Il film falso e quello vero
Lorenzo Esposito
Ecco un giovane regista turco, Mehmet Can Mertoğlu (Albüm), che, alle prese con la storia di una coppia che finge una gravidanza documentandola con false fotografie raccolte in un falso album di famiglia per gli amici (in realtà si tratta di nascondere che stanno adottando un bambino: quindi è tutto vero!), fa di tutto per sfuggire all’incastro didascalico fra grottesco e affresco socio-politico (dalle parti di Kaurismaki) attraverso la reinvenzione continua dello spazio casalingo e l’irruzione del fuori campo come indizi filmici di uno smarrimento collettivo (di un’intera società, anche se non c’è per fortuna alcun banale sociologismo). Non a caso il film comincia con un plan straniante in cui il mancato accoppiamento fra due mucche viene velocemente risolto con un intervento artificiale sulla femmina: nessun moralismo, è solo che la prova dell’appartenenza biologica non ha più nulla a che fare con il corpo che concepisce, può benissimo bastare il surrogato di un’immagine, e in certi casi la sola pia illusione. La teoria affabulatrice della nostra simpatica famiglia (due prodotti dell’epoca dei centri commerciali, un po’ bulimici, un po’ folli, un po’ spietati) rispecchia con certa qual pedante precisione (ma il regista è molto determinato in questo), l’idea che l’immagine non perde più tempo a verificarsi o a sedurci con un secondo livello di verità, no, semmai marca una distanza, è l’impersonale fatto persona e buono per tutte le occasioni. Da qui l’umorismo giustamente greve e cinico del film, dove gli attori sono a tal punto mascherati (ingrassati, imbruttiti, illividiti), da essere invece proprio loro stessi, in modo da raddoppiare il disincanto delle identità che è alla base del film. Di nuovo, anche Albüm risente di qualche freddezza programmatica di troppo, cui il regista cerca di opporre alcuni scatti visionari potenti e inavvertiti (vedi la sequenza del furto in casa). Ma cosa possono fare questi giovani oggi costretti, prima ancora di girare, ad almeno tre anni divisi fra pitching, statements, e soldi razzolati ovunque sia possibile (è la co-produzione, bellezza), subendo poi pressioni per il mantenimento anodino della sceneggiatura fino all’ultima scena (viene voglia di scrivere romanzi, piuttosto), quando invece ciò che davvero conta è la drammaticità con cui l’immagine, per essere vista, deve correre il rischio dell’invisibilità. Anche su questo Can Mertoğlu è chiaro: verrà il giorno, sembra dire, che anche il film che faremo sarà solo il film falso per nascondere quello vero (oppure nessuno dei due).