"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Chiuso in un cassetto l’iPhone 5s di Tangerine, Sean Baker sbarca alla Quinzaine des Réalisateurs con The Florida Project, assolata straziante istantanea del sottoproletariato americano nell’era del selfie, colta in un motel della scialba periferia di Orlando alle pendici del castello di Disneyland, che, suo contraltare, si trasforma nella sua diretta proiezione capovolta attraverso lo sguardo incantato della piccola Moonee e dei suoi compagni di avventure.
Ci si immerge nella frenetica e improvvisata routine estiva di Halley, di appena ventidue anni, e della sua bimba di sei, una quotidianità conquistata con mezzi rocamboleschi e al limite della legalità, per trentotto dollari a notte. Tutta l’immagine è un’esplosione di colori: le pareti, le porte, le magliette dei bimbi e i tatuaggi delle mamme giovani e belle, il cielo blu cobalto della Florida riflesso nella piscina comune del Magic Castel Motel.
Ci si diverte e ci si culla nel ritrovare la bellezza di giochi dal sapore antico, di bimbi che privi di mezzi si affidano alla sola immaginazione e all’ambiente che li circonda e che, costretti, sanno ancora plasmare; tutto il complesso del motel diventa roccaforte da espugnare, sempre cercando di non farsi scoprire dal guardiano del castello - interpretato da Willem Dafoe in uno spaccato di dolcissima umanità. Ci sono gelati ottenuti al centesimo e condivisi in tre, corse verso i campi, piogge di selfies e di boccacce, compleanni improvvisati insieme a fuochi d’artificio raggiunti in autostop, festicciole notturne in piscina di donne che, ancora bambine, sono diventate mamme. Un susseguirsi di immagini screziate da cui trapela una gioia malinconica e che non si colloca in questo tempo e in questo spazio, un’eco che trascende quel mondo sociale e unidimensionale di cui si è ormai misera e costernata riduzione, sorrisi risvegliati dalla memoria di un luogo che sembra - ed è - perduto.
Quella di Baker è però una dialettica di chiaroscuri, di immagini ed emozioni contrarie disposte in scala ascendente, ed è un attimo dallo svelamento di quella realtà che pretende e ottiene di essere sovrana, di cui ci eravamo dimenticati. L’illusione si infrange in schegge di immagini che stringono lo stomaco, così come il dramma umano si determina socialmente. La Disneyland del Magic Moon Motel si trasforma nella Dismaland di Bansky e diventa teatro degli orrori - di sfratti, prostituzione, assistenti sociali e urla - in un copione che prevede la frattura definitiva di questo già mutilo nucleo familiare, l’inevitabile separazione degli unici suoi due membri.
Ma è qui che avviene il miracolo, qui la catarsi purificatrice. Alla fine, gli occhi e il cuore così turbati dello spettatore accompagnano la fuga della bimba in lacrime; Moonee però non corre per scappare come ci si aspetterebbe, e a spingerla così veloce è la sola paura di non poter dire addio alla sua amica del cuore. Sono lì, due bimbe che si guardano e piangono mentre su di loro precipita inarrestabile il terribile mondo dei grandi, e la risposta è di nuovo una corsa, verso la vera Disneyland, per mano, già disperatamente consce a soli sei anni della necessità del senso del ricordo in un mondo che sa travolgere dalle fondamenta ogni cosa. La camera a mano insegue le due piccole fatine, Jansey e Moonee, che volano via verso il Castello.
Buddista, ma non di quelli amati da Kerouac e Ginsberg. Invece razzista, armato e xenofobo. Bersagli non più gli induisti Tamil in Sri Lanka, ma i sunniti musulmani profughi da decenni nel nord ovest della Birmania (Myanmar, per dirla coi militari), da perseguitare, picchiare, cacciare, uccidere. È di moda un po’ ovunque. Tra i seguaci del rito “theravada”, quasi la totalità del paese, cresce un pericoloso movimento virale di ispirazione fascista che programma campagne d’odio e pogrom di immigrati, guidato da un monaco baby face carismatico, estremamente pericoloso anche perchè, strumentalizzato dai dittatori militari si è poi agganciato, opportunista, alla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, oggi al governo.
Ma come raccontare questa truce tragedia, locale e globale? Tra “cinema del reale”, che poeticizza l’atmosfera, per non cadere mai nel peccato mortale dell’ideologia, e coraggio di prendere partito (afferrare il verosimile per le corna e a forza di risposte, non di domande da fare alle immagini, trasformare il film in un procedimento linguistico reale) Barbet Schroeder, come sempre, sceglie il brigatismo rosselliniano.
“La dea della conoscenza non sorride mai a coloro che trascurano gli antichi” scriveva nel 600 d.C. Bartrhari, poeta indiano (monaco 7 volte e 7 volte spretato). Una massima che Schroeder non dimentica quando dà sfondo, aria e prospettiva storico-geografica alle sue indagini - sempre approfondite, e ancora più inquietanti del soggetto che via via ha scovato - sul male e la violenza assurda all’opera nei cinque continenti (questa volta in Asia). Il mitologo romantico dell’800 Creuzer ci svelerebbe il suo segreto: “L’eccedenza, la densità di contenuto rispetto all’espressione”. Il personaggio scelto è simbolico, vale di per sé. Come si dice: è autotelico. Ma dall’espressione del suo volto si decifra un mondo a parte.
I film schroederiani saranno pure “controversi”, come afferma lo stereotipo, ma sono sorprendenti e lasciano sempre a bocca aperta. Fin dalle prime battute, quando Mister W. espone con franchezza la sua hitleriana missione.
Il buddismo, e la sua tradizionale, compassionevole saggezza, è rispettata, attraverso citazioni fuori campo di Buddha in persona, e di bodhisattva successivi, lette da Bulle Ogier. E monaci di teologica virtù, sono intervistati nel controcampo da un cineasta che non nasconde l’attrazione fatale per lo zen e il Dalai Lama ma che in questo Le vénérable W. mette con le spalle al muro proprio l’astuto demagogo populista Ashin Wirathu, 49 anni, bonzo di opportunistica grinta politica, che sfrutta la religione e le sue tossicità contagiose, per una pericolosa scalata al potere fondato su idee-forza simili a quelle di Farage & Salvini o Bin Laden & altri petrolsceicchi nell’Europa pseudocristiana o nel medio oriente wahabita.
Terzo affondo sul “terrorismo” come immaginario collettivo avvelenato a morte dai virus neocoloniali (britannico, francese, giapponese, americano), dopo Idi Amin Dada ('74) e L'avvocato del terrore (2007) sull’avvocato Jacques Vergès, il legale di Klaus Barbie, e difensore storico di irriducibili della lotta armata oltranzista e martiriologica, questa volta il grande regista franco-apolide (nato a Teheran nel '41), visto che l’agognato film su Pol Pot non riesce a chiuderlo, parte all’attacco del bonzo Ashin Wirathu, nemico pubblico n.1 dei i rohingya, profughi del Bangladesh, gli odiati musulmani che, con l’aria serafica di un leader Isis, lui indica come violentatori di donne birmane, minaccia per l’integrità della razza (ma sono solo il 4%!), invasori e nemici da eliminare, attraverso una cospicua produzione di video che drammatizzano crimini in genere inventati. Siamo al confronto cineasta contro cineasta.
Wirathu è presente massicciamente sui social media, libero dopo i 7 anni passati in carcere sui 25 della condanna ricevuta nel 2003 per aver provocato la morte violenta di 200 mila “kalar” (dispregiativo, equivalente a nigger) e l’incendio di case e villaggi rohingya. Amnistiato nel 2010 Wirathu ha ripreso a fare il “Bin Laden birmano”, immortalato nel 2013 dal Time col titolo “Il volto del terrore buddista”. Non che Schreoder sia tollerato di più...
Sconvolgono le immagni dei “pacifici” monaci devoti al non-dio Buddha, ripresi come in Furia di John Ford quando, avvolti nei mantelli color ocra e rosso, bastonano, sventrano e bruciano corpi vivi spinti dalle parole del soave venerabile. Nell’inquadratura-santino, però, sul volto dell’uomo passa, come fosse Eichmann a Tel Aviv, la smorfia psicopatica. L’immagine contraddice le dichiarazioni a sua difesa riportate sui giornali in risposta all’attacco del Time, dove nega ogni responsabilità delle violenze.
Wirathu, sostenuto dall’allora presidente-dittatore, il generale Thein Sein (che lo definiva “persona nobile”) sbandiera i principi del movimento 969 in difesa della razza contro i matrimoni misti e per il boicottaggio delle merci musulmane, il divieto di vendere e acquistare case, la limitazione delle nascite (un figlio ogni 3 anni). Il gruppo oggi si chiama Ma Ba Tha, associazione per la protezione della nazionalità e della religione, ma non è meno sovranista né suprematista.
Lo shock de Le vénérabile W. deriva dalla folla di seguaci, dalle donne adoranti, dal seguito di massa, dai singoli zombizzati che inseguono un ragazzo e lo abbattono a bastonate, e accatastano i cadaveri in un rogo apocalittico.
Molte però le voci dissonanti, gli anziani monaci che “scomunicano” il predicatore sanguinario e i giornalisti, anche stranieri, che inquadrano con destrezza i fatti. Parla anche l’inviata delle Nazioni unite Yanghee Lee, definita da Wirathu, con la sua aria diligente, una “puttana” invitata a “dare via il culo ai kalar”. Fuori campo, il Dalai Lama consola e dice “uccidere in nome della religione è impensabile”. Eppure l'oppio dei popoli continua a fare politica.
Vive nel mondo postgenere, non ha un sé originale né una storia, non ha un Eden da ricordare né memoria del cosmo, non rimpiange la famiglia organica, l’oikos... è Okja.
Sintesi di un’epoca e di un cinema “disumani”, la creatura di Bong Joon-ho è il meraviglioso atlas della geografia interconnessa di corpi inessenziali, fantasmatici, eppure pieni di desiderio. Forse inconsapevole, il regista di Taegu ha messo in scena il sogno di Donna Haraway, filosofa, e il suo manifesto cyborg. Corpo materico, corazza prodotta in serie, modello ippopotamo/maiale/cane, sguardo adorabile, Okja è una femmina di superpig, prodotto da una immaginaria multinazionale sudcoreana, la Mirando Corporation (alias Monsanto), boss una Tilda Swinton estremamente pop e crudele, figlia dell’inventore del napalm, memorabile per aver imbrattato le pareti della sua fabbrica di sangue operaio. Più che metafora, cronaca.
Alterata l’alchimia cellulare della bestia ogm, che come il mostro di Mary Shelley, chiede di essere amato e non di “sfamare il mondo”, Bong Joon Ho ha voluto Okja come risultato benefico di una manipolazione malefica, al contrario dell’anfibio mangia-uomini di The Host.
Gli incroci di senso si infittiscono nella relazione simbiotica tra la ragazzina Mija (Ahn Seo-hyun) e la bestiona cresciuta libera tra le montagne verdi, esperimento che genera non solo un magnifico esemplare da esposizione, ma il mix inscindibile animale/essere umano/macchina. Okja è un super maiale senziente nato due volte, nei laboratori Mirando e Netflix. L’azienda via internet, produttrice del film, ha negato al regista il 35mm e imposto il 4K, giustamente. Cos’è Okja se non l’avamposto dell’immateriale che pretende di scorrazzare tra i boschi, “pesare” (tonnellate) sul mondo analogico, e ritagliarsi un posto tra i viventi? Non c’è più frontiera ormai tra natura, umana e animale, e artificio. “Le nostre macchine sono stranamente viventi - scrive la filosofa americana - e noi, noi siamo spaventosamente inerti”. Vivacità del non-essere, del robot intelligente senza padri e dal sesso cangiante. L’aberrazione estrema sta nel fatto che il bestione di pixel si può riprodurre, e li vedremo i piccoli nati da genitori senza carne né sangue ammassati nel tetro mattatoio dove il superpig verrà macellato, sequenze conturbanti nel buio dei recinti, in attesa che la pistola spari nel cervello di tanti Okja. Visioni perverse da Alberto Grifi con le sue mucche sacrificate e da John Berger con il suo abisso che separa noi dall’animale, improvvisamente vanificato da Bong Joon-ho in quell’intimità transumana che fa strofinare la piccola Mija al “drago riluttante” disneyano.
C’è una promessa d’immortalità nel film in concorso a Cannes 70 e accolto da una selva di fischi per la perfetta distorsione con il quale è stato proiettato per 8’ prima che il proiezionista si accorgesse del formato sbagliato. Segno di una confusione concettuale, non solo tecnica - dallo schermino web al grande schermo - e di una indecisione sul come trattare l’ibrido assoluto Okja, un po’ il Totoro della Ghibli, simbolo del cinema Netflix, al centro di polemiche per la destinazione on line del film e la mancata anticipazione nelle sale francesi. Non che meritasse la Palma d’oro, ma l’anatema del presidente della giuria Almodovar ha confermato l’eccezionalità culturale del superpig, lasciato correre a travolgere ogni cosa nei vicoli antichi della moderna Seoul e poi nell’aeroporto tra cacciatori metropolitani e ineffabili animalisti, a testimonianza della sua esistenza. Mastodontico virtuale, “creatura da compagnia”, destinato a fare spettacolo sul palcoscenico di New York, in memoria di King Kong. Vittima la bellezza selvaggia e libera ai tempi di Cooper e Schoedsack, e ora specie da proteggere, specchio della metamorfosi che ci accompagna.
Dove torna e da dove riparte il cinema di Philippe Garrel. Attraverso un bianco e nero abissale che inghiotte nuove maladies d’amour, in un cinema fatto ancora di gesti, di scatti, di slanci, di abbandoni. L’amant d’un jour, come molto cinema di Garrel, filma l’istante proprio per catturarlo, per dilatare un tempo che è già perduto. Che il cinema può avere il potere di fermare, di intrappolare nello spazio di un fotogramma. Come avveniva in La gelosia e L’ombre des femmes, che possono comporre con L’amant d’un jour un’ideale trilogia. Di come l’intermittenza dei sentimenti può essere filmata attraverso corpi che appaiono come ombre, sottolineata dalla musica del pianoforte (che potrebbe anche fuoriuscire dalla colonna sonora e accompagnarla dal vivo) che scandisce tutti i battiti del (loro) cuore. Senza sapere mai quello che succederà. In un tempo che è il presente ma può essere indefinito con una voce-off che potrebbe situarsi più dalle parti del romanzo che del cinema. Ma quello di Garrel è tutto un lavoro di straordinaria sottrazione. Per questo L’amant d’un jour appare ancora come un film impetuoso, che ha la malinconia travolgente di Le vent de la nuit. Dove l’amore e la morte sono insieme sinonimi e contrari.
Un padre, una figlia e l’amante. Les amants (ir)réguliers di un cinema che sembra rigenerarsi ogni volta dalle proprie ceneri. Distruttivo e che brucia d’amore. Jeanne torna a casa dal padre dopo una dolorosissima rottura sentimentale. L’uomo ora convive con Ariane, la sua nuova compagna che ha più o meno l’età della ragazza. Ancora con tracce di un cinema che mette in gioco se stesso, i propri legami familiari, con la presenza di Esther Garrel, la figlia del regista dopo Louis in La gelosia, Un été brûlant, La frontière de l'aube e Les amants réguliers. Non c’è più distinzione tra il cinema e il vissuto. Tutto si confonde, tutto viene inghiottito. Non si può pensare, costruire una scena come quella in cui Gilles torna a casa e bacia prima la figlia ingelosendo l’amante. Lì c’è l’istinto, la traiettoria di uno sguardo che sa già cosa avviene prima che avviene nello spazio della scena che è già luogo intimo. La magia tra gesto e sguardo, immortalato anche dalla fotografia di Renato Berta che potrebbe replicare Raoul Coutard ma piombare anche in altre epoche, altre dimensioni spazio/temporali come può aver fatto con Manoel de Oliveira o Mario Martone. Togliendo i dialoghi a L’amant d’un jour, sarebbe quasi come un melodramma del muto, quasi un Frank Borzage dove potrebbe prendere forma l’atto estremo, quello più disperato e definitivo. Al tempo stesso, proprio in quel bianco e nero ci sono tutti i colori della Nouvelle Vague: i nomadismi di notte sulla strada (la splendida apertura con Jeanne che è seduta per terra e piange e poi cammina da sola col trolley), la voce sullo schermo nero, la fisicità del corpo ma anche della voce, come l’illusione della telefonata di Jeanne all’uomo che l’ha lasciata. “Plus jamais?”. Chissà quanto potranno tornare ancora in Garrel tutte le molteplici forme del desiderio. Come se L’amant d’un jour potesse avere ancora un sequel. O potrebbe arrivare anche dalla fine degli anni ’60, dai tempi di Marie pour mémoire. Perché si, il tempo filmato di L’amant d’un jour è già memoria. Nel labirinto di uno spazio dove le porte e soprattutto le finestre hanno un’importanza determinante. La finestra dove affacciarsi per guardare dall’altra parte. Ma anche il luogo dove oltre c’è il vuoto, nella spinta suicida di Jeanne poi salvata da Ariane in uno dei travolgenti momenti di un film che ha una spinta fisica inarrestabile. Ma anche la finestra tra il dentro e il fuori. Tra quello che lo sguardo di Garrel può mostrare e quello che c’è oltre. Che non è fuori-campo ma un’altra dimensione. Quasi di un ipotetico film di fantascienza con pianeti lontani. Perché il cinema di Garrel stesso, oggi è uno splendido alieno. Impermeabile ma anche pieno di sottili aperture. Che ancora rivela il piacere e la tristezza. L’amour c’est gai l’amour c’est triste.
Ecco un giovane regista turco, Mehmet Can Mertoğlu (Albüm), che, alle prese con la storia di una coppia che finge una gravidanza documentandola con false fotografie raccolte in un falso album di famiglia per gli amici (in realtà si tratta di nascondere che stanno adottando un bambino: quindi è tutto vero!), fa di tutto per sfuggire all’incastro didascalico fra grottesco e affresco socio-politico (dalle parti di Kaurismaki) attraverso la reinvenzione continua dello spazio casalingo e l’irruzione del fuori campo come indizi filmici di uno smarrimento collettivo (di un’intera società, anche se non c’è per fortuna alcun banale sociologismo). Non a caso il film comincia con un plan straniante in cui il mancato accoppiamento fra due mucche viene velocemente risolto con un intervento artificiale sulla femmina: nessun moralismo, è solo che la prova dell’appartenenza biologica non ha più nulla a che fare con il corpo che concepisce, può benissimo bastare il surrogato di un’immagine, e in certi casi la sola pia illusione. La teoria affabulatrice della nostra simpatica famiglia (due prodotti dell’epoca dei centri commerciali, un po’ bulimici, un po’ folli, un po’ spietati) rispecchia con certa qual pedante precisione (ma il regista è molto determinato in questo), l’idea che l’immagine non perde più tempo a verificarsi o a sedurci con un secondo livello di verità, no, semmai marca una distanza, è l’impersonale fatto persona e buono per tutte le occasioni. Da qui l’umorismo giustamente greve e cinico del film, dove gli attori sono a tal punto mascherati (ingrassati, imbruttiti, illividiti), da essere invece proprio loro stessi, in modo da raddoppiare il disincanto delle identità che è alla base del film. Di nuovo, anche Albüm risente di qualche freddezza programmatica di troppo, cui il regista cerca di opporre alcuni scatti visionari potenti e inavvertiti (vedi la sequenza del furto in casa). Ma cosa possono fare questi giovani oggi costretti, prima ancora di girare, ad almeno tre anni divisi fra pitching, statements, e soldi razzolati ovunque sia possibile (è la co-produzione, bellezza), subendo poi pressioni per il mantenimento anodino della sceneggiatura fino all’ultima scena (viene voglia di scrivere romanzi, piuttosto), quando invece ciò che davvero conta è la drammaticità con cui l’immagine, per essere vista, deve correre il rischio dell’invisibilità. Anche su questo Can Mertoğlu è chiaro: verrà il giorno, sembra dire, che anche il film che faremo sarà solo il film falso per nascondere quello vero (oppure nessuno dei due).
Guadagnò la breccia, s'inerpicò per il suo coloso sentiero e fu sulle falde della gigantesca, mammutica collina di Mango. Ondosamente incombevano su lui i boschi neri, come carboniosi, e gli aperti, sfuggenti prati, su alcuni dei quali stavano greggi al pascolo, apparentegli così alti ed immoti come una torma di massi erratici arrestati da una mano miracolosa a mezzo dei vertiginosi pendii.” Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio
Il bosco. Il bosco dietro il muro. I tempi felici verranno presto inizia scuro, carbonioso, con due ragazzi, potrebbero essere partigiani, e probabilmente ci fa piacere pensare che sia così, che scavalcano un muro, fuggendo, e si ritrovano a vagabondare per un bosco. Cacciano conigli, ridono, fanno la lotta, giocano con un fucile abbandonato in una casa il cui proprietario è stato ucciso dalle stesse persone che stanno cercando i due ragazzi per ucciderli.
In un bosco si era già perso Alessandro Comodin ne L’estate di Giacomo. Seguendo Giacomo nel bosco alla ricerca della radura sul fiume, il cinema di Comodin lascia il cinema del cosiddetto reale per esplorare sfuggenti prati e vertiginosi pendii.
Un salto temporale e il ritorno nel mondo (del) reale. Un buco come lo specchio di Alice.
In una valle delle Alpi cuneesi, Comodin è alla ricerca del lupo. Incontra storie che raccontano di un lupo innamorato di una cerva bianca, ma anche del lupo che sbrana le pecore e del lupo che forse ha incontrato Ariane, la figlia di Dino, tornata da Parigi nelle montagne per curarsi e per stare all’aria buona. Ma che è fuggita nel bosco, con il suo asino e non è più tornata, forse sparita nel buco che essa stessa ha scavato e che l’ha portata vicino a uno stagno dove ha trovato un lupo dalle fattezze umane.
Sembra che i personaggi de I tempi felici verranno presto seguano la tradizione islandese, descritta da Ernst Jünger ne “Il Trattato del Ribelle” (1951), che lasciava ai condannati, ai prescritti, agli esclusi il “ricorso alle foreste” per diventare Waldgänger: “Chiamiamo invece Ribelle chi nel corso degli eventi si è ritrovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. Ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti - perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso ad opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all'automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo.”
Il ricorso alla foresta, al bosco è la conseguenza di una scelta, anzi è la scelta stessa, che fanno Tommaso e Arturo, i due giovani partigiani, che fa Ariane e che fa lo stesso regista.
È una scelta di estrema libertà, perché la foresta, il bosco hanno tempi altri, i buchi diventano buchi temporali in cui ci si nasconde per uscire in altri luoghi e in altri tempi e i Ribelli si nascondono, fuggono, ma riappaiono sotto altre sembianze, forse mai le stesse. Il tempo della narrazione perde linearità, a volte diventa illogico, insensato, ma non ha importanza. Ciò che diventa importante è l’atto di approfittare di quelle radure in cui la luce spezza il buio per creare di nuovo vita e di nuovo cinema, ed è interessante scoprire come il ”ricorso alle foreste” sembri rappresentare un’occasione che un certo cinema italiano stia utilizzando per raccontare storie e personaggi antichi con un’estrema libertà formale, come, per esempio, nel film di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, Il Solengo, altro escluso, Ribelle, rifugiatosi in una capanna (quella di Thoreau? O quella di Kaczynski-Unabomber) nel bosco negli Appennini toscani.
Si parte dal buio e dal nero, l’impossibilità del vedere è essa stessa un/il vedere. Siamo ciechi, aggrappati al nostro udito, l’audio ci porta alla sottomissione di Michelle, definisce quell’immagine che non c’è (per noi come per lei). Quel fotogramma emerge solo nello sguardo del gatto vuoto/vitreo, e lì sarà incapsulato per sempre. Il campo si apre, ora si vede lei violentata da un uomo mascherato, e noi spettatori lì, inutili e complici come il micio. Un attimo e la sua reiterazione, una ferita insanabile, spina nelle carni di un corpo in trasformazione, riflessa nei comportamenti della sua protagonista. Michelle possiede una società di videogiochi, ludoteca vivente in cui spesso la sfera dell’esposizione sessuale e del potere è un aspetto fondamentale. Allo specchio la ricostruzione di un quadro, l’esigenza di raccontare un’esperienza di vita traslata in un’analisi frammentaria ma estremamente logica dell’alta borghesia di un’Europa che forse non c’è più, o che oramai spicca solo per la sua decadenza.
Sono i fantasmi stessi di un continente a dover trovare il proprio senso, ricontestualizzati in un rapporto perverso con i media, e nello stesso rapporto della protagonista con il proprio io, nel complesso ed auto-imposto tentativo di rimozione di un evento e del suo apparente superamento, proprio attraverso il buio. Ma il limite è debole, come la carne, e la confusione di una ricerca sempre più pericolosa e misteriosa, una passeggiata sul filo del rasoio, una deriva continua di sguardi e sensazioni che attivano un senso del meraviglioso sbalorditivo, quasi impossibile da identificare, ma che a sua volta si verifica con il vivificarsi della narrazione. L’esperimento di Verhoeven allora appare come uno statico atto d’osservazione, legato al cambiare (e cambiarsi) di Michelle in conseguenza dello stupro, soprattutto in relazione con la società che le apparteneva. L’indagine del film diventa il provocatorio delirio di rivendicazione delle ferite che metaforicamente si (ri)presentano nella vita. Azioni corrisposte da un senso di necessario ed inevitabile, come tendenti a un fine spesso oscuro, difficile da intuire, designato e disegnato da un inconscio provvisoriamente inconsapevole e non sempre sotto controllo.
Verhoeven ritorna al suo cinema della fisicità più esposta, terribilmente sensuale, sorprendentemente audace nella sua originale funzionalità. Mai banale, perennemente discontinuo e a tratti sfrontato, che affascina e abbaglia. Definisce la figura della splendida Huppert (si salvi chi può…) sempre all’interno dell’inquadratura come motore unico (e spesso fine) dell’azione. Ed in quella movimentata staticità siamo noi stessa a guardarla con nuovi occhi, perchè in fondo ciò che continua a muoverla, forse anche ossessivamente, è la difesa dei suoi privilegi e l’autoaffermazione doverosa dei propri principi/progetti, nulla per lei probabilmente è cambiato. Questa impossibilità, propria dello spettatore, di ricongiugimento delle due figure di Michelle appartiene allo slittamento continuo di registri e personaggi, definendo il lavoro stesso di Verhoeven, dove il cosiddetto thriller/noir sposa fantasie segrete ai tratti dell’assurdo e a una forte componente analitica. In fondo rimane il solito dilemma, quello tra l’essere autori o attori della propria vita, quello che lei (Elle) continuamente cerca nella fusione totale del proprio Io con la sua diretta espressione ed esposizione sociale. Un’immagine, una vita, un’altra immagine, nel buio.
La séquence d’ouverture se situe vers la fin des années 1960: Clara glisse avec enthousiasme une cassette dans l’autoradio de la voiture immobilisée sur la plage pour faire découvrir à son frère et à sa petite amie Another One Bites the Dust de Queen.
Mais peut-être tout cela a-t-il d’ores et déjà commencé avant au fond, par une montée des marches cannoises venue adéquatement perturber un instant l’univers singulier et parallèle du festival: l’équipe du film, au moment de la classique pose au « sommet », manifeste silencieusement sa désapprobation quant à l’éviction de Dilma Rousseff. « Un coup d’état a eu lieu au Brésil ».
Tourné à Recife, au nord-est du pays, comme l’était déjà le premier film du cinéaste (Les Bruits de Recife, 2012), Aquarius s’inscrit donc dès le départ dans un cadre largement politique: celui d’un Etat actuellement en crise, mais aussi – c’est le récit du film – celui d’un pays plongé comme tant d’autres dans le libéralisme, d’une société et d’un quartier malmenés par des enjeux économiques. Mendonça Filho, dont le cinéma manifeste une clairvoyance et une sensibilité indéniables, poursuit ainsi son exploration du terrain qui lui appartient; la classe moyenne, incarnée ici dans le microcosme évoluant autour du personnage central, et dans les rapports, non dénués d’un certain paternalisme, qu’entretiennent les personnages avec leurs employés de maison. Une démarche plutôt singulière, exacerbée dans sa particularité par le choix d’une protagoniste féminine d’un certain âge. Sous les traits de la bouleversante Sonia Braga, c’est un portrait qui finalement se déploie sous nos yeux: une femme-enfant d’une soixantaine d’années, aussi belle qu’attirante, orgueilleuse qu’aimante, une femme forte, une femme libre.
Ancienne critique musicale, Clara vit depuis toujours dans son appartement de l’immeuble Aquarius, au bord de l’océan; elle y a vu grandir ses enfants, son époux terminer ses jours, la vie couler, tranquillement. Mais l’édifice est désormais isolé, pris d’assaut par les complexes immobiliers modernes, et Clara est la seule habitante qui a résisté aux insistantes sollicitations du promoteur.
Dépeignant les espaces avec grande habileté, que ce soit à l’aide d’élégants panoramiques ou dans la façon même dont il filme les intérieurs, le réalisateur rend compte d’un quartier en mutation, sur le point de s’éteindre. Pourtant l’omniprésence de Sonia Braga, dans chaque plan et sur chaque image, installe incontestablement le propos du côté de la résistance. Celle des lieux, celle de la mémoire – incarnée non seulement par les archives mais aussi par un rapport délicat au son et à la musique –, celle de la vie enfin: Clara, qui a vaincu un cancer du sein, flirte avec le garde-côte sur la plage le matin, joue les complices avec son neveu adoré et parfois invite un gigolo chez elle la nuit.
Le souvenir d’un film toujours est éloquent; est-ce une séquence, une image, un son, une couleur, parfois même une matière. Ce qui persiste ici est avant tout la délicatesse avec laquelle Kleber Mendonça Filho parvient à ménager un espace privilégié pour son actrice, partageant avec elle un objet dont la portée en fin de compte va bien au-delà des quelque 140 minutes de film. Avec finesse, avec modestie, et, pour citer un autre film cannois (Mimosas, Oliver Laxe, présenté à la Semaine de la critique): with love.