"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

I tempi felici verranno presto (Alessandro Comodin)

Tuesday, 12 July 2016 16:47

Sfuggenti prati, vertiginosi pendii

Davide Oberto

Guadagnò la breccia, s'inerpicò per il suo coloso sentiero e fu sulle falde della gigantesca, mammutica collina di Mango. Ondosamente incombevano su lui i boschi neri, come carboniosi, e gli aperti, sfuggenti prati, su alcuni dei quali stavano greggi al pascolo, apparentegli così alti ed immoti come una torma di massi erratici arrestati da una mano miracolosa a mezzo dei vertiginosi pendii.” Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio

 

Il bosco. Il bosco dietro il muro. I tempi felici verranno presto inizia scuro, carbonioso, con due ragazzi, potrebbero essere partigiani, e probabilmente ci fa piacere pensare che sia così, che scavalcano un muro, fuggendo, e si ritrovano a vagabondare per un bosco. Cacciano conigli, ridono, fanno la lotta, giocano con un fucile abbandonato in una casa il cui proprietario è stato ucciso dalle stesse persone che stanno cercando i due ragazzi per ucciderli.

In un bosco si era già perso Alessandro Comodin ne L’estate di Giacomo. Seguendo Giacomo nel bosco alla ricerca della radura sul fiume, il cinema di Comodin lascia il cinema del cosiddetto reale per esplorare sfuggenti prati e vertiginosi pendii.

Un salto temporale e il ritorno nel mondo (del) reale. Un buco come lo specchio di Alice.

In una valle delle Alpi cuneesi, Comodin è alla ricerca del lupo. Incontra storie che raccontano di un lupo innamorato di una cerva bianca, ma anche del lupo che sbrana le pecore e del lupo che forse ha incontrato Ariane, la figlia di Dino, tornata da Parigi nelle montagne per curarsi e per stare all’aria buona. Ma che è fuggita nel bosco, con il suo asino e non è più tornata, forse sparita nel buco che essa stessa ha scavato e che l’ha portata vicino a uno stagno dove ha trovato un lupo dalle fattezze umane.

Sembra che i personaggi de I tempi felici verranno presto seguano la tradizione islandese, descritta da Ernst Jünger ne “Il Trattato del Ribelle” (1951), che lasciava ai condannati, ai prescritti, agli esclusi il “ricorso alle foreste” per diventare Waldgänger: “Chiamiamo invece Ribelle chi nel corso degli eventi si è ritrovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti - perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso ad opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all'automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo.”

Il ricorso alla foresta, al bosco è la conseguenza di una scelta, anzi è la scelta stessa, che fanno Tommaso e Arturo, i due giovani partigiani, che fa Ariane e che fa lo stesso regista.

È una scelta di estrema libertà, perché la foresta, il bosco hanno tempi altri, i buchi diventano buchi temporali in cui ci si nasconde per uscire in altri luoghi e in altri tempi e i Ribelli si nascondono, fuggono, ma riappaiono sotto altre sembianze, forse mai le stesse. Il tempo della narrazione perde linearità, a volte diventa illogico, insensato, ma non ha importanza. Ciò che diventa importante è l’atto di approfittare di quelle radure in cui la luce spezza il buio per creare di nuovo vita e di nuovo cinema, ed è interessante scoprire come il ”ricorso alle foreste” sembri rappresentare un’occasione che un certo cinema italiano stia utilizzando per raccontare storie e personaggi antichi con un’estrema libertà formale, come, per esempio, nel film di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, Il Solengo, altro escluso, Ribelle, rifugiatosi in una capanna (quella di Thoreau? O quella di Kaczynski-Unabomber) nel bosco negli Appennini toscani.

 

 

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