generazionale più marcata e complessa, un senso di abbandono riflesso di apnee emozionali, un tempo che scorre in modo sempre più impercettibile e vorticoso. Tokyo Family (forse dovrebbe esser chiamato “è dura essere una famiglia”) rivifica il monumentale Ozu, lo ricontestualizza condensando il baratro della distanza che il maestro aveva già segnato; con lo stesso rigore formale, la stessa percezione dell’inquadratura, la stessa struttura dei contenuti elabora una nuova essenza dei rapporti personali in conflitto con lo sfaldamento sempre più profondo del reale. Come appreso dallo stesso maestro crea un immaginario di tensione drammatica continua senza mai calcare la mano, lasciando respirare i propri protagonisti al cospetto del passato e dei propri errori con quel senso continuo di poesia del provvisorio, di comprensione del comportamento, di accezione ai segni e simboli della società in continuo mutamento. Segna ancora una volta il crinale scosceso tra la tradizione ed il (post)moderno, portandosi dietro a se un carico di solitudine e desiderio, di amore e di famiglia. Proprio anche per questi motivi nonostante il suo apparente conservatorismo linguistico radicale e la sua profonda appartenenza culturale, come lo stesso Ozu si rivolge a tutti, interrogandoci, chiede di aprirci agli altri prima che a noi stessi, ci invita solamente a essere umani in ogni piccolo nostro gesto possibile.
Dell’umano. A pensarci bene gli sconfitti di Yamada, lo sono solo in apparenza. In apparenza perchè è la stessa convenzione attuale a sconfiggerli, il costume di un momento storico strutturato su una superficialità di animo e di linguaggi che non può appartenere allo stesso autore. Un uomo anzitutto, uno dei pochi rimasti ad aver vissuto l’esperienza diretta della guerra in Giappone, il dramma dell’atomica, l’orrore del periodo imperiale e tutte le tragiche conseguenze che la sua generazione avvertì. La resistenza e il coraggio che Yamada ci mostra dovrebbero essere l’ispirazione stessa ad un nuovo modo di vedere le cose, perchè ha ancora la forza di essere il cinema stesso che gira, di far fluire e scorrere i sentimenti per mettersi poi metodicamente a coglierli, attraversando generi e tendenze, rimanendo profondamente legato alla sua personalissima esperienza umanista. Un uomo appunto, un uomo e basta, che vive per la sua libertà di far esistere la flagranza di un sentimento nella sua sincera e drammatica essenza, con profondissimo amore. Così Yamada Yôji condivide la sorte dei suoi sconfitti, che sconfitti non sono perchè tutti riescono ancora ad amare, proprio come fa lui.