L'arpia birmana
Roberto Silvestri
Buddista, ma non di quelli amati da Kerouac e Ginsberg. Invece razzista, armato e xenofobo. Bersagli non più gli induisti Tamil in Sri Lanka, ma i sunniti musulmani profughi da decenni nel nord ovest della Birmania (Myanmar, per dirla coi militari), da perseguitare, picchiare, cacciare, uccidere. È di moda un po’ ovunque. Tra i seguaci del rito “theravada”, quasi la totalità del paese, cresce un pericoloso movimento virale di ispirazione fascista che programma campagne d’odio e pogrom di immigrati, guidato da un monaco baby face carismatico, estremamente pericoloso anche perchè, strumentalizzato dai dittatori militari si è poi agganciato, opportunista, alla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, oggi al governo.
Ma come raccontare questa truce tragedia, locale e globale? Tra “cinema del reale”, che poeticizza l’atmosfera, per non cadere mai nel peccato mortale dell’ideologia, e coraggio di prendere partito (afferrare il verosimile per le corna e a forza di risposte, non di domande da fare alle immagini, trasformare il film in un procedimento linguistico reale) Barbet Schroeder, come sempre, sceglie il brigatismo rosselliniano.
“La dea della conoscenza non sorride mai a coloro che trascurano gli antichi” scriveva nel 600 d.C. Bartrhari, poeta indiano (monaco 7 volte e 7 volte spretato). Una massima che Schroeder non dimentica quando dà sfondo, aria e prospettiva storico-geografica alle sue indagini - sempre approfondite, e ancora più inquietanti del soggetto che via via ha scovato - sul male e la violenza assurda all’opera nei cinque continenti (questa volta in Asia). Il mitologo romantico dell’800 Creuzer ci svelerebbe il suo segreto: “L’eccedenza, la densità di contenuto rispetto all’espressione”. Il personaggio scelto è simbolico, vale di per sé. Come si dice: è autotelico. Ma dall’espressione del suo volto si decifra un mondo a parte.
I film schroederiani saranno pure “controversi”, come afferma lo stereotipo, ma sono sorprendenti e lasciano sempre a bocca aperta. Fin dalle prime battute, quando Mister W. espone con franchezza la sua hitleriana missione.
Il buddismo, e la sua tradizionale, compassionevole saggezza, è rispettata, attraverso citazioni fuori campo di Buddha in persona, e di bodhisattva successivi, lette da Bulle Ogier. E monaci di teologica virtù, sono intervistati nel controcampo da un cineasta che non nasconde l’attrazione fatale per lo zen e il Dalai Lama ma che in questo Le vénérable W. mette con le spalle al muro proprio l’astuto demagogo populista Ashin Wirathu, 49 anni, bonzo di opportunistica grinta politica, che sfrutta la religione e le sue tossicità contagiose, per una pericolosa scalata al potere fondato su idee-forza simili a quelle di Farage & Salvini o Bin Laden & altri petrolsceicchi nell’Europa pseudocristiana o nel medio oriente wahabita.
Terzo affondo sul “terrorismo” come immaginario collettivo avvelenato a morte dai virus neocoloniali (britannico, francese, giapponese, americano), dopo Idi Amin Dada ('74) e L'avvocato del terrore (2007) sull’avvocato Jacques Vergès, il legale di Klaus Barbie, e difensore storico di irriducibili della lotta armata oltranzista e martiriologica, questa volta il grande regista franco-apolide (nato a Teheran nel '41), visto che l’agognato film su Pol Pot non riesce a chiuderlo, parte all’attacco del bonzo Ashin Wirathu, nemico pubblico n.1 dei i rohingya, profughi del Bangladesh, gli odiati musulmani che, con l’aria serafica di un leader Isis, lui indica come violentatori di donne birmane, minaccia per l’integrità della razza (ma sono solo il 4%!), invasori e nemici da eliminare, attraverso una cospicua produzione di video che drammatizzano crimini in genere inventati. Siamo al confronto cineasta contro cineasta.
Wirathu è presente massicciamente sui social media, libero dopo i 7 anni passati in carcere sui 25 della condanna ricevuta nel 2003 per aver provocato la morte violenta di 200 mila “kalar” (dispregiativo, equivalente a nigger) e l’incendio di case e villaggi rohingya. Amnistiato nel 2010 Wirathu ha ripreso a fare il “Bin Laden birmano”, immortalato nel 2013 dal Time col titolo “Il volto del terrore buddista”. Non che Schreoder sia tollerato di più...
Sconvolgono le immagni dei “pacifici” monaci devoti al non-dio Buddha, ripresi come in Furia di John Ford quando, avvolti nei mantelli color ocra e rosso, bastonano, sventrano e bruciano corpi vivi spinti dalle parole del soave venerabile. Nell’inquadratura-santino, però, sul volto dell’uomo passa, come fosse Eichmann a Tel Aviv, la smorfia psicopatica. L’immagine contraddice le dichiarazioni a sua difesa riportate sui giornali in risposta all’attacco del Time, dove nega ogni responsabilità delle violenze.
Wirathu, sostenuto dall’allora presidente-dittatore, il generale Thein Sein (che lo definiva “persona nobile”) sbandiera i principi del movimento 969 in difesa della razza contro i matrimoni misti e per il boicottaggio delle merci musulmane, il divieto di vendere e acquistare case, la limitazione delle nascite (un figlio ogni 3 anni). Il gruppo oggi si chiama Ma Ba Tha, associazione per la protezione della nazionalità e della religione, ma non è meno sovranista né suprematista.
Lo shock de Le vénérabile W. deriva dalla folla di seguaci, dalle donne adoranti, dal seguito di massa, dai singoli zombizzati che inseguono un ragazzo e lo abbattono a bastonate, e accatastano i cadaveri in un rogo apocalittico.
Molte però le voci dissonanti, gli anziani monaci che “scomunicano” il predicatore sanguinario e i giornalisti, anche stranieri, che inquadrano con destrezza i fatti. Parla anche l’inviata delle Nazioni unite Yanghee Lee, definita da Wirathu, con la sua aria diligente, una “puttana” invitata a “dare via il culo ai kalar”. Fuori campo, il Dalai Lama consola e dice “uccidere in nome della religione è impensabile”. Eppure l'oppio dei popoli continua a fare politica.