"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nato a Roma nel 1968 si occupa di bla, bla, bla. Collabora con Skillweb, Lynx e altre società nel campo delle nuove tecnologie di comunicazione.
Appassionato di fotografia, montagna, ecologia e libertà, ASR, subbuteo e bicicletta, grafico e webmaster spesso per lavoro, spesso per piacere.
Tra le sue opere più importanti
Non è tanto la conta dei caduti a colpire, questa sorta di auto-rivoluzione dark cupissima che conduce alla sconfitta apocalittica e mai vista dei supereroi (l’Uomo ragno?! Muore l’Uomo ragno?!): ma l’immagine subito successiva, uno dei più insostenibili finali di sempre, col vincitore finalmente libero di sedersi e godersi il meritato riposo per aver salvato l’umanità decimandola, anzi proprio dimezzandola secondo un calcolo ben preciso che comprende il suo contrario: morte uguale sopravvivenza. Necessario taglio della specie, su cui il possente mostro violaceo riflette rimirando l’orizzonte e facendosi accarezzare le membra da un dolce pallido sole. In un sol colpo viene spazzato via l’immancabile armamentario di vocaboli di genere, compresa l’ovvietà post-fumettistica dell’intento editoriale che polverizza un intero ciclo narrativo in realtà confermandone l’imperituro (questo sí) crossover.
L’unica cosa interessante dell’attuale dittatura del plot nella narrativa seriale (limitiamoci ai prodotti Marvel per ora), sono le sacche di resistenza che, nel moltiplicare a dismisura ciò che già è bi e tri dimensionale (il fumetto), riagganciano l’immagine in un luogo dove parla una lingua tutta sua e inaspettata. Il fascino assoluto di Avengers: Infinity War non è nella morte degli amati personaggi, ma nello sguardo fisso sull’immagine che si sgretola dall’interno, che si curva al punto su se stessa da arrivare ad auto-intercettarsi altrove, freddamente sinusoidale, scelleratamente impropria e impersonale (visto con i miei occhi un bambino farsi venire in mente, serissimo, di dover fare la pipì proprio durante la battaglia finale, quando gli è diventato insopportabile il puzzo di morte). Troppo cinema laddove non ne è quasi prevista presenza, questa è la vera apocalisse - l’amore per la fine - architettata da Anthony e Joe Russo per sfuggire al loro destino di shooters: ogni supereroe che sparisce o che si immalinconisce per la perdita di un suo compagno è un tassello che li conduce sulla strada della regia.
Di qui anche l’aspetto politico. Rischiare tutto nel procurare traumi e rivalse non fra i protagonisti ma fra un’immagine e l’altra, con l’idea che il conflitto sia l’unica sponda filmica (e non solo) possibile. Perciò non pù solo splendide coreografie, ironia ridotta all’osso, cupo senso di impotenza: e l’impatto annichilente con un altro orizzonte che letteralmente rompe con la verticalità e torna al corpo a corpo, all’irrisolvibile problema morale. Ossimori, contraddizioni in termini: genocidi eticamente necessari, godimento assoluto dell’hybris che, negando ogni tragica tradizione, conduce finalmente alla vittoria.
Curiosamente allora, laddove è sovraccarico il film e troppo potente il nemico, progressivamente Avengers: Infinity War assume un’aria di funerea elegia, diventa quasi sottile, si inventa un cimitero marino che ricorda i colori dell’aurora, in cui le tombe non portano dolore ma diffondono una luce necessaria e inaccettabile insieme. Vita e morte, rese indistinguibili, producono una strana forma di accecamento che coincide con una diversa possibilità per il visibile, finalmente libero (che lo si creda o no, che se ne sia consci o meno) dal business seriale.
Quando il confronto armato non è più equilibrato, e una delle forze in campo è strapotente, quel che accade oggi nella Palestina sotto il dominio israeliano, nella maggior parte della Siria di Assad e dei Mig russi dopo oltre sette anni di guerra incivile, a parte il nord-est e un po’ di sud, e in Avengers: Infinity War (con i super eroi Marvel, per la prima volta, annientati da un super malvagio), l’immagine “resterà l’ultima linea di difesa contro il tempo”, documenta quel che accade.
“Qualunque cosa avverrà, e speriamo nulla di grave, l’immagine testimonierà i fatti, per i prossimi 50 anni”, ci dice questo film d’arte e di artisti combattenti (pittori, scultori, musicisti, cineasti e body-artisti) nelle prime sequenze. C’è una energia e un entusiasmo alla Dziga Vertov in questo gruppo di amici e amiche che danzano, vanno in piscina in bikini, si baciano, fumano (finché ci saranno sigarette e canne) fanno rap graffiti, discutono via radio con il nemico, e si tatuano. “Certo che ci piace vivere e alle manifestazioni dove ti sparano addosso non vogliamo più andare, per non scappare di continuo, ma affrontare questa morte con le armi in pugno per la libertà e l’eguaglianza è vivere di più”. Amiralay non è passato invano. “E poi la macchina da presa, dopo di noi, continuerà a inquadrare e a fabbricare immagini”. Non lo dice nessuno ma è questo che pensano questi ragazzi post umani.
Immagini. Non il visuale che ci ipnotizza nelle effigi giganti dei dittatori o nei tg, anche democraticamente sponsorizzati, rafforzando il potere delle parole d’ordine e dei “fake men”, ma l’immagine che scioglie le facili sintesi, libera dall’ordine e dalle gerarchie, interrompe i giuramenti e non ha paura del proprio sembiante spettrale. “Se si sa perché si ha una telecamera in mano. Se si trova il momento chiave per iniziare un film”... l’illusionismo diventerà illuminazione. I cadaveri gelidi, a Douma, 28 giugno 2012, di decine di cittadini inermi passati per le armi dalle truppe di Bashar al-Assad, sono la luce che dà energia e miccia d’accensione iniziale a questa bomba spirituale.
Presentato con successo in prima mondiale alla Mostra di Venezia e presto distribuito in Italia, Still Recording, film indipendente e outsider, nonostante il punto di vista politico coincida con i finanziamenti, ma “non omogenei”, di Qatar e Francia, è un accurato montaggio di due ore che scorrono rapide, incalzanti, fulminee, delle 450 ore girate fino al 2015 (anche da cameramen rimasti uccisi nel conflitto) nei dintorni di Damasco. Sulla guerra vista, combattuta, e subita, e dal di dentro. E inizia come un saggio da scuola, proprio con una lezione di cinema. La Siria è in rivolta dal basso contro il tiranno, c’è la capitale a portata di armi. Grande è l’ottimismo. Si studia un film d’azione e di mostri americano. Si ammira la perfezione di ogni shoot. L’inquadratura, come la mira del fucile, quando è perfetta trasforma il fotogramma in un frame autosufficiente, bello come una fotografia. “Notate la linea di sguardo del mostro, e lo spazio vuoto che attraversa...”. Riuscire a muovere attraverso una geometria di linee e sguardi ciò che è fermo. Non sanno ancora che Douma bombardata, chimicamente gasata e distrutta fino al 2018 si arrenderà definitivamente, al mostro, ad Assad, che ha trasformato la città in un vuoto assoluto, i giovani registi siriani Saeed Al Batal e Ghiat Ayoub che si schierano subito con l’Esercito siriano libero. Nonostante l’alleanza con i sunniti più fondamentalisti, i soldi sauditi e un po’ di fanatici religiosi che odiano i loro capelli lunghi, decidono di piazzare telecamere mobilissime come sensori subcutanei sulla linea del fronte, fino alla fine. In un documentario standard e in un real-movie si cerca il personaggio guida giusto e accattivante. Qui no. Le direzioni sono multiple. Il filo del discorso è futile. Nel senso etimologico dell’incrinatura nel vaso da cui fuoriesce l’acqua libera. Tanto che i nostri neuroni specchio, forse a causa del continuo muoversi della macchina dentro le macerie, quasi si volesse compiere un rito di resurrezione del cemento, si identificano più che con gli umani (una donna che cerca la madre e si scandalizza dei musulmani che sparano contro musulmani; il bambino testimone freddo di un eccidio; l’atleta che continua ad allenarsi tra gli spari perchè lo sport come la vita vince anche sui cannoni, il combattente che si sposa, il graffitista che dipinge su un muro, “non riconciliati” perché ci sono cose che non si possono comprare...) con i sacchi di terra utili al cecchino per proteggersi; con le pietre urlanti sul selciato divelto, con i muri sbriciolati dei palazzi, con i buchi che lo sniper deve fare, meglio se due, per proteggersi e colpire di più; con l’ascensore rotto che permette una carrellata verso il basso mai vista; con un tunnel sotterraneo lisergico; con un camera-camion ad alta velocità in un cunicolo che eguaglia per virtuosismo il finale di Guerre Stellari.
You have to hand it to Gaspar Noé: he sure knows how to catch the viewer off guard. As much as you may dislike him, Noé always finds a new way for you to hate him. All this obviously looks like a perfectly oiled self-promotion engine that works brilliantly, especially in the festival circuit and in the programmers' outback. The director himself came up with a brilliant press release in which he mocked critics about their dislike for his work (the short version for it is basically, “Now try this!”). But what looked like a brazen act of bravado is actually, if you pay closer attention, a request for a conversation that is yet to be had on his work. Because if you shed away all the gimmicks and effects that create the white noise which is the stuff people talk and write about when they think of Noé, what you are left with are still images. Sometimes, quite unique images that conceal rather interesting films. Let’s put it this way: what if Gaspar Noé was the equivalent (with all the shades of obvious differences in-between...) of William Castle in the European art-house auteur-driven cinema? Castle knew how to get some serious kicks out of his audience and promote himself as a patented and trustworthy “shlockmeister”; “tingling” them to get jolts and chills worth their money. Noé evidently dreams of being an important auteur with a capital A. He grew up devouring tons of films, the “good” ones with the “bad” ones; he craves recognition even though he might pretend otherwise. On the other hand, he simply cannot resist a “good” trick. He loves to play with cinema. He has this carnival side to him that comes directly from the cheaper and sleazier B-movies he adored on VHS (some of the same ones he tributes with an irritatingly sincere homage in the opening of Climax). Sometimes it works (depending on your taste...), sometimes it doesn’t. Sometimes, you just get glued to the screen even though you can’t help thinking something has gone completely wrong while at the same time you reluctantly admire his childlike arrogance that gets its claws in you through sheer willpower. Climax works like this. It (seems to) offer(s) itself like a reflection on the French state of the union in the wake of the Bataclan massacre proudly declaring its Frenchness (like a long delayed nod to the expired “French touch” in house music...) and thus immediately injecting the viewer with the suspicion “Is this the way self-styled cool auteurs have gone Macron?”. But you need to hang on. A fierce and frenzied choreography, filmed in one breathtaking take, unfolds for what seems to be an eternity... and then it goes on and on. But some cracks begin to appear... while the long take goes on. The perfectly-knit unity of the dance ensemble falls apart while the film gets tighter and tighter. A thought begins to loom: could this be Noé’s take on Argento’s Suspiria? All the clues are there: a dance academy, a mastermind that drives everyone else crazy, a huis clos, the overbearing presence of pulsating music. Climax is Gaspar Noé literally taking his cinema into the void. Relentless and brutal, yet exhilaratingly intoxicating, he literally raises a hymn to the yet unseen possibilities of cinema. The physicality of it all is the perfect reminder that cinema is still something that you craft. Bodies, lights, movement, angles: all these elements come together in Noé’s Climax in a declaration of love: this is how we still make cinema. The slightly disquieting authoritarian stance of Irreversible is gone, but Climax is no less discomforting. You can feel that the architect twirling above has let go of his grip on the viewer’s eyes (it already happened with Love) but the outcome isn’t bleak any lesser. Cinema is no longer a collective dream (or project...) but a bad acid trip gone awry. Climax is the film showing how France (and the rest of Europe and the world as well...) rips herself apart. It’s ugly, violent, but weirdly fascinating as well. Noé’s long take feels like a documentary observational strategy. An exercise in entropy. As if cinema were really the very last element trying to keep it all together... but it is obviously bound to fail. Noé’s sardonic and bitter grin suggests that his film should have been branded anti-Climax... “not with a bang, but a whimper”. And, for once, even though some hints were already available in Enter the Void and Love, Noé really seems to care. Which is good news.
Singolare, e forse doveroso, che il film di chiusura di questa edizione (e, forse, anche di questa epoca) della splendida sezione “Signs of Life” locarnese fosse un’opera come Hai shang cheng shi (The Fragile House) del giovane Lin Zi. Un film programmatico e umanissimo che vive del suo mistero continuo ed individua - anche inconsapevolmente - quali siano ancora le traiettorie possibili dell’affrontare il cinema come movimento di immagini, in movimento quasi concentrico attorno alla realtà come ai suoi protagonisti. La chiave è il conflitto e la sua declinazione famigliare, proprio nel veglione di Capodanno, nella deriva di prestiti e debiti all’interno di un paese/continente ormai irriconoscibile, oscillante tra precarietà e vendetta, coscienza ed indifferenza. Il set è una quinta in definizione continua dove i bagliori scomposti dei fuochi artificiali si scontrano con una notte claustrofobica al commissariato. La morale (?) è un viaggio, definito a parabola di una notte, nei piccoli e grandi disastri della miseria umana e della provvisorietà cui essa continuamente ci pone di fronte.
La sostanza messa in scena dalla forma. Nella lite tra sorelle come nell’implosione dei rapporti c’è la destrutturazione famigliare (e morale) di una Cina in continuo mutamento, che nel suo sviluppo vorticoso esige nuovi possibili metodi di rappresentazione. Impossibile è un unico punto di vista e improbabile una linearità narrativa dato un tempo dilatato ed uno spazio scomposto. Proprio in questo rapporto di opposizione (e vicinanza) lavora Lin Zi sdoppiando - e triplicando – l’immagine in split screen che somigliano a canali istallativi, variando colore vivido e b/n contrastato, riprese fisse e camera a mano, dissolvenze soffici e spaesanti time-lapse. Ecco perché la struttura del poliziesco e i crismi del dramma sociale appaiono come depistaggio o pretesto, un punto di fuga per dialogare sul visibile e sull’apparente, filmare e montare la forma al lavoro della sostanza stessa. Ciò che appare come dispositivo di sofisticazione, in realtà diventa strumento dialettico ed interpretativo tra le parti in campo (e quelle fuori). Fare film politici è ancora fare film in maniera politica, e lo sarà sempre.
Mascherare un’immagine è allo stesso tempo moltiplicarla, renderla più possibilmente completa attorno ai punti di vista, definendo quanto essa (e la narrazione che rappresenta) sia costantemente polimorfa e straniante. Lin Zi ci porta quasi in uno stadio di sogno lucido e stilizzato, abbattendo qualsiasi variabile percettiva nell’ottica di un nuovo possibile pedinamento necessario a descrivere questo mutamento. La sperimentazione formale diventa sostanziale perché sottolinea una realtà straordinariamente complessa e priva di radici tangibili, con figure disperse ed isolate in un paesaggio urbano spaventoso, somigliante a un reticolato mentale in continuo mutamento. Tutto in una notte, un’apparenza che rimane a tratti inspiegabile e misteriosa, profondamente provvisoria. Un film che prova a liberarci da quella (magnifica) ossessione del cinema come questione di spazi o di tempi, cortocircuitandoli a vicenda, rendendo infiniti i piani e le prospettive, alienando prima gli spettatori che gli attori. Lavoro complesso, a tratti sghembo e quasi incomprensibile, che vuole osare e mettere in discussione ciò che stiamo guardando nell’ottica di quello (e non solo l’anno) che verrà; ma cos’è il futuro (possibile), se non questo.
Sono belli e biondi, oppure arcaici e ottocenteschi e hanno sguardi di fuoco come attori hollywoodiani, questi imputati.
Fa invece già paura il calvo, implacabile Andrej Vysinskij - come uscito da un qualunque telefilm britannico invece è proprio lui - questo inquisitore capo comunista che dirigerà le grandi purghe, dal 1935 in poi, ed è già qui, zelantissimo, all’opera. Ne farà una satira feroce nel 1931 il georgiano Mikhail Kalatozof in Un buco nella scarpa che è contemporaneamente la parodia dei futuri processi staliniani e dei film borghesi anti-stalianiani. Infatti fu proibito da tutti.
Ma. Le immagini scintillano. Bianchi e neri che sembrano scolpiti da Boris Kaufman o John Alton... Le manifestazioni operaie notturne di uomini e donne a favore del Partito comunista e contro quei “traditori” da annientare sono gigantesche, religiose (come le interpretò Willhel Reich) e impressionanti. Si vede e si tocca con mano, però, che il carismatico controllo delle masse può significare altro da Roma, Berlino e Tokyo anniTrenta. Certo: piani quinquennali defatiganti, stakhanovismo obbligatorio, migrazioni in massa, sacrifici operai e proletari infiniti, ma anche partecipazione a un immane progetto eccentrico e transnazionale. Costruire un paese ‘altro’, rovesciando gerarchie sociali, giocando con i pregiudizi culturali millenari e puntando completamente su un’altra classe. Fabbricare l’uomo nuovo. Fu poi capitalismo di uno stato solo, non proprio una rivoluzione controllata dal basso e radiante. Ma senza quella fantasia che sconvolse il mondo, sulle ceneri di uno zarismo tirannico e oscurantista, che aveva cancellato (formalmente) la schiavitù contadina solo alla metà dell’800, Hitler sarebbe passato e lo sputnik mai nato.
Insomma. Inizialmente appare quasi un nockumentary, altro che Kafka, piuttosto Hazanavicius, Process (Donbass), che il cineasta ucraino Sergei Loznitsa, studi in matematica e cibernetica, prima di diventare regista, ha realizzato, dopo 25 documentari e film di finzione, autoproducendo per la tv con la sua compagnia, Atoms & Void, e soldi europei occidentali, il montaggio di rari (e inediti da decenni) materiali di repertorio audiovisivi sovietici.
Il found footage che un antico allievo come lui del Vgik (la scuola di cinema di Mosca, la più antica al mondo) avrà scoperto da studente, si riferisce alle riprese e alle registrazioni, nel 1930, del processo contro il “partito degli industriali”, una dozzina di manager e scienziati di alto livello, alla guida dell’economia nazionale tra il 1921 e il 1928, grazie alla “Nep” leniniana. Si trattò di una apertura al mercato e alla concorrenza tra industrie (pur nazionalizzate) resasi obbligatoria perché la crisi economica dello stato bolscevico, dissanguato dalla Grande Guerra, dal successivo conflitto con i “bianchi zaristi”, dall’embargo internazionale e dagli errori economici del “comunismo di guerra” obbligava a un arretramento repentino dei principi sovietici, pena la carestia nelle campagne e la fame nelle città. A dirigere le fabbriche e a ottimizzare i raccolti ci volevano insomma professionisti capaci. Da richiamare, fossero pure kulaki. Da riconquistare. Da ospitare (come Misiano, il produttore italiano di cinema) e (anche) un po’ da ...arricchire, senza che i populisti dell’epoca se ne accorgessero troppo. Come ammise Lenin, sconvolto dopo le manifestazioni operaie anti-bolsceviche e per il pane del 1920 e 1921: “Non siamo ancora civilizzati per il comunismo”. Purtroppo a quasi un secolo da quel processo non abbiamo fatto molti passi avanti. Purtroppo Lenin, che era così flessibile, morì nel 1924. Purtroppo più o meno in coincidenza con questo processo il Partito comunista dell’Urss decise di travestire i commissari del popolo che diventavano non più un organo di controllo del vertice ma la polizia del Soviet Supremo. Purtroppo 9 anni dopo Stalin aveva in pugno le masse e sbaragliato strategicamente e tatticamente ogni avversario. Cancellata la Nep nel 1928, incolpò i manager e le teste d’uovo per i ritardi e i sabotaggi che impedivano al primo piano quinquennale di decollare. Anche se in realtà funzionò e impedì all’Urss di subire i contraccolpi della Grande Crisi. Ma i sabotaggi furono reali. I ritardi reali. Gli intrighi delle borghesie anticomuniste mondiali (qui si parla di Poincaré) ci furono. Il processo servì ad altro, come rito collettivo di ritorno della Rivoluzione ai suoi principi originari. I media furono tutti coinvolti e costretti ad abbassare la complessità delle forme e semplificare le parole d’ordine. Stupisce infatti, ed è quasi un “colpo di stato verso lo spettatore”, vedere tanta gente seguire le udienze come se fosse una partita di basket, per noi che abbiamo dei processi a Bukharin & C. un immaginario composto di torture fisiche, segrete, buio, carteggi clandestini ed esecuzioni brutali. Durante il processo gli imputati confessano tutto e non si fanno difendere da avvocati (tranne uno, ma Loznitsa ha tagliato impietosamente la sua arringa), anticipando già i comportamenti della destra filo Nap e della sinistra trotskista (e pianificante) che Stalin farà fuori successivamente. Si parla tra marxisti. Il fine è l’edificazione dello stato socialista. Non è di casa il facile moralismo delle anime belle.
Insomma bisogna applicare al film di Loznitsa la stessa domanda di metodo sulla violenza storica (non “inventata” certo dal comunismo) che faceva Merleau Ponty in Umanesimo e terrore ai critici liberal delle grandi purghe come Koesler in Buio a mezzogiorno: “Ne capisci il senso marxista?”.
Dopo 11 giorni di dibattimento il verdetto finale. Condanna a morte per alcuni, poi commutata in più miti e utili pene, vista la qualità di quei cervelli “sabotatori e venduti al nemico capitalista” e la loro dichiarazione di colpevolezza. Ma, come diceva l’imputato del film di Kalatozof il problema del piano quinquennale non è il sabotaggio. Non è il “partito degli industriali”. Non è Poincaré che dalla Francia sobilla. È il culto della quantità produttiva. Si deve produrre un numero tot di scarpe. Fatto. Ma se poi le scarpe sono fatte tutte malissimo per tenere i ritmi di produzione il socialismo ha i giorni contati. Su questo punto di discussione il non marxista Loznitsa (che pure ha scritto parole bellissime in memoria di Kira Muratova pubblicate sull’ultimo numero di Film Comment) deve avere tagliato. Sbadigliando di noia.
L’uomo è l’essere socchiuso.
Gaston Bachelard, La poetica dello spazio
Paura della libertà fu scritto da Carlo Levi nel ’39, quando la guerra era ormai alle porte. È uno di quei “libri dell’anno zero”, come lì definì Carlo Ginzburg: «Proporrei una piccola costellazione di libri, alquanto eterogenea, se non addirittura stravagante, che comprende, oltre alla Dialettica dell’illuminismo e al Mondo Magico, Paura della libertà di Carlo Levi, l’Apologia della storia di Marc Bloch, e perfino Une histoire modèle di Raymond Queneau. Che cosa hanno in comune questi libri? Io li chiamerei i libri dell’anno zero: sono tutti scritti tra il 1939 e il 1944, secondo prospettive completamente diverse, che però presuppongono tutte il crollo, la fine di un mondo (e in un certo senso del mondo) provocati dall’avanzata, che a un certo punto potè parere inarrestabile, degli eserciti nazisti. In questa situazione sorgeva la domanda: com’è stato possibile arrivare a questo? E se la storia ha portato a questo, quali sono le condizioni di pensabilità della storia?».
Già, come si è potuti arrivare alla rinuncia e se possibile anche allo svilimento della libertà? Innanzitutto bisogna intendersi su cosa significhi questa parola, quanto mai atta ad essere manipolata da politicanti di ogni risma o ad essere usata come slogan ideale per le pubblicità di automobili (insieme a “rivoluzione”). E se questi significati poveri e imbarazzanti non vengono messi in discussione non è probabilmente un caso. Come dice Levi, nei tempi bui vietare la libertà di parola è giusto una formalità, perché le discussioni e i luoghi che le permettono si spengono da soli, di morte naturale.
La libertà, dunque. Colpisce come in questo libretto venga espressa una concezione che sbaraglia in un colpo solo le lotte di rivendicazione insieme alla fiducia nelle leggi, così come gran parte della filosofia precedente e di quella successiva.
La libertà è prima un fatto individuale che sociale: non è una questione di contratti, di accordi o di una rappresentanza che garantisca che “la mia libertà finisce dove inizia la tua”. Ci vogliono persone che pratichino la libertà, e solo in questo modo la comunità potrà farsene espressione e luogo privilegiato. I movimenti “spartachisti”, nonostante possano suscitare un’umana simpatia, non fanno che riconfermare la divisione tra schiavi e privilegiati che costituisce lo Stato. Per questo sono destinati al fallimento, ovvero a non cambiare nulla.
Ma questa libertà dell’individuo non si compra al mercato, non è già data. Non è l’autodeterminazione del soggetto cara a Kant e razionalisti vari, ma neanche il suo completo venir meno, foglia trascinata dal vento debole del ‘900.
Queste tendenze equivalgono a due degenerazioni indicate da Levi. La prima è l’arida ragione calcolante, dimentica di ogni passione, dove ogni autentico rapporto umano è ormai impossibile. La seconda è il confondersi con l’indeterminato, che è anche bestialità e paura, fonte delle peggiori dittature.
Dov’è allora la libertà? È esattamente nel mezzo. Appartiene a quell’essere umano determinato che riesce ad accogliere in sé un po’ di indeterminato. Significa convivere con l’animale in noi senza esserne fagocitati, diventare adulti rimanendo un po’ bambini. Come dice Levi: «Non serve essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni. Poiché la passione è il luogo del contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato, è il fecondo sonno immortale, l’eterno ritorno a un indistinto anteriore - e il problema è essere se stessi, essere liberi, in questo ritorno necessario».
Curiosamente, diversi di quei “libri dell’anno zero” parlano del dramma epocale che segnò la nascita della coscienza, dell’identità, del soggetto, al costo di un doloroso distacco da quel magma indistinto, da quella realtà dove l’io e l’altro non si distinguevano. Un percorso storico che ogni bambino ripercorre nella sua crescita.
Forse perché arrivati alla “fine del mondo” c’era bisogno di ripensarne anche l’inizio. E Levi ci dice che è proprio lì che bisogna sciogliere il nodo della libertà. Distaccarsi completamente da quel caos primigenio è condannarsi ad una lenta morte, stanco nichilismo che sopprime ogni differenza. Ma confondersi con esso è una paurosa schiavitù, foriera di idoli religiosi o statali che siano.
Essere liberi è allora camminare su uno stretto crinale, arte del funambolo. Precario equilibrio tra ragione e istinto, tra un ordine asfissiante e un disordine che distrugge.
Bisogna essere forti e allo stesso tempo aperti per accogliere l’illimitato e gioirne, senza esserne sopraffatti. Per accettare che non ci sono regole prestabilite e che il limite siamo solo noi stessi. Solo così è possibile la vera creazione, quella che “strappa” qualcosa al caos e che apre invece di chiudere. L’unico luogo da cui può sprigionarsi la pace, l’amore, l’arte e la poesia, autentiche espressioni di libertà. Perché il caos, oltre a trascinare nel disfacimento e nella perdita, è anche la fonte della creatività, della vita. Ma se invece di affrontarlo e accoglierlo se ne ha paura, ecco l’invenzione di tutta una serie di limiti - idoli, religioni, leggi, regole - per tenerlo a distanza e condannarsi alla perdita della libertà, alla schiavitù di sé e dell’altro.
L’analisi di Levi è preziosa perché non cerca risposte facili, e scava in quei meccanismi che rendono la nostra vita servitù volontaria. Ma cosa farcene? Giorgio Agamben, nell’introduzione alla nuova edizione del libro emerso dopo tanti anni di oblio, suggerisce che il “programma” di Levi fosse l’autonomia, intesa come autogestione di piccole comunità dove la schiavitù dell’animo potesse essere abolita, per essere liberi di esprimersi autenticamente e così creare. Oggi, senza sorprese, vediamo minacciati e distrutti i piccoli esperimenti di questo tipo che restano ancora in piedi, con un accanimento che dà da pensare. Forse che, oltre a generare paura, la libertà genera anche invidia? Schiavi tutti o nessuno, e il momento attuale ha scelto la prima possibilità.
Nelle pagine di Levi discorso storico e vicenda del singolo vanno a braccetto, ognuno di noi così come ogni epoca è posta di fronte a queste scelte ripetutamente. Niente è perduto, tutto tornerà, nel bene e nel male: così come non c’è la salvezza una volta per tutte, non c’è una sconfitta definitiva. La libertà e la repressione sono due poli indistruttibili che non cesseranno di risorgere, l’uno conquistando spazio a scapito dell’altro, per poi riperderlo. Le rivoluzioni falliscono, ma ci saranno sempre dei divenire-rivoluzionari, diceva Deleuze.
Di scoraggiante banalità dire che sembra – Beckett giovane – un personaggio dei suoi romanzi (sia gli impubblicabili del periodo in questione, che quelli a venire). Ma così è. Tutto comincia con una rinuncia bartlebyana: preferirei non insegnare (e all’epoca Beckett ha già una o due cattedre, già sa tutto, è questo che gli è insopportabile, e gli studenti ridono, ridacchiano, scambiandolo per chissà quale riferimento autoerotico, quando lui angosciatissimo - perché non si può spiegare un bel niente! - cerca di spiegare quello che definisce “suicidio ottico” in Rimbaud). Non si tratta di non avere riferimenti, ma di perderli. Da qui alla fine (dal 1929 al 1940, tecnicamente fra i ventitre e i trentacinque anni) impone a se stesso di riconoscersi e di negarsi in questa sola immagine: un albero sbattuto dal vento in giro per l’Europa di cui vorrebbe strappare le radici, ma il vento stesso preme sulla terra invece di scoperchiarla (ma manca poco anche a questo).
Il primo problema da risolvere si chiama Joyce/Proust. Col secondo si fa in fretta, l’analisi dettagliatissima è coadiuvata dall’immancabile scatologia, che a sua volta non è solo la bozza preparatoria all’eterna posizione Murphy a venire (corde legacci pipì feci erpes psichiatria: corpo martoriato perché questa è l’unica via per avvicinarsi a dire qualcosa sul suo spirito), ma proprio necessaria totale evacuazione: “ventre colicoso” le cui “sedute al cesso” siamo costretti a contemplare. E non si pensi che siano offese gratuite, Beckett sta parlando d’altro, qualcosa d’altro che anche Proust sa bene: scrivere, la fatica di scrivere, è la vera deiezione (i riferimenti sono continui ed espliciti lungo tutta la raccolta, uno per tutti in una lettera del 1930 in cui alcune sue poesie vengono descritte come “tre stronzi presi dal mio gabinetto centrale”). Va’ detto inoltre che il saggio su Proust si chiude con la parola defunctus.
Col primo (che Beckett chiama Penman) è un’altra storia. Lettere addirittura comincia con “Caro Mr Joyce”, sia la prima che la seconda lettera, relative al saggio che Beckett sta scrivendo su Work in progress (poi Finnegans Wake), molto apprezzato da Joyce e pubblicato sulla rivista “Transition”. E poi sottotraccia - accuse degli editori, commenti critici, assoluta autocoscienza del problema - puzza di Joyce ovunque, “a dispetto dei più convinti sforzi di dotarlo dei miei odori” (1931), e un accorato appello a se stesso un anno dopo: “Ma faccio voto di andare oltre J.J. pria di morir”. Detto fatto. Eppure. Qui non si tratta di discutere quel che è quasi lapalissiano, l’influenza di Joyce su praticamente chiunque pensi di scrivere qualcosa in quegli anni (figuriamoci per un così caparbio discepolo). Al contrario, quel che è difficile considerare è la portata dell’immediato e portentoso secondo “preferirei di no”, che solo per umiltà Beckett tace o finge lui per primo di non vedere, per cui fin dall’inizio nel confronto con Joyce si tratta piuttosto di pura profanazione, geniale tradimento, paurosa capacità di imboccare una strada tanto impervia quanto deviante. (Sia Beckett che The Penman schifavano il joycianesimo dei contemporanei, ça va sans dire). Il suo nome è Murphy, semmai il più arguto lavoro di depotenziamento mai visto. Semmai kafkiano (uno che lo ha capito, anni dopo, è Cortazar, nelle folgoranti pagine-citazione dell’ospedale psichiatrico di Rayuela). Semmai ironicamente freudiano (senza contare il rapporto davvero torbido con la figlia di Joyce, a sua volta abbonata a incursioni psichiatrico-ospedaliere).
E se l’origine - Dublino questa eterna tremenda amatissima nemica - è la stessa, e procura la medesima “rabbia stanca, astratta” che invita alla fuga, la risposta di Beckett è più affine a un movimento laterale, una specie di schivata assoluta e rocambolesca insieme, progetto di vagabondaggio e solitudine cui solo le lettere, il cui gettito è strenuamente mai interrotto, pongono un limite. E allora: “Questa vita è spaventosa, e non so come si possa sopportare” (1930); oppure l’estrema propaggine del progetto bartlebyano consegnato al fido Thomas McGreevy: “Comunque nulla è più allettante dell’astensione. Una bella vita tranquilla costellata da esoneri volontari” (1931); o ancora (1932): “[…] gran parte della mia poesia […] fallisce proprio perché è facultatif”. (Uno di questi esoneri, sia detto per inciso, è una lettera datata 2/3/36 a Sergej Ejzenštejn dove lo prega di “essere ammesso alla Scuola statale di cinematografia di Mosca”, e nella presentazione si dice “ho lavorato con Joyce” e, dopo aver precisato che gli “interessano di più gli aspetti di sceneggiatura e del montaggio” si chiude col mirabile “la prego di considerarmi un cineasta serio”. Mentre poco prima nello stesso anno magnifica Pudovkin e Arnheim e ha questa fascinosa speranza che un film sonoro technicolor come Becky Sharp - Mamoulian! - un fiasco nelle sale dublinesi, abbia molto più successo in modo “da creare una riserva per il cinema muto bidimensionale, affossato non appena emerso dai suoi rudimenti”. Da qui a Film scritto per Keaton nel 1964 il salto è naturale).
Ora, quale astensione ed esonero volontario più assoluti e visionari che, in pieno nazismo, partire alla volta della Germania per una visita squisitamente turistico-culturale. Qui Beckett dà il massimo come uomo come scrittore come cineasta. Sono pagine incredibili, che necessiterebbero di ben altro spazio e tempo di riflessione, fondamentali per comprendere questo vero e proprio sacrificio e sforzo di guardare sotto la coltre delle cose. Beckett alla ricerca di strutture architettoniche e artistiche che il nazismo si ossessiona a cancellare. Beckett che visita musei e convince impauriti direttori a mostrargli dipinti esclusi dalle collezioni perché “arte depravata” e viene fatto scendere negli scantinati dove si alzano lenzuola bianche e cominciano visite private sottoterra. Beckett che contatta giovani artisti che vivacchiano in superficie come se fosse un altro caso di sottosuolo. “L’integrità delle palpebre che si abbassano prima che il cervello si accorga del pulviscolo nel vento“.
Non è la prima volta che Jean-Luc Godard per parlare d’immagine parla prima di tutto di ciò che attiene al tatto. Non proprio di un ‘occhio tattile’ tuttavia, nel lavoro di JLG ci possono essere grafi, grafie, tavolozze Fauves rinvenute direttamente nel ventre dell’immagine - ma mai metafore. No, semplicemente Godard parla delle mani. Lang Rossellini Hitchcock. In rapida successione. Mani. Non solo per voltare le pagine del livre o per ‘scrivere’ l’image o per scorrere la pellicola (anche leccarla come Jerry Lewis, parte della storia fisiologica del tatto è nella lingua, nella saliva). Mani come condizione primaria dell’umano. “La vraiè conditíon de l’homme: penser avec ses mains”.
Invero, nulla di meno pacifico. Le dita sono cinque e la composizione origina risultati non preventivabili. Da un lato l’archivio e il suo sistema morale, dall’altro la dannazione di chi decide di intraprendere il viaggio tra immagine e parola senza dire stronzate (“pour ne pas faire caca”/”no bullshit”). Un incubo in una notte di tempesta – i fatti, gli eventi reali, visti come esperienza non di ciò che si fa, ma di quello che non si fa (JLG lo ripete come un mantra durante la scorribanda via face-time che ha scosso dal suo torpore il festival di Cannes e che in mancanza di meglio chiamiamo ancora conferenza stampa). Nulla a che vedere con la parola tanto in voga fake, al contrario un tentativo estremo di maneggiare la bellezza attraverso l’apparentemente dimenticato romanticismo della menzogna come passage per la verità (Benjamin, n’est-ce pas?).
La sequenza di Johnny Guitar, con la sua semplicità e ambiguità al cubo, giunge come un lampo: l’amante dice all’amata dimmi delle bugie, cioè delle verità in forma di menzogne, ripetimi le tue frasi d’amore con l’odio di chi sa di mentire perché dice la verità. “La guerre est lá”. (È da poco scomparso Philip Roth che amava ripetere una cosa come capire la gente non è vivere, vivere è capirla male). Godard, che molto tempo fa aveva rifatto la scena in Le Petit soldat, teneramente ce la mostra. È il primo capitolo di Le livre d’image: Remakes. Che, appunto, diventano rim(ak)es. Ma il poeta è il primo a sapere l’abisso di inconciliabilità contenuto in ogni rima, un secondo un’ora un giorno corrispondono a un giorno una vita l’eternità. Seguono tortura, punizione, l’innocente che paga per colpe non sue. Questo succede a chi cerca di decifrare l’imagine, tragicamente mette altra realtà nella realtà. Come se nulla fosse Godard giunge qui subito al punto cruciale (e subito, alla sua maniera, se lo mette alle spalle): “nessuna attività diventa un’arte prima che la sua epoca, il suo tempo non sia finito, e allora scompare”. Per questo si può non smettere di chiedere che cos’è il cinema, che forse non è neppure ancora un’arte, e che ha questa capacità di giocare a scomparire, di saltare a piè pari epoche e tempi inventando continue sparizioni. Ma ciò non toglie l’orrore delle leggi, la fine della democrazia, la fine del sogno di riscatto degli umiliati e degli offesi.. Ciò non toglie questa Europa senza virtù né futuro..
Così la prima parte dell’ultimo Godard, Le livre d’image, che il Festival di Cannes, senza saper bene che fare, onora della palma d’oro special a conferma lampante di genericità e medietà dei festival tutti. La prima parte, ovvero sotto gli occhi dell’Occidente. Il film è da subito e fino alla fine un trattato di stereofonia, che delocalizza lo spazio uditivo attraverso il rincorrersi e incrociarsi e sovrapporsi delle voci delle frequenze dei volumi (mix oltreumano che ha la follia e il desiderio di un’ulteriore salto mortale, visto che JLG e la sua équipe lo hanno pensato appositamente per la sola sala Lumière di Cannes, e ora sono al lavoro per rifarlo daccapo e presentare il film ogni volta come un happening – “in qualche piccola sala di cultura o in qualche circo” dice ironicamente il già citato Godard versione face-time). E che diffonde l’energia pluri-auricolare sull’immagine stessa - estratti da film propri e altrui, brani anonimi cine-tv e Internet, quadri, grafie, illustrazioni, libri, pennellate, sbavature – scegliendone sempre la versione peggiore, sgranata, decomposta, bruciata dal sole, colata a picco, non più supportata dal supporto, smagnetizzata, graffiata, sradicata. Spesso lo stesso frame, la stessa immagine viene modificata in asse, sformata deformata riformattata, 4:3 e 16:9, cinema tv cinema tv cinema… (non c’è lo spazio necessario, ma andrebbe pensata la vicinanza di Le livre d’image a un film come Vent d’est, non solo per la struttura, lo vedremo, bipartita e la trama, proprio la nervatura tragica e politica insieme, ma per quest’opera di continuo auto-sabotaggio del film e dell’immagine e del ruolo stesso del cineasta, con cui Godard sembra voler ritrovare nell’apparente disfunzionalità del corpo del film il corpo vivo, se è ancora da qualche parte vivo, dello spettatore, chiamato non certo a decifrare la folla di segni parmi nous, quanto piuttosto a liberarsi della propria normatività di decifratore o interprete, e invece fare esperienza della continua disfatta dell’immagine per giungere a essere un’immagine. Da cui il famoso “non è un’immagine giusta, è giusto un’immagine”, che più recentemente Godard ha chiosato spiegando che “i miei film si inseriscono in una corrente della sinistra europea che vola di disfatta in disfatta, in un bello slancio romantico”. Romanticismo che appunto diviene ora il perno di Le livre d’image)…
Fino al capitolo 5, non a caso intitolato La Région Centrale, vertigine che apre al secondo lunghissimo blocco tutto dedicato al mondo arabo, o meglio alla “heureuse Arabie”. Ma intanto l’omaggio a Michael Snow - a quella sua sublime e interstellare esplorazione dello spazio capace di lanciare il tempo oltre stesso, di spalancarlo, squarciarlo dall’interno - ricongiunge il film al suo inizio: quando il tempo è fuori sesto, quando manca a se stesso, quando non abbiamo più nulla da aspettarci, “ci sono cinque dita, la mano”. E le mani bisogna sporcarsele e tornare a parlare del mondo arabo, nucleo da sempre decisivo e non certo per la tragedia che intende finire di stringerlo nella morsa (uno dei film più profetici di tutta la storia del cinema è e resta Ici et ailleurs, firmato da Godard con Anne-Marie Miéville a metà degli anni settanta). Il mondo arabo che non è l’Islam, sia detto in principio. Principio gioioso, appunto. Mentre il cristianesimo è il rifiuto di conoscersi, “la morte del linguaggio”. Qui lo sfogliare il libro dell’immagine araba (da Edward Said a Pasolini all’orrore attuale) è per Godard un modo per spogliarla della violenza con cui viene rappresentata, vista solo politicamente o confusa col Medio Oriente, perché in fondo né il mondo né i mussulmani sono interessati agli Arabi. “Les arabes peuvent-ils parler?” Gli arabi possono parlare? Non so in quanti oggi abbiano la stessa lucidità e insieme tenerezza di porsi questa domanda come fa Godard. Di ricordarsi come questa voce araba, fatta di paesaggi e colori d’infinita intensità, ha saputo e sa dire cose giuste, trovare il volume giusto per dirle. Proprio questa è l’immagine che si cerca di cancellare e di evitare che accada, è un modo per prolungare il giogo. Che orrore.
Ora il film, Le livre d’image, è un fiume in piena, una colata di marca strettamente pittorica e musicale, dove Godard sembra voler dire che è solo l’arte del contrappunto a produrre una melodia. Le livre d’image non crede nella musica d’accompagnamento, ma nell’interruzione, nell’eco, nella deflagrazione, nel viaggio coraggioso fra le macerie (l’Aldrich di Kiss Me Deadly appare quasi subito e anche il Tourneur di Berlin Express). Uno dei pochi, Godard, ancora a credere che il conflitto non è fatto solo per distruggere. Anzi è qui che un’armonia possibile va ricercata. È anche, questo passaggio, lo sprofondamento più romanzesco del film. Il sogno. Le mille e una notte. La città di Dofa. Esempio immaginario che riporta l’immagine alla sua realtà politica. “La scusa d’ogni ambizione politica è quella di fingere di sacrificarsi per il bene del popolo quando il popolo non ha chiesto nulla se non di vivere in pace”. Ma soprattutto, come diceva Brecht, “solo il frammento porta il marchio dell’autenticità”. Siamo alla corsa finale, una delle più commoventi mai viste al cinema. Ci vorrebbero libri interi di immagini, ma di nuovo il cinema sembra capace di questo paradosso fatto di fulmineità e durata. Godard parla e la sua voce si spezza, la cede a Anne-Marie Miéville, la riprende rauco, tossisce. In gioco c’è il soggetto stesso, la necessità di una rivoluzione (“il doit y avoir un revolution”). Sapere che quando si parla a se stessi si parla con la voce di qualcun altro che si rivolge a noi stessi. E se questo è il segreto dell’immagine, allora le nostre speranze, le speranze di una vita, resteranno. Resteranno immutabili. Come la sequenza del ballo tragico dionisiaco romantico da Le Plaisir di Max Ophüls che chiude o riapre le livre d’image.
Questo testo è apparso in prima battuta su Alfabeta2 il 27 maggio 2018.
Ci sono due film giustapposti in Soldado: il film di guerra e il western.
Nella prima parte si predilige il punto di vista dall’alto, il mondo sembra una enorme cartina militare. La ripresa aerea dà la sensazione di dominio sul territorio attraverso la perlustrazione; la visione perpendicolare dei droni e dei satelliti fa percepire lo spazio come un sistema di cose schiacciato e bidimensionale, facilmente percorribile e ordinabile; le immagini rimandate dei visori termici degli elicotteri riducono le persone a ombre sgranate, grigie o verdi. Sono delle proiezioni necessarie, per dare a chi le guarda l’illusione di avere tutto sotto controllo: il mondo non è mai stato analizzato come ora da molteplici occhi elettronici, sezionato in immagini sempre più limpide e definite, dovrebbe risultare chiaro e intelligibile, eppure tanto nitore insinua la sensazione di essere esposti a qualsiasi pericolo. Anche quando la camera scende a terra, compare puntuale la didascalia che indica la dislocazione della messa in scena, come se venissero poste di volta in volta immaginarie bandierine sulla cartina - del resto anche il cattivo super ricercato apparirà solamente come un puntino rosso su una mappa.
L’insieme di queste sofisticazioni serve pure per fornire a chi attacca l’indispensabile distanza tra sé e il nemico da colpire, per poterlo percepire come un semplice obiettivo da abbattere. In questa separazione è facile confondere persone in carne e ossa per dei fantasmi e, di contro, far prendere corpo alle fantasmatiche paranoie che affliggono le narrazioni occidentali: il terrorismo, il complotto delle grandi organizzazioni criminali, il nemico che si mimetizza fra i migranti, il narcotraffico. E tutte queste paranoie vengono fuse tra loro, al criminale viene data la definizione di terrorista, in Messico viene traslato l’Iraq, i poliziotti messicani diventano miliziani contesi da opposte fazioni.
La paranoia induce alla macchinazione, e quanto la paranoia è complessa e pervasiva, tanto più la macchinazione sarà sofisticata. Ma anche l’operazione meglio congegnata può incepparsi. Per far saltare tutto basta una nuvola di polvere: alleati e nemici si confondono ulteriormente, si scambiano i ruoli, si scoprono uguali fra loro. Il piano militare è andato all’aria, bisogna ricominciare daccapo, in un altro modo. Difficilmente si poteva scegliere qualcosa di più beffardo per scombinare un film di guerra e al tempo stesso di più classico per annunciare l’inizio di un western: una nuvola di polvere.
Di colpo cadono le varie sofisticazioni, si perdono droni e satelliti, niente più rielaborazioni grafiche, svaniscono didascalie e coordinate, persino chi ha progettato la macchinazione vorrebbe cancellare tutto senza lasciare traccia. La paranoia viene ricondotta a un più sano sentimento di solitudine.
Benicio Del Toro, il soldado del titolo, quasi con fare rituale (di notte, la scena illuminata dal fuoco) seppellisce le sofisticatissime armi avute in dotazione, tranne una pistola. Non indossa più la divisa da paramilitare ma jeans e una camicia a quadri, poi calca un cappello da cowboy in testa e poggia sulle spalle uno sciarpone di stoffa grossa. Sembra di assistere a un ritorno a una dimensione più lineare e immediata, quando buoni e cattivi erano facilmente distinguibili. Anche il modo di girare di Sollima risulta più fluido, come se si avvertisse il puro piacere di filmare una storia che si riduce a un uomo, la sua pistola, una ragazzina da salvare, e intorno il deserto e il suo immancabile corredo - piani lunghi, albe e tramonti, nemici in agguato. Forse solo una così radicale riduzione può permettere l’emergere dell’istanza morale, impossibile nell’artificiosità del film di guerra ma così necessaria nel western.
E qui c’è un ulteriore scarto, Sollima evita la tentazione di dare un messaggio edificante. La superiorità morale è un lusso per chi è innocente, ma nessuno lo è, neanche nel western, non lo sono nemmeno i morti. Sarà un non morto a chiudere la vicenda, o forse solo a troncarla, potrebbe iniziare un horror, ma si decide che è meglio finirla qui.
A di là della prospettiva ludica che ormai accompagna ogni film di Zahler al suo annuncio - tutto quell’apparato plastico, splatter, come una fermentazione della materia cinematografica secreta, spruzzata, esplosa fuori dalla sua forma (come dimenticare il trascinarsi e consumarsi delle teste di pupazzo sul pavimento in Brawl In Cell Block 99 o lo svuotarsi del corpo, lo spreco così posticcio delle viscere gommose del vicesceriffo in Bone Tomehawk?), e l’avventura dentro gli spazi del genere, il consumo immediato che se ne possa fare - il cinema di questo onnivoro modulatore di trame (comprendendo anche i romanzi, le sceneggiature per altri registi e le musiche per i suoi film), a uno sguardo più attento, mostra una tensione spiccata verso delle resistenti strutture di immaginazione, delle forme di rappresentazione durature che si organizzano intorno al concetto, alla percezione del tempo e fungono da contrappeso (oltre che da contenitore) a quella pratica di consumo tutto intestino, in nome di un equilibrio del film che, ora che è passato anche Dragged Across Concrete a Venezia, si può considerare propriamente zahleriano. Cioè quel bilanciamento tra azione (così immediatamente consumabile, ludica) e pervicace dilatazione del tempo - atta ad assorbire proprio quell’attività, quella violenza delle sagome e il loro deteriorarsi alla fine (spesso fervendo, sbottando di sangue), quello sfarinarsi dei personaggi - che rende possibile la variazione tutta zahleriana sul cinema di genere: dal western, al film carcerario, fino all’ultimo poliziesco, che è un’Arma letale ricomposta, anzi forse ripresa da dove si era interrotta, usando come perno, come addentellato un Mel Gibson-Martin Riggs stanco, invecchiato, incanaglito. Una variazione sul tema, sul genere, che si rivela dissertazione sul tempo (tra le più serie e sorprendenti del cinema contemporaneo), nel tentativo di mostrarne l’essenza, il corpo nudo, cioè un suo materiale spessore, e la sua concreta applicazione nella narrazione per immagini, che allora diviene una qualche slegata (dal filo del racconto), slargata, contemplazione dell’immagine. Si tratta di guardare il tempo, la sua durata, nel corso di un film di genere: Dragged Across Concrete è forse il dispositivo di scandaglio del tempo più trasparente dei tre film di Zahler, in cui l’azione è frammezzata da ampie sequenze di mero brulicamento cronologico; tutto un vagare lento, denso, un girare a vuoto del furgone che poi sarà una cella, un abitacolo di compimento, di concentrazione immaginifica; tutta un’attesa dell’azione che poi giunge, ultraviolenta a disperdere, dissipare corpi, materia cinematografica sacrificata per gioco, un gioco anche crudele, sadico, se si pensa al sacrificio organizzato per Kelly (Jennifer Carpenter), l’attesa appunto, i preparativi della cui uccisione sembrano essere gli stessi per quella, scioccante, della bambina in Distretto 13. Eppure, a conferma di un cinema profondamente polarizzato (tra gioco e serietà, azione e tempo, consumo e resistenza) c’è un senso definitivo, doloroso di perdita intorno alle morti cinematografiche di Zahler, direttamente proporzionale alla disillusione da cui sono abitati tutti i suoi personaggi: un offrirsi consapevole e stoico al loro destino di scomparsa, di cui è perfetto compimento Ridgeman, così amaramente conscio della propria identità di personaggio, e di dover soccombere alla macchina filmica. Che del resto procede inveterata, prendendosi il suo tempo (anche Dragged supera le due ore di durata), declinandolo in continuazione, e mostrandolo, all’interno di un diagramma filmico che prevede dei posti di sosta, le varie, dense tappe che il film segue già dai tempi di Bone: una vera e propria topografia, una mappa del tempo (che ovviamente ha bisogno dello spazio per essere, quindi di queste soste), fino al luogo di sedimentazione finale, la meta di tanto peregrinare, in cui la vicenda si risolve, cioè trova la propria condensazione, consacrazione plastica. In Bone, dopo il lungo percorso nel deserto, nell’alternanza spossante di giorno e notte in cui il tempo si cristallizzava in sfondi di polvere, era la grotta con al centro la brace dove i personaggi venivano macellati; in Brawl, seguendo la cartografia minuziosa di un mondo progressivamente claustrofobico, ctonio, da una prigione all’altra, loculi accavallati l’uno sull'altro, si configurava come la cella 99, forse il più puro di questi spazi di culmine zahleriani, galleggiante non si sa dove nell’edificio di massima sorveglianza: qui, in Across, da strada a strada, tra appostamenti, irruzioni, inseguimenti inconcludenti e per questo appunto rivelatori di tempo, è lo spiazzo davanti a un deposito in cui si ordinano - in una coreografia specifica, di proiettili, sventramenti, sacrificio di corpi - l’auto di Ridgeman e il furgone blindato, capovolto, a definire proprio una prossemica di questo topos zahleriano, luogo di compimento, di addensamento dell’immaginazione, così in balia del tempo.