"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Il “baby killer” partorito dalla fantasia radicale di Larry Cohen - piuttosto ben impastata ai crimini del capitalismo e dell’imperialismo reali che tutta la sua opera svela, indignata - nella famosa trilogia ispirata, a dieci anni dai fatti, agli effetti mostruosi del farmaco tedesco talidomide e ai 1500 casi di bambini nati deformi, è a metà tra le icone horror di origine umana, o postumana - Dracula, il mostro di Frankenstein, lo zombie o la stirpe dei dannati - e quelle di origine animale come il licantropo, il Gremlin, Godzilla e King Kong, modificati e ottimizzati da esperimenti scientifici o stregoneschi o astrologici o marziani.
Nella zona twilight dell’adolescenza, dove parte light e parte dark, sensualità vampiresca soft e erotismo animale hard si incontrano e si scontrano con maggiore passione, la sensibilità, e la concentrazione di potenza metamorfica, è massima, come ci ha ben dimostrato Kristen Stewart. Crescere è controllare gli istinti di morte e le aggressività ferine istintive, attivate per la sopravvivenza. I nipotini di Twilight sono le sardine di oggi. Lo strettissimo contatto fisico della moltitudine festiva senza leader né sessi dominanti è già la rivoluzione.
Ma qui, in It’s alive (1973), It’s live again (1978) e It’s Alive III: Island of the Alive (1986), siamo alla nascita, crescita e sconfitta della soggettività desiderante sessantottina.
Alle scaturigini della adolescenza, nell'infanzia primordiale della rivoluzione, nell'era auspicata dell’Acquario e il baby killer va verso la vita altra e non verso una morte identica. Non è apocalittico. Non è integrato. Avrà bisogno certo di acido o funghetto lisergico come antidoto minimo per purificare il suo corpo dagli esperimenti nazisti cui è stato sottoposto. Ma dimostra che si può combattere la banalità del male. È pura volontà di potenza (criminale e assassina incontenibile solo secondo logiche non sue). Come l’asino che scalcia. Il maiale che divora il bimbo lasciato incustodito. Il lupo affamato e inferocito. Animali che ancora nel ‘600 venivano poi processati e giustiziati dai tribunali ecclesiastici e laici proprio come se fossero “cristiani”, perché corpi manifestamente posseduti dal diavolo o spettri non indocili di esseri umani. Nel 1685 il lupo di Ansbach da tutti ritenuto il fantasma del sindaco defunto fu spellato e il suo corpo fu rivestito da un lino color carne e la sua testa di una maschera, barba grigia compresa, più parrucca castana, e solo dopo fu impiccato. Mascherato da uomo.
Ma se è l’animale che entra nell'uomo (distruggendo ogni tabù, conformismi, sensi di colpa e concetti usurati come il peccato…) e non viceversa, nessun tribunale potrà mai giudicarlo e giustiziarlo. “Alive generation”. Mario Martone nel Sindaco del rione sanità assolve i cani sbranatori addestrati. Ma in questo caso l’animale non è addestrato. È stato drogato senza volerlo. E cerca il suo pusher per eliminarlo.
Quando il confronto armato non è più equilibrato, e una delle forze in campo è strapotente, quel che accade oggi nella Palestina sotto il dominio israeliano, nella maggior parte della Siria di Assad e dei Mig russi dopo oltre sette anni di guerra incivile, a parte il nord-est e un po’ di sud, e in Avengers: Infinity War (con i super eroi Marvel, per la prima volta, annientati da un super malvagio), l’immagine “resterà l’ultima linea di difesa contro il tempo”, documenta quel che accade.
“Qualunque cosa avverrà, e speriamo nulla di grave, l’immagine testimonierà i fatti, per i prossimi 50 anni”, ci dice questo film d’arte e di artisti combattenti (pittori, scultori, musicisti, cineasti e body-artisti) nelle prime sequenze. C’è una energia e un entusiasmo alla Dziga Vertov in questo gruppo di amici e amiche che danzano, vanno in piscina in bikini, si baciano, fumano (finché ci saranno sigarette e canne) fanno rap graffiti, discutono via radio con il nemico, e si tatuano. “Certo che ci piace vivere e alle manifestazioni dove ti sparano addosso non vogliamo più andare, per non scappare di continuo, ma affrontare questa morte con le armi in pugno per la libertà e l’eguaglianza è vivere di più”. Amiralay non è passato invano. “E poi la macchina da presa, dopo di noi, continuerà a inquadrare e a fabbricare immagini”. Non lo dice nessuno ma è questo che pensano questi ragazzi post umani.
Immagini. Non il visuale che ci ipnotizza nelle effigi giganti dei dittatori o nei tg, anche democraticamente sponsorizzati, rafforzando il potere delle parole d’ordine e dei “fake men”, ma l’immagine che scioglie le facili sintesi, libera dall’ordine e dalle gerarchie, interrompe i giuramenti e non ha paura del proprio sembiante spettrale. “Se si sa perché si ha una telecamera in mano. Se si trova il momento chiave per iniziare un film”... l’illusionismo diventerà illuminazione. I cadaveri gelidi, a Douma, 28 giugno 2012, di decine di cittadini inermi passati per le armi dalle truppe di Bashar al-Assad, sono la luce che dà energia e miccia d’accensione iniziale a questa bomba spirituale.
Presentato con successo in prima mondiale alla Mostra di Venezia e presto distribuito in Italia, Still Recording, film indipendente e outsider, nonostante il punto di vista politico coincida con i finanziamenti, ma “non omogenei”, di Qatar e Francia, è un accurato montaggio di due ore che scorrono rapide, incalzanti, fulminee, delle 450 ore girate fino al 2015 (anche da cameramen rimasti uccisi nel conflitto) nei dintorni di Damasco. Sulla guerra vista, combattuta, e subita, e dal di dentro. E inizia come un saggio da scuola, proprio con una lezione di cinema. La Siria è in rivolta dal basso contro il tiranno, c’è la capitale a portata di armi. Grande è l’ottimismo. Si studia un film d’azione e di mostri americano. Si ammira la perfezione di ogni shoot. L’inquadratura, come la mira del fucile, quando è perfetta trasforma il fotogramma in un frame autosufficiente, bello come una fotografia. “Notate la linea di sguardo del mostro, e lo spazio vuoto che attraversa...”. Riuscire a muovere attraverso una geometria di linee e sguardi ciò che è fermo. Non sanno ancora che Douma bombardata, chimicamente gasata e distrutta fino al 2018 si arrenderà definitivamente, al mostro, ad Assad, che ha trasformato la città in un vuoto assoluto, i giovani registi siriani Saeed Al Batal e Ghiat Ayoub che si schierano subito con l’Esercito siriano libero. Nonostante l’alleanza con i sunniti più fondamentalisti, i soldi sauditi e un po’ di fanatici religiosi che odiano i loro capelli lunghi, decidono di piazzare telecamere mobilissime come sensori subcutanei sulla linea del fronte, fino alla fine. In un documentario standard e in un real-movie si cerca il personaggio guida giusto e accattivante. Qui no. Le direzioni sono multiple. Il filo del discorso è futile. Nel senso etimologico dell’incrinatura nel vaso da cui fuoriesce l’acqua libera. Tanto che i nostri neuroni specchio, forse a causa del continuo muoversi della macchina dentro le macerie, quasi si volesse compiere un rito di resurrezione del cemento, si identificano più che con gli umani (una donna che cerca la madre e si scandalizza dei musulmani che sparano contro musulmani; il bambino testimone freddo di un eccidio; l’atleta che continua ad allenarsi tra gli spari perchè lo sport come la vita vince anche sui cannoni, il combattente che si sposa, il graffitista che dipinge su un muro, “non riconciliati” perché ci sono cose che non si possono comprare...) con i sacchi di terra utili al cecchino per proteggersi; con le pietre urlanti sul selciato divelto, con i muri sbriciolati dei palazzi, con i buchi che lo sniper deve fare, meglio se due, per proteggersi e colpire di più; con l’ascensore rotto che permette una carrellata verso il basso mai vista; con un tunnel sotterraneo lisergico; con un camera-camion ad alta velocità in un cunicolo che eguaglia per virtuosismo il finale di Guerre Stellari.
Sono belli e biondi, oppure arcaici e ottocenteschi e hanno sguardi di fuoco come attori hollywoodiani, questi imputati.
Fa invece già paura il calvo, implacabile Andrej Vysinskij - come uscito da un qualunque telefilm britannico invece è proprio lui - questo inquisitore capo comunista che dirigerà le grandi purghe, dal 1935 in poi, ed è già qui, zelantissimo, all’opera. Ne farà una satira feroce nel 1931 il georgiano Mikhail Kalatozof in Un buco nella scarpa che è contemporaneamente la parodia dei futuri processi staliniani e dei film borghesi anti-stalianiani. Infatti fu proibito da tutti.
Ma. Le immagini scintillano. Bianchi e neri che sembrano scolpiti da Boris Kaufman o John Alton... Le manifestazioni operaie notturne di uomini e donne a favore del Partito comunista e contro quei “traditori” da annientare sono gigantesche, religiose (come le interpretò Willhel Reich) e impressionanti. Si vede e si tocca con mano, però, che il carismatico controllo delle masse può significare altro da Roma, Berlino e Tokyo anniTrenta. Certo: piani quinquennali defatiganti, stakhanovismo obbligatorio, migrazioni in massa, sacrifici operai e proletari infiniti, ma anche partecipazione a un immane progetto eccentrico e transnazionale. Costruire un paese ‘altro’, rovesciando gerarchie sociali, giocando con i pregiudizi culturali millenari e puntando completamente su un’altra classe. Fabbricare l’uomo nuovo. Fu poi capitalismo di uno stato solo, non proprio una rivoluzione controllata dal basso e radiante. Ma senza quella fantasia che sconvolse il mondo, sulle ceneri di uno zarismo tirannico e oscurantista, che aveva cancellato (formalmente) la schiavitù contadina solo alla metà dell’800, Hitler sarebbe passato e lo sputnik mai nato.
Insomma. Inizialmente appare quasi un nockumentary, altro che Kafka, piuttosto Hazanavicius, Process (Donbass), che il cineasta ucraino Sergei Loznitsa, studi in matematica e cibernetica, prima di diventare regista, ha realizzato, dopo 25 documentari e film di finzione, autoproducendo per la tv con la sua compagnia, Atoms & Void, e soldi europei occidentali, il montaggio di rari (e inediti da decenni) materiali di repertorio audiovisivi sovietici.
Il found footage che un antico allievo come lui del Vgik (la scuola di cinema di Mosca, la più antica al mondo) avrà scoperto da studente, si riferisce alle riprese e alle registrazioni, nel 1930, del processo contro il “partito degli industriali”, una dozzina di manager e scienziati di alto livello, alla guida dell’economia nazionale tra il 1921 e il 1928, grazie alla “Nep” leniniana. Si trattò di una apertura al mercato e alla concorrenza tra industrie (pur nazionalizzate) resasi obbligatoria perché la crisi economica dello stato bolscevico, dissanguato dalla Grande Guerra, dal successivo conflitto con i “bianchi zaristi”, dall’embargo internazionale e dagli errori economici del “comunismo di guerra” obbligava a un arretramento repentino dei principi sovietici, pena la carestia nelle campagne e la fame nelle città. A dirigere le fabbriche e a ottimizzare i raccolti ci volevano insomma professionisti capaci. Da richiamare, fossero pure kulaki. Da riconquistare. Da ospitare (come Misiano, il produttore italiano di cinema) e (anche) un po’ da ...arricchire, senza che i populisti dell’epoca se ne accorgessero troppo. Come ammise Lenin, sconvolto dopo le manifestazioni operaie anti-bolsceviche e per il pane del 1920 e 1921: “Non siamo ancora civilizzati per il comunismo”. Purtroppo a quasi un secolo da quel processo non abbiamo fatto molti passi avanti. Purtroppo Lenin, che era così flessibile, morì nel 1924. Purtroppo più o meno in coincidenza con questo processo il Partito comunista dell’Urss decise di travestire i commissari del popolo che diventavano non più un organo di controllo del vertice ma la polizia del Soviet Supremo. Purtroppo 9 anni dopo Stalin aveva in pugno le masse e sbaragliato strategicamente e tatticamente ogni avversario. Cancellata la Nep nel 1928, incolpò i manager e le teste d’uovo per i ritardi e i sabotaggi che impedivano al primo piano quinquennale di decollare. Anche se in realtà funzionò e impedì all’Urss di subire i contraccolpi della Grande Crisi. Ma i sabotaggi furono reali. I ritardi reali. Gli intrighi delle borghesie anticomuniste mondiali (qui si parla di Poincaré) ci furono. Il processo servì ad altro, come rito collettivo di ritorno della Rivoluzione ai suoi principi originari. I media furono tutti coinvolti e costretti ad abbassare la complessità delle forme e semplificare le parole d’ordine. Stupisce infatti, ed è quasi un “colpo di stato verso lo spettatore”, vedere tanta gente seguire le udienze come se fosse una partita di basket, per noi che abbiamo dei processi a Bukharin & C. un immaginario composto di torture fisiche, segrete, buio, carteggi clandestini ed esecuzioni brutali. Durante il processo gli imputati confessano tutto e non si fanno difendere da avvocati (tranne uno, ma Loznitsa ha tagliato impietosamente la sua arringa), anticipando già i comportamenti della destra filo Nap e della sinistra trotskista (e pianificante) che Stalin farà fuori successivamente. Si parla tra marxisti. Il fine è l’edificazione dello stato socialista. Non è di casa il facile moralismo delle anime belle.
Insomma bisogna applicare al film di Loznitsa la stessa domanda di metodo sulla violenza storica (non “inventata” certo dal comunismo) che faceva Merleau Ponty in Umanesimo e terrore ai critici liberal delle grandi purghe come Koesler in Buio a mezzogiorno: “Ne capisci il senso marxista?”.
Dopo 11 giorni di dibattimento il verdetto finale. Condanna a morte per alcuni, poi commutata in più miti e utili pene, vista la qualità di quei cervelli “sabotatori e venduti al nemico capitalista” e la loro dichiarazione di colpevolezza. Ma, come diceva l’imputato del film di Kalatozof il problema del piano quinquennale non è il sabotaggio. Non è il “partito degli industriali”. Non è Poincaré che dalla Francia sobilla. È il culto della quantità produttiva. Si deve produrre un numero tot di scarpe. Fatto. Ma se poi le scarpe sono fatte tutte malissimo per tenere i ritmi di produzione il socialismo ha i giorni contati. Su questo punto di discussione il non marxista Loznitsa (che pure ha scritto parole bellissime in memoria di Kira Muratova pubblicate sull’ultimo numero di Film Comment) deve avere tagliato. Sbadigliando di noia.
Buddista, ma non di quelli amati da Kerouac e Ginsberg. Invece razzista, armato e xenofobo. Bersagli non più gli induisti Tamil in Sri Lanka, ma i sunniti musulmani profughi da decenni nel nord ovest della Birmania (Myanmar, per dirla coi militari), da perseguitare, picchiare, cacciare, uccidere. È di moda un po’ ovunque. Tra i seguaci del rito “theravada”, quasi la totalità del paese, cresce un pericoloso movimento virale di ispirazione fascista che programma campagne d’odio e pogrom di immigrati, guidato da un monaco baby face carismatico, estremamente pericoloso anche perchè, strumentalizzato dai dittatori militari si è poi agganciato, opportunista, alla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, oggi al governo.
Ma come raccontare questa truce tragedia, locale e globale? Tra “cinema del reale”, che poeticizza l’atmosfera, per non cadere mai nel peccato mortale dell’ideologia, e coraggio di prendere partito (afferrare il verosimile per le corna e a forza di risposte, non di domande da fare alle immagini, trasformare il film in un procedimento linguistico reale) Barbet Schroeder, come sempre, sceglie il brigatismo rosselliniano.
“La dea della conoscenza non sorride mai a coloro che trascurano gli antichi” scriveva nel 600 d.C. Bartrhari, poeta indiano (monaco 7 volte e 7 volte spretato). Una massima che Schroeder non dimentica quando dà sfondo, aria e prospettiva storico-geografica alle sue indagini - sempre approfondite, e ancora più inquietanti del soggetto che via via ha scovato - sul male e la violenza assurda all’opera nei cinque continenti (questa volta in Asia). Il mitologo romantico dell’800 Creuzer ci svelerebbe il suo segreto: “L’eccedenza, la densità di contenuto rispetto all’espressione”. Il personaggio scelto è simbolico, vale di per sé. Come si dice: è autotelico. Ma dall’espressione del suo volto si decifra un mondo a parte.
I film schroederiani saranno pure “controversi”, come afferma lo stereotipo, ma sono sorprendenti e lasciano sempre a bocca aperta. Fin dalle prime battute, quando Mister W. espone con franchezza la sua hitleriana missione.
Il buddismo, e la sua tradizionale, compassionevole saggezza, è rispettata, attraverso citazioni fuori campo di Buddha in persona, e di bodhisattva successivi, lette da Bulle Ogier. E monaci di teologica virtù, sono intervistati nel controcampo da un cineasta che non nasconde l’attrazione fatale per lo zen e il Dalai Lama ma che in questo Le vénérable W. mette con le spalle al muro proprio l’astuto demagogo populista Ashin Wirathu, 49 anni, bonzo di opportunistica grinta politica, che sfrutta la religione e le sue tossicità contagiose, per una pericolosa scalata al potere fondato su idee-forza simili a quelle di Farage & Salvini o Bin Laden & altri petrolsceicchi nell’Europa pseudocristiana o nel medio oriente wahabita.
Terzo affondo sul “terrorismo” come immaginario collettivo avvelenato a morte dai virus neocoloniali (britannico, francese, giapponese, americano), dopo Idi Amin Dada ('74) e L'avvocato del terrore (2007) sull’avvocato Jacques Vergès, il legale di Klaus Barbie, e difensore storico di irriducibili della lotta armata oltranzista e martiriologica, questa volta il grande regista franco-apolide (nato a Teheran nel '41), visto che l’agognato film su Pol Pot non riesce a chiuderlo, parte all’attacco del bonzo Ashin Wirathu, nemico pubblico n.1 dei i rohingya, profughi del Bangladesh, gli odiati musulmani che, con l’aria serafica di un leader Isis, lui indica come violentatori di donne birmane, minaccia per l’integrità della razza (ma sono solo il 4%!), invasori e nemici da eliminare, attraverso una cospicua produzione di video che drammatizzano crimini in genere inventati. Siamo al confronto cineasta contro cineasta.
Wirathu è presente massicciamente sui social media, libero dopo i 7 anni passati in carcere sui 25 della condanna ricevuta nel 2003 per aver provocato la morte violenta di 200 mila “kalar” (dispregiativo, equivalente a nigger) e l’incendio di case e villaggi rohingya. Amnistiato nel 2010 Wirathu ha ripreso a fare il “Bin Laden birmano”, immortalato nel 2013 dal Time col titolo “Il volto del terrore buddista”. Non che Schreoder sia tollerato di più...
Sconvolgono le immagni dei “pacifici” monaci devoti al non-dio Buddha, ripresi come in Furia di John Ford quando, avvolti nei mantelli color ocra e rosso, bastonano, sventrano e bruciano corpi vivi spinti dalle parole del soave venerabile. Nell’inquadratura-santino, però, sul volto dell’uomo passa, come fosse Eichmann a Tel Aviv, la smorfia psicopatica. L’immagine contraddice le dichiarazioni a sua difesa riportate sui giornali in risposta all’attacco del Time, dove nega ogni responsabilità delle violenze.
Wirathu, sostenuto dall’allora presidente-dittatore, il generale Thein Sein (che lo definiva “persona nobile”) sbandiera i principi del movimento 969 in difesa della razza contro i matrimoni misti e per il boicottaggio delle merci musulmane, il divieto di vendere e acquistare case, la limitazione delle nascite (un figlio ogni 3 anni). Il gruppo oggi si chiama Ma Ba Tha, associazione per la protezione della nazionalità e della religione, ma non è meno sovranista né suprematista.
Lo shock de Le vénérabile W. deriva dalla folla di seguaci, dalle donne adoranti, dal seguito di massa, dai singoli zombizzati che inseguono un ragazzo e lo abbattono a bastonate, e accatastano i cadaveri in un rogo apocalittico.
Molte però le voci dissonanti, gli anziani monaci che “scomunicano” il predicatore sanguinario e i giornalisti, anche stranieri, che inquadrano con destrezza i fatti. Parla anche l’inviata delle Nazioni unite Yanghee Lee, definita da Wirathu, con la sua aria diligente, una “puttana” invitata a “dare via il culo ai kalar”. Fuori campo, il Dalai Lama consola e dice “uccidere in nome della religione è impensabile”. Eppure l'oppio dei popoli continua a fare politica.
Le primavere arabe fanno bene al cinema. I tabù saltano. Alla Berlinale 2016 un esordio tunisino arriva in concorso, Inehebbek Hedi, di Mohamed Ben Attia e tutto il mondo islamico è sotto shock per Much loved, del marocchino Nabil Ayouch, sulle squadre di prostitute specializzate in giochetti erotici per magnati sauditi, proibito ma visto da tutti, sia nel maghreb che nel mashreq. Il linguaggio delle ragazze è spudoratamente di strada. Un dialetto volgarissimo, con battute umoristiche a mitraglia piene di fuck e bestemmie, che si fa carezzevole nelle scene romantiche, quando le ragazze cambiano letteralmente lingua e sussurrano con il lessico delle star egiziane (in The Wolf of Wall Street si dice cazzo o derivati 569 volte, ma qui la fantasia va oltre). C’è qualcosa di Wakamatsu e delle nouvelle vague anni ‘60 in Madame Courage del veterano algerino Merzak Allouache che in trent’anni di onesta radiografia della società martoriata, mai aveva osato parlare male, attraverso le avventure di un debosciato, Omar, delle mostruose mamme sottoproletarie o deambulare in baracche puzzolenti senza acqua degli slum, come neanche Pedro Costa.
Ma l’esordio dell’anno è À peine j’ouvre les yeux di Leyla Bouzid, figlia d’arte, regista, sceneggiatrice e attrice che ha preparato la versione femminile del film di Allouache. Una studentessa middle class destinata dai genitori alla Medicina dice no e fa rock-folk maghrebino con il suo gruppo di capelloni sfrontati, sovversivi e angariati dalla polizia segreta. Il film è ambientato a Tunisi, prima della rivoluzione “per la libertà e per la democrazia” e ci trasmette quella rabbia fatta contagiante ritmo di lotta che cacciò Ben Alì e altri despoti della zona. Il ruolo della musica (metallara soprattutto) in quelle sollevazioni dal basso è stato raccontato in libri e saggi ma questo film lo assume come stile e, più che farci la cronaca di una rottamazione e osannare come in un musicarello nostrano chi combatte i castranti Mario Carotenuto locali, è commuovente perché collega le generazioni sconfitte del passato con questa vincente, tornando molto indietro nel tempo, attraverso la musica, fino al 1981 e a Trances, il rock-movie da qualche anno restaurato da Martin Scorsese nel quale si rendeva onore alla pioneristica band marocchina Nass el Ghiwane, che, come i nostri Mc5 o Fugs, aveva cambiato il mondo e le gerarchie dei sessi che lì dove sembrano inscalfibili. Lo scatenamento della soggettività desiderante a Tunisi vuol dire anche la conquista del bar malfamato e del far tardissimo di notte, crea resistenza in famiglia e fuori, anche se chi agisce non è costretto, come nel caso di Omar, alla criminalità individuale o organizzata. Lei canta. Bellissime canzoni d’amore e micidiali song di lotta. Innestando chitarre elettriche sganciate dalle regole ferree con le armonie tradizionali incalzanti e ipnotche a forma di oud, tablah, riqq, mizhmar e kamanjah. È la Joe Strummer di un immenso Clash di massa (e che sia cacofonica per le orecchie addestrate all’arabesque arabo è sicuro, amici arabi anche anticonformisti non possono sentirla, ma chi ha visto Rude boy sa che storpiare la melodia, schiaffeggiandola sia da destra che da sinistra, vuol dire sperimentare nuove consonanze). E la questura, meno stupida di quanto non si pensi, non lo permette. Chiude i locali che l’hanno scritturata, costringono chi affitta cantine a cacciarli. I genitori, poi, non ne parliamo. E perfino un membro della band comincia a remare contro, perchè in realtà è un travestito, ma di quelli che piacciono anche ai bigotti, un poliziotto, perché di informatori della polizia era infarcita tutta la società incivile di Ben Alì. Fino a che perfino la nostra eroina rischia per gelosia di mandare tutto a monte perché litiga con l’altro leader della banda. A quel punto la polizia segreta rapisce la ragazza e le dà una di quelle lezioni che avranno gli effetti boomerang che conosciamo. Rivoluzione. Questo film “apre gli occhi” dello spettatore occidentale infatti sulla difficile lotta di quella generazione che si è trovata di fronte una dittatura dall’aspetto vellutato e dalla realtà micidialmente attenta a reprimere ogni anelito di libertà. Foucault che insegnava a Tunisi se ne accorse e ce lo ha raccontato. Coraggiosissimi i tunisini allora e ora, in fabbrica nei campi, nel commercio, nelle scuole, nelle strade. C’erano le elezioni? Ben Alì il moderatore rendeva introvabili le schede elettorali alle persone tra i 18 e i 30 anni e il gioco era fatto per il partito al potere, membro dell’internazionale socialista. Oppure. Vogliamo parlare del sesso? Oppure, più semplicemente. Vogliamo andare al bar a berci una coca? Non era così semplice, almeno per una ragazza, con il velo o con i jeans strappati. Lo vedremo nel film questo penetrare nella notte negli spazi occupati dai soli uomini. E vedremo come si riesce a liberarli. Grazie alla musica. Il “musical” tocca punte hard insospettabili. E fa capire che sono stati questi ragazzi i veri eroi che hanno capovolto il mondo. E che facevano bene a reprimerli, i metallari, i rockettari e i folk singer del maghreb e del mashreq, perchè stavano, e stanno, sconvolgendo il mondo islamico e sono i veri nemici dell’Isis e di tutti gli Isis non islamici che avvenenano la vita anche in Occidente.
Foudre, folgore, di Manuela Morgaine, 4 stagioni all’inferno. 1. L’autunno. Francia del sud: i cacciatori di saette fotografano il buio lacerato e la mappa dei fulminati. I sopravvissuti alle scariche da 300 milioni di volts mettono in scena il trauma e le evoluzioni impazzite delle sfere di fuoco.
2. L’inverno. Dopo il doc, l’horror: i depressi catatonico-malinconici ritrovano il “doppiaggio vocale” del loro dolore muto nell’elettroshock, perchè uno psichiatra eterodosso, pronipote afro-lusofono di Fanon, imprigionata quella sovrumana scarica cosmica nella macchina, schiaccia con quel male più forte e veloce un male più debole ma indelebile. 3. La primavera. Il cinema-saggio, di sommo valore archeologico perchè i templi siriani che ammiriamo non esistono più. Rasi al suolo da Assad. In Aleppo, tra i ruderi preislamici, il “folle” stilita visse secoli fa per 40 anni sulla colonna trovando dio, facendosene attraversare e sopravvivendo all’illuminazione non solo mistica: i fulmini fecondano la terra di kama, raro tartufo afrodisiaco. 4. L’estate. Il cinema-teatro: un dramma di Marivaux sulla battigia, La Disputa, l’amore è un colpo di fulmine anche tra due corpi educati illuministicamente come automi…
Se il cinema vendica i vinti del passato, è “spettrografia di Marx”, visto che è trappola di luce vellutata, e, nella ricezione, anche “sedia elettrica”, esperienza eterotopica e eterocronica, vendicherà anche le vittime dei fulmini (sacerdoti e campanili delle chiese, però, i più colpiti)? Per sfuggire alla bellezza sublime ma esiziale della scarica “anarchica” si consigliavano corone d’alloro. Già. Il film è anche perversamente, alchemicamente, dalla parte della luce. Come se indossasse la mitra sacerdotale che, prima del parafulmine, proteggeva i popoli. Il racconto egizio della creazione ricorda che l’Antenato tese l’arco, il buio si squarciò e dalla sua ferita sgorgò un fiotto di luce. Il cappello dei faraoni clematidi ha la curvatura dell’intensità luminosa nelle varie ore del giorno. La curvatura di Interstellar, di Si alza il vento… La curvatura opposta alla svastica hitleriana.